La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 10 novembre 2016

Lotte: un patrimonio occidentale?

di Franco La Cecla
Seguendo il dibattito tra Amitav Ghosh e Dipesh Chakrabarty (si tratta di un serrato epistolario tra lo scrittore Amitav Ghosh e Dipesh Chakrabarty – docente all’Università di Chicago, autore di articoli e monografie sul postcolonialismo -, sulla relazione tra India e Occidente, ndr) si potrebbe aggiungere che forse uno dei contributi dell’Occidente a un mondo come quello indiano potrebbe essere l’idea che è possibile lottare e che lo si può fare organizzandosi. Gli scioperi, la Marcia del Sale, le varie manifestazioni di protesta organizzate dallo stesso Gandhi affondavano nella tradizione delle classi oppresse e delle classi operaie, nei movimenti contadini europei e nel sindacalismo inglese che il giovane Gandhi aveva conosciuto come avvocato in Inghilterra.
E si potrebbe anche aggiungere che soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta e Settanta molti dei movimenti di liberazione nel mondo si sono ispirati alle idee cresciute in Europa e in America all’interno del movimento operaio e sindacale, e ai movimenti libertari. Il marxismo, con tutte le sue appendici di maoismo, sindacalismo e lotta di classe, è stato un colonialismo occidentale di un certo tipo, che ha contagiato molti paesi asiatici, nord-africani e latinoamericani. E che spesso ha mostrato la sua natura un po’ spuria, non attinente alle geografie e culture diverse in cui si innestava, con disastri, con regimi socialisti avventati e crudeli, con la devastazione di mondi indigeni in base a un presunto operaismo modernista, e con una violenza che ha spesso portato all’opposto di ciò che si sarebbe voluto ottenere.
Altrove è arrivata la tradizione dell’anarcosindacalismo e dei movimenti libertari che, come racconta James C. Scott in Elogio dell’anarchismo, sono stati in genere capaci di inserirsi in modo più conscio nelle logiche dei tessuti sociali e umani locali.
L’esportazione delle ideologie di liberazione dall’Occidente al resto del mondo è stato per certi versi un grande contributo, l’idea di un internazionalismo nuovo che faceva degli oppressi un popolo comune con interessi comuni. Ma per altri versi ha spesso ignorato l’esistenza di forme di lotta che erano già radicate nella tradizione locale anche se non corrispondevano all’idea di «lotta» tipica dei movimenti operai e contadini europei.
Ce lo ricorda sempre James C. Scott nel suo grande lavoro sulle forme di resistenza da parte di alcune culture tribali in una zona dell’Asia stretta tra India, Birmania e Cina [James C. Scott, The Art of Not Being Governed, An Anarchist History of Upland Southeast Asia, Yale University Press, New Haven, 2009]. Si tratta di ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato «resistenze», forme di insubordinazione e di evitazione, una maniera di sfuggire al controllo statale e nazionale per mantenere un’autonomia. È la storia dei popoli caucasici nei confronti dello zarismo e del bolscevismo, è la storia di molte forme di resistenza indigena in America Latina, Oceania, Sud-est asiatico.
La lotta, in questo senso, non è un’invenzione occidentale, anche se la storia dei movimenti di lotta in Europa e in Occidente ha sicuramente influenzato molte forme di lotta nel resto del mondo. La differenza, che fino a poco tempo fa non veniva riconosciuta, è che nelle forme di resistenza non-occidentali ci sono strategie, tecniche, pratiche che noi definiamo non-violente solo perché ci sembra che sfuggano all’idea di presa del potere, tipica di un discorso di avanguardia ispirato al marxismo. In realtà, l’obiettivo di molte forme di lotta tribali, indigene, ma anche di movimenti di massa come quelli che hanno avuto luogo in India prima e dopo Gandhi, è quello di affermare il proprio diritto all’autonomia, a essere lasciati in pace. Sono forme «acefale» che mirano non alla presa del potere, ma a svincolarsi dal controllo e dal potere altrui. In un certo senso è proprio l’Occidente ad aver scoperto, dopo la caduta delle ideologie, forme di lotta che vengono da altrove e che non si basano su un’idea elitaria della lotta, pacifica o armata che sia.
L’idea che ci siano pratiche di resistenza molto più efficaci delle pratiche di attacco è giunta in Occidente solo dopo anni in cui lo scontro, il conflitto, avevano rappresentato un orizzonte unico, ma anche una prospettiva di spaccatura della società. E oggi gli eredi di questo approccio (da avanguardia marxista rivoluzionaria), che lo ammettano o meno, sono proprio i fondamentalismi religiosi, che del settarismo delle avanguardie e della loro violenza si sono appropriate.
Rimane aperta la questione se un certo tipo di «internazionalismo» non mantenga tuttora un suo valore, come quando lancia appelli affinché gli interessi degli oppressi siano trans-nazionali. È quello che accade alla parte più viva dell’internazionalismo ambientalista, ad esempio. È probabile invece che il vecchio internazionalismo sia stato ormai soppiantato da una condizione più generale, quella ad esempio di emigranti, di appartenenti a diaspore, di rifugiati, che ha rimpiazzato le catresisegorie legate al lavoro e alle risorse con categorie molto più ampie riguardanti le identità sospese e la costruzione di nuove appartenenze. La questione della lotta oggi non si pone in chiave di militanza, ma di condizione, di situazione effettiva: un emigrante è per sua stessa natura un agente di cambiamento e provoca intorno a sé dei cambiamenti.

Fonte: comune-info.net 

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