La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 11 novembre 2016

Matteo come Hillary, e il finale è già scritto

di Paolo Cosseddu 
Beppe Grillo, prevedibilmente e pur con qualche distinguo, ha rivendicato di essere in sostanza il Donald Trump italiano, il che fa di Matteo Renzi la nostra Hillary Clinton: è una verità di per sé stessa evidente, come direbbe Thomas Jefferson. Il paragone non è azzardato, ma ha solide basi teoriche: Hillary Clinton si è infatti candidata a proseguire, vent’anni dopo, quella Terza via che caratterizzò la leadership di suo marito Bill negli Usa e di Tony Blair in Gran Bretagna, e a cui Matteo Renzi ha sempre detto di ispirarsi. Che consisteva, e consiste, in un posizionamento intermedio tra destra e sinistra, nella conciliazione tra politiche economiche liberiste e politiche sociali progressiste. Con uno scivolamento progressivo verso le prime, come si è visto nel tempo.
Le elezioni americane hanno appena mostrato che quella ricetta non convince più, non è più adatta ai tempi, è invecchiata ed è invecchiata male. E non è arretrata solo rispetto alle proposte di Sanders, principale avversario della Clinton alle primarie, ma anche rispetto all’agenda degli otto anni di presidenza Obama: come se gli anni non fossero passati, come se non fosse successo niente da allora, si proponeva quindi non di proseguire sul percorso iniziato ma addirittura di tornare indietro, insomma una follia totale.
Così, quando il campo democratico ha tirato un sospiro di sollievo per l’appoggio di Bernie Sanders a Hillary Clinton, con l’accoglimento da parte della vincitrice delle primarie di alcune delle issues di Sanders, è rimasto sullo sfondo un enorme nodo irrisolto: che tutta la campagna di Sanders si basava sul superamento del legame tra finanza e politica, un legame che Hillary Clinton incarna e non voleva – e probabilmente nemmeno poteva – rinnegare.
Per la Clinton quel nodo è stato letale perché ha finto di non capire che non basta, per convincere gli elettori progressisti, avere una posizione avanzata sulla cannabis, sull’immigrazione o sui diritti civili, se poi si hanno tra i propri finanziatori le grandi banche, se si viene pagati molti molti soldi per tenere discorsi negli ambienti finanziari, e poi in campagna elettorale si rifiuta di raccontare cosa contenevano quei discorsi, per valere così tanto denaro. Questo non per sminuire i diritti civili, anzi, ma perché senza una coerenza complessiva si finisce addirittura per danneggiarli, per desertificare il campo in cui dovrebbero innestarsi, oltre che fornire alle destre la formidabile occasione di usarli sulle fasce più deboli della popolazione come esempio di ipocrisia e facile causa di tutti i mali.
Quindi sì, per venire a noi, la legge italiana sulle unioni civili è un passo in avanti – pur se insufficiente – ma in ogni caso non basta a compensare il jobs act e la progressiva distruzione dei diritti dei lavoratori (per citare un esempio lampante ma non unico). E non basta ad ancorare il Pd nel campo progressista, specie a fronte di un’ostentata vicinanza di Renzi e del suo partito a Confindustria, alle banche, insomma all’establishment: le sue posizioni su temi quali appunto i diritti civili e l’immigrazione (per non parlare della cannabis) sono peraltro decisamente più timide – or, as we say in Italy, “democristiane” – di quelle della Clinton, mentre in compenso le sue uscite alle assemblee degli industriali o dei costruttori sono persino più sfacciate. Hillary può almeno rivendicare di aver avuto il voto dei millennials, mentre Renzi non ha nemmeno quello, e in questo momento rappresenta malgrado i suoi sforzi leopoldini e la retorica del sì al referendum una conservazione a tutto tondo, vicina agli interessi finanziari e sorda al malessere di parti sempre più vaste della società.
Quello che è arrivato dagli elettori americani è quindi uno schiaffo alla cultura del compromesso, all’imposizione del meno peggio, alla tesi governista per cui “qualcosa è meglio di niente” (con cui incredibilmente i sostenitori del sì al referendum promuovono la riforma costituzionale, contenti loro), all’arroganza con cui si è bollata di ingenuità e di mancanza di pragmatismo qualsiasi proposta se non ambiziosa quantomeno ragionevole o migliorativa venuta da sinistra in questi anni, e dovrebbe far profondamente riflettere proprio la sinistra che sta ancora nel Pd per cambiarlo da dentro o vi si vuole alleare da fuori: perché non è più credibile governare con un partito che si è legato indissolubilmente a interessi che non sono quelli dei suoi elettori, e nemmeno finge più che non sia così, anzi lo rivendica.
È per questo che quando Renzi e i suoi retwittatori seriali usano l’esempio di Sanders per richiamare le minoranze all’unità dimostrano di non avere la più pallida idea di quello di cui stanno parlando: perché se il richiamo alla linea non funziona in un paese come l’America, che non solo è bipolare ma è sostanzialmente bipartitico, figuriamoci se può funzionare in un paese come l’Italia che come minimo di poli ne ha tre e di partiti (e di culture politiche, malgrado tutto) un’infinità.
E il parallelo tra Matteo, Hillary e ciò che è successo in America non si limita alla politica, riguarda anche i grandi giornali e tutti gli altri poteri forti. Come ha dimostrato la notte elettorale americana, più i media, persino quando la criticavano, dipingevano Hillary Clinton come una scelta obbligata e senza alternative, più rendevano diffidenti gli elettori e li spingevano verso Trump, o semplicemente all’astensione. Esattamente come in Italia, dove con miopia e stupidità tutti i cosiddetti poteri forti del paese, dai gruppi editori dei giornali a Confindustria (e per parecchio tempo anche Berlusconi, non dimentichiamolo) hanno puntato su Renzi, e più ci investono più spingono il Paese verso Beppe Grillo. It’s that simple. Ed è pure incomprensibile: se si teme Grillo, e se la ricetta che si propina (Renzi, e la cultura del pensiero unico che incarna) non piace, che senso ha insistere che va mangiata a tutti i costi fino a farsela tirare in faccia? Non è meglio proporne altre?
Se non si inizia a costruire una proposta realmente diversa, a fornire un’alternativa, quando l’inevitabile accadrà, i mercati andranno a picco e si scateneranno gli opinionisti pieni di preoccupazione, scandalo e panico, gli stessi che hanno causato il guaio si interrogheranno per capire come è potuto succedere. Ma quel giorno sarà troppo tardi, basterebbe rendersene conto adesso. E, posto che è legittimo che i media – così come i loro azionisti – facciano scelte di campo anche politico, non dovrebbero comunque subordinarle alla loro mission di fare una corretta informazione, così come sarebbe saggio, dal punto di vista strategico, riflettere sull’opportunità di insistere così ottusamente nella ostinata coltivazione di un pensiero unico e senza alternative (never put all eggs in one basket) e sul rifiuto che questo ha generato nei loro (ex) lettori.
Certo, si potrebbe obiettare che anche ammettendo la fondatezza questa tesi il campo della sinistra italiana è messo peggio di quello della sinistra americana (il che è tutto dire), che è talmente devastato che in ogni caso non ci si può far nulla. Più che un dibattito sulla sinistra, però, serve piuttosto occuparsi di salario minimo orario e reddito di sostegno, di discutere su come far pagare le tasse alle multinazionali e agli evasori, e la tassa sulla casa alle ville, di abbassarle a chi ne ha più bisogno invece di dare bonus a chi sta bene (e così via). A patto però che molti di quelli che negli ultimi anni hanno investito sull’esistente, e che a questo punto qualche dubbio dovrebbero pur esserselo fatto venire, si chiariscano le idee sul quadro generale e inizino a considerare l’idea di investire il loro tempo e le loro risorse nella costruzione di qualcosa di diverso: qualcosa che abbia senso, però, e che sia coerente. Perché non è più tempo per le scelte a metà.
E perché se va avanti così il finale è già scritto, e lamentarsi sarà tardivo e inutile.

Fonte: Possibile 

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