La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 15 febbraio 2017

Battersi per la Costituzione. Battersi per il proporzionale

di Andrea Catone
1. L’anomalia italiana: la Costituzione di democrazia economico-sociale
Questo quaderno di “MarxVentuno” è dedicato alla lotta per la Costituzione. E quando parliamo di Costituzione, intendiamo precisamente la Carta licenziata a fine dicembre 1947 dall’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946 con un sistema elettorale proporzionale puro. Quell’assemblea che, in continuità con la Resistenza e la lotta di Liberazione, rappresenta la fase conclusiva della rivoluzione democratica italiana (1943-1947), anzi, credo si possa dire, democratico-popolare. Infatti, non si tratta solo di sottolineare giustamente e correttamente il carattere antifascista e di rottura che la Costituzione operò, nel passaggio da sudditi a cittadini [1], con tutto il passato della storia dello stato unitario.
La Costituzione è antifascista, ma va oltre la bandiera dell’antifascismo sollevata anche dalle liberaldemocrazie occidentali nella guerra contro la Germania hitleriana: nei suoi principi e fondamenti, nella sua struttura, nel suo impianto, è profondamente diversa dalle altre costituzioni dell’Occidente per il carattere sociale che l’azione dei comunisti e dei socialisti, ma anche dei popolari democristiani, vi impresse. Negli altri paesi dell’Europa occidentale, invece, prevalsero costituzioni liberaldemocratiche; anche in Francia, dove la borghesia riuscì a rovesciare la prima costituzione postbellica e ad imporne un’altra contro i comunisti, per non parlare della Germania federale, dove i comunisti furono messi al bando e tutta l’architettura costituzionale fu influenzata dai vincitori-occupatori angloamericani.
La Costituzione italiana di democrazia economico-sociale è l’unica che pensi in termini sostanziali la democrazia fondata sui lavoratori, sul lavoro e non sul capitale, che ponga vincoli al diritto assoluto di proprietà, proponendo lo stato non come guardiano notturno, ma promotore e organizzatore di imprese economiche finalizzate allo sviluppo sociale e non esclusivamente orientate al profitto. In essa vi sono i germi di una possibile transizione verso il socialismo [2]. È questa l’anomalia italiana nel secondo dopoguerra. Per questo è stata ed è attaccata dai rappresentanti del grande capitale interno e internazionale, da J.P. Morgan a Goldman Sachs, come dagli ideologi liberal-liberisti.
La lotta sulla Costituzione italiana ha segnato la storia della repubblica, ed è stata lotta di classe, anche lì dove poteva apparire una questione di mera tecnica istituzionale. Intorno alla Costituzione si sono scontrati capitale e lavoro, privilegio e diritti universali, interessi parassitari e allargamento dei diritti e dei poteri del proletariato e delle classi subalterne. La lotta per la difesa e l’attuazione della Costituzione del 1948 – che, scritta in una fase in cui i rapporti di forza, grazie alla Resistenza antifascista e al ruolo in essa avuto dai comunisti e dall’URSS, erano certo più favorevoli al proletariato, è oggi un presidio fondamentale per la classe lavoratrice – non è solo una giusta lotta democratica, contro il maggioritario, il presidenzialismo, il potere dell’esecutivo sottratto alla direzione parlamentare, ma è anche, con essa intimamente legata, una lotta sociale.
La scrittura della Carta rappresenta l’ultimo atto del fronte unito antifascista, rotto a livello internazionale col discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” (5 marzo 1946), cui fa seguito in Italia la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) e l’estromissione delle sinistre (PCI e PSI) dal governo (maggio 1947). Ma la Costituente, anche nell’ultima fase dei suoi lavori, riesce a mantenere sostanzialmente lo spirito unitario del fronte e non porta la Carta sul binario della liberaldemocrazia.
Vita e vitalità della Costituzione italiana sono intimamente legate al movimento operaio e democratico, alle sue fasi di ascesa e avanzata e a quelle di riflusso e ritirata. 
2. Il decennio “glorioso” dell’ascesa del movimento operaio e di attuazione della Costituzione
Il periodo di maggiore vitalità della Costituzione [3] è quello della grande stagione di lotte tra la metà degli anni 1960 e 1970, tra il ‘68 (preceduto dalle lotte operaie contro le gabbie salariali) e il 1977-78.
Sono gli anni in cui quell’idem sentire che aveva ispirato la scrittura della Costituzione […] riacquista forza, e si fa consenso intorno ad un disegno di sviluppo sociale e (con meno chiarezza) di sviluppo politico. L’attuazione della Costituzione si pone come problema attinente alla realizzazione di un insieme di politiche e al progressivo abbandono della conventio ad excludendum. I partiti dell’arco costituzionale vedono nella Costituzione non più solo un insieme di regole armistiziali che disciplinano lo svolgimento della lotta politica, ma un modello complessivo di società (sono gli anni che vanno dalla riforma pensionistica del 1969, dallo statuto dei lavoratori e dall’attuazione delle regioni del 1970, al nuovo diritto di famiglia del 1975 e alla realizzazione del servizio sanitario nazionale del 1978) [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006].
L’avanzata del movimento operaio e popolare, l’ascesa elettorale del PCI, che alle elezioni nel 1976 ottiene il 34,4% alla Camera e il 34,2% al Senato, preoccupano seriamente il grande capitale internazionale, che non ha mai cessato di vedere nella Costituzione del 1947 un pericolo per la tenuta degli assetti del potere borghese e un ostacolo per la sua illimitata espansione. Nel 1975 si riunisce la Commissione Trilaterale, un’organizzazione fondata nel 1973 per iniziativa dell’influente oligarca USA David Rockefeller, ex presidente della Chase Manhattan Bank, e diretta da Zbigniew Brzezinski. Nel rapporto della Commissione si evidenzia come la democrazia sociale tra gli anni 1967-75 sia a tal punto cresciuta da minacciare il sistema capitalistico, a difesa del quale si propone di schierare l’arma ideologica della “governabilità”. La traduzione italiana delle indicazioni della Trilateral è costituita dal Piano della Loggia massonica P2, il cosiddetto Piano di rinascita democratica, fatto scoprire a bella posta nel 1981 all’aeroporto di Fiumicino, in un doppiofondo di facilissima individuazione, dalla figlia di Licio Gelli. Data di stesura del testo: inizio 1976. Il piano Gelli prefigura la formazione di due poli entrambi moderati, liberal-conservatore l’uno e democratico-laburista l’altro, che sostituiscano la “partitocrazia”. E disegna un sistema politico affatto estraneo all’idea di democrazia conflittuale pensata dai costituenti: riduzione dei poteri del parlamento, presidenzialismo, limitazione del diritto di sciopero, criminalizzazione della conflittualità sociale. Sul piano ideologico, ma con forte valore politico, vi è la rottura con l’atto di nascita della Costituzione: la Resistenza. Esso inoltre – e qui è evidente la sua matrice amerikana in concorrenza con il progetto europeista – si propone di far uscire l’Italia dalla Comunità europea [GINSBORG 1998, p. 272].
3. Anni 80: Rivoluzione conservatrice e attacco alla Costituzione
Il decennio di lotte sociali e politiche, in cui si erano realizzate importanti avanzate per il movimento operaio e democratico, si chiude con una progressiva messa nell’angolo delle forze operaie e con l’avvio della controffensiva capitalistica generalizzata a livello internazionale e nazionale, mentre ritorna, dopo la breve parentesi dell’appoggio esterno del PCI al governo durante la crisi del rapimento e delitto Moro, la conventio ad excludendum [4] verso il PCI.
Tra la fine degli anni 70 – così intensi di lotte sociali diffuse e di crescita del movimento operaio, che non riesce però a darsi una strategia coerente e uno sbocco politico adeguato [5] – e gli anni 80, prende sempre più piede una cultura politica che rompe di fatto con la rivoluzione democratico-popolare degli anni della Resistenza e della Costituente, mentre mettono radici “le suggestioni della rivoluzione passiva reaganiana e thatcheriana e le parallele suggestioni maggioritarie e leaderistiche. Le une in polemica con il modello di welfare tardivamente realizzato nel decennio precedente; e le altre (la grande riforma craxiana [6]) in polemica con l’evoluzione parlamentare del medesimo decennio, che avrebbe inevitabilmente portato in modo stabile il PCI nell’area delle forze di governo” [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006]. 
Le proposte di revisione della forma di governo vengono ora anche da settori che gravitano intorno alla sinistra. 
Il dispositivo del discorso costruito per smantellare la Costituzione repubblicana – ampiamente utilizzato dalla “sinistra” senza sostanziali variazioni fino ai giorni nostri – si basa in primis sulla separazione tra Prima Parte, intesa come un preambolo di principi e valori fondamentali, che si giura e spergiura di non voler modificare, e Seconda Parte, che sarebbe di carattere tecnico, procedurale, su cui quindi si può, anzi, si deve, intervenire per introdurvi i necessari aggiornamenti: una razionalizzazione funzionale. La forma di governo parlamentare, che solo sul proporzionale può basarsi, è intesa qui come mero strumento, che non intaccherebbe i valori della Prima Parte e può perciò ben essere sostituito da altri e più aggiornati strumenti – maggioritario, presidenzialismo – che evitino l’ingovernabilità [7], imputata – vecchio leit Motiv del pensiero liberal-conservatore, ma non solo – al proporzionale.
Nel 1983 si dà vita a due comitati parlamentari presieduti da Ritz e Bonifacio, i cui lavori si concludono con la predisposizione di una sorta di inventario dei problemi più rilevanti da affrontare in chiave riformatrice. Ed è proprio nel 1983 che nel PCI – in quella che è considerata la sua ala sinistra, con Ingrao, che presiede il Centro di Riforma dello Stato (CRS) – si afferma una linea volta a dare al potere di vertice del governo una forza istituzionale pari a quella che il Parlamento aveva conseguito con la centralità degli anni 1970-75. La forza politica che maggiormente aveva contribuito alla stesura della Costituzione del 1948, e che di essa era stata il principale baluardo nei difficili anni 50 e nel decennio di intense lotte tra gli anni 60 e 70, cede ora all’ideologia della governabilità, sostiene il rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento. E lo fa non solo con gli esponenti tradizionali della destra interna al partito, rappresentata da Giorgio Napolitano, ma con il leader storico della sinistra, e con l’autorevole imprimatur del Centro per la riforma dello Stato, organismo sostenuto e diretto dal PCI. L’erosione delle idee costituzionali della Resistenza è andata molto avanti.
Nella IX legislatura (1983-1987) si costituisce la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, la cosiddetta Commissione Bozzi (cui partecipano per il PCI anche Giorgio Napolitano e Augusto Barbera), che conclude i propri lavori con una proposta di modifica di ben 52 articoli della Costituzione. Nella relazione conclusiva (presentata il 29 gennaio 1985 e approvata da DC, PSI, PRI, PLI, con l’astensione dei rappresentanti dei gruppi comunista e socialdemocratico, il voto contrario di MSI-DN, Sinistra indipendente, Democrazia proletaria e Union Valdotaine) si prevede, tra l’altro, la riduzione del numero dei parlamentari e la modifica del bicameralismo paritario. 
4. Dal PCI al PDS, dalla centralità del parlamento al maggioritario
Sui processi di erosione e logoramento ideologico della Costituzione del 1948, che attraversano con sempre maggiore intensità e protervia la cultura politica italiana degli anni 80, impattano, con la forza travolgente di una valanga, gli eventi che tumultuosamente, tra il 1989 e il 1991, portano alla caduta rovinosa dei governi socialisti dell’Europa dell’Est e alla dissoluzione dell’URSS. Il crollo del “socialismo reale” in Europa favorisce e accelera i processi già in corso, dà alla classe capitalistica mondiale e alle sue diverse frazioni nazionali la vertigine del successo, la spinge a liquidare rapidamente nei propri paesi le conquiste sociali che la classe operaia aveva strappato.
All’interno di questo quadro mondiale va collocata anche la vicenda italiana, con le sue specificità. Essa vive di una propria autonoma storia di lotte operaie e popolari che, sul finire degli anni 70 e per tutto il decennio 1980, conoscono una battuta d’arresto e un arretramento rispetto alla fase del movimento di lotte del decennio 1967-78. Il proletariato e le classi subalterne italiane subiscono l’offensiva liberista, la cui ideologia penetra fortemente all’interno del principale partito operaio, il PCI, e nei sindacati, contribuendo al loro arretramento sul fronte culturale, sociale, sindacale, istituzionale. Il dogma della governabilità si impone a spese della valorizzazione della conflittualità sociale, che la strategia togliattiana della democrazia progressiva presupponeva. 
La storia del movimento operaio italiano e quella del socialismo mondiale procedono di pari passo, intersecandosi con rapporti reciproci significativi. Quando nel 1989, con la fine dei regimi socialisti in Europa, l’allora segretario del PCI Achille Occhetto esplicita il progetto di liquidazione del partito, storia nazionale e storia mondiale si ricongiungono nell’annuncio di un evento dal grande valore simbolico.
La nuova situazione mondiale (piena vittoria USA nella “guerra fredda” e ridimensionamento del ruolo geopolitico dell’Italia come baluardo mediterraneo dell’Occidente) ed europea (unificazione della Germania, con conseguente riduzione del peso politico dell’Italia nella CEE) contribuisce a rendere il capitalismo italiano meno autonomo e più subordinato ai grandi centri del capitalismo mondiale. In questo passaggio di fase, la classe dei capitalisti italiani si dimostra fondamentalmente inadeguata ad affrontare i nuovi compiti, al pari della sua nomenclatura politica, i partiti, che dovrebbero rappresentarne gli interessi strategici complessivi. In obbedienza alla tendenza dominante del capitalismo mondiale, tutti i governi succedutisi alla guida del paese a partire dai primi anni 90, da Amato a Ciampi, da Berlusconi a Dini, da Prodi a D’Alema, da Monti a Renzi, perseguono la politica di privatizzazione e svendita delle imprese a partecipazione statale anche in settori di grande rilevanza strategica come l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, le tecnologie avanzate. 
L’attacco del capitale contro il lavoro si muove, nella nuova fase, lungo diverse direttrici. Si tratta prima di tutto, sull’onda della sconfitta epocale del “socialismo reale”, di privare le classi operaie di una rappresentanza politica organizzata, di eliminare dalla scena politica i partiti di classe, che si propongono quali difensori degli interessi di classe, e di sostituirli con partiti non tanto interclassisti, quanto ridotti a mere consorterie, la cui ideologia e la cui struttura aboliscano ogni riferimento a classi sociali e a questioni sociali, sul modello dei partiti statunitensi democratico e repubblicano.
Il PCI, nonostante l’involuzione nell’ideologia e nella pratica politica degli anni 80 – e ormai molto lontano dal partito comunista degli anni della Resistenza e delle grandi lotte operaie, bracciantili, contadine, popolari, dei primi anni della repubblica – non ha tagliato i ponti con i riferimenti di classe, né ha cancellato dai suoi programmi la possibilità dell’alternativa al sistema capitalistico, né, pur senza risparmiare critiche e anatemi al “socialismo reale”, rotto i rapporti coi partiti comunisti e con i movimenti antimperialisti e anticoloniali (da Cuba al Vietnam, dalla Palestina al Sud-Africa).
Per il suo passato, le sue tradizioni, la sua storia, i suoi simboli e i suoi miti, il vissuto dei suoi militanti, esso rappresenta un’anomalia nella nuova fase capitalistica che si apre con la vittoria unilaterale degli USA nella guerra fredda. Il collasso del “socialismo reale” fornisce l’occasione per distruggere il PCI, sostituendolo con un partito che nei suoi fondamenti ideologici e programmatici, operi una cesura radicale con la storia, la tradizione, la cultura del comunismo e del marxismo, e sostituisca al lavoratore, al proletariato, alla classe operaia, il cittadino, indipendentemente dal fatto che sia possidente o nullatenente, capitalista o salariato; un partito che non abbia più un progetto di società fondata sui produttori associati, a prescindere dalla strada – riformatrice gradualista o di rottura rivoluzionaria – che si propone di percorrere, ma che assuma la gestione del sistema capitalistico come orizzonte entro il quale collocare definitivamente il proprio agire politico.
L’operazione è condotta egregiamente in porto tra il 1989 e il 1991 da Occhetto e dalla maggioranza del gruppo dirigente del PCI, che dà vita ad un nuovo partito che fuoriesce dalla stessa tradizione socialista e socialdemocratica, come rivela già la scelta del nome, “Partito democratico della sinistra”, e che sfocerà più tardi nel “Partito democratico” tout court. 
Il nuovo partito si appresta a muoversi in uno scenario che presuppone una radicale modifica dell’assetto costituzionale, con il passaggio al sistema maggioritario e al bipolarismo. Il modello anglosassone diviene a tal punto egemone nella cultura del nuovo partito che Occhetto prende l’iniziativa di scimmiottarlo con la formazione, nel 1991, di un fantomatico “governo ombra”. 
Ma c’è di peggio. Nella breve fase di transizione dal PCI al PDS sono già impresse forti svolte in direzione del presidenzialismo e del sistema maggioritario. Il partito che era stato fino alla metà degli anni 70 il più sollecito difensore della Costituzione italiana, ad aprile 1990 presenta un progetto di legge per la riforma elettorale nei comuni, che prevede: abolizione delle preferenze, elezione diretta del sindaco, estensione del sistema maggioritario, premio per le liste collegate. A dicembre, in opposizione alla proposta del PSI di elezione diretta del capo dello stato, propone l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (il che va ancor più in direzione di un disegno di rafforzamento dell’esecutivo a scapito del parlamento). La china anticostituzionale degli eredi del partito, che con Togliatti e il gruppo dirigente emerso dalla clandestinità antifascista e dalla Resistenza aveva dato un contributo fondamentale alla stesura della Costituzione più anomala dell’Occidente capitalistico, diverrà nel corso degli anni successivi sempre più ripida e scoscesa. 
5. L’imperativo dopo il 1989-91: superare l’anomalia italiana
Tutto l’insieme dei processi di trasformazione della struttura economico-sociale italiana, delle classi e della loro nomenclatura partitica si relaziona dialetticamente con lo smantellamento della Costituzione repubblicana. La storia delle trasformazioni costituzionali del periodo post 1989 va letta alla luce della relazione marxiana tra struttura e sovrastruttura. Non si tratta di una relazione meccanica, lineare, univoca, né di un riflesso senza mediazioni dell’azione della struttura sulla sovrastruttura (per cui le modificazioni nella struttura economica produrrebbero direttamente trasformazioni nella sovrastruttura istituzionale). Vi è, piuttosto, un’interrelazione profonda tra i diversi piani delle diverse storie – dell’economia, della lotta politica e partitica, dell’ideologia, delle riforme costituzionali – che si svolgono, ciascuna con le proprie peculiarità e una propria relativa autonoma logica. Così, i mutamenti del capitalismo – globalizzazione e sviluppo del mercato mondiale, con l’esigenza di rompere i vincoli economici posti dagli stati nazionali, privatizzando tutto il possibile del settore pubblico – spingono a superare l’anomalia italiana di una Costituzione democratico-sociale e il suo sistema storico di partiti; il mutamento del sistema politico incide profondamente sul volto del capitalismo italiano, con uno straordinario smantellamento del settore di economia pubblica. Le trasformazioni costituzionali sono il prodotto e al contempo il motore – interagiscono – dell’attacco capitalistico contro il lavoro e il settore dell’economia pubblica, in funzione dell’integrazione subalterna nell’Unione europea e nel mercato mondiale.
Per ottenere il pieno e assoluto comando del capitale sul lavoro occorre smantellare anche quelle costruzioni giuridiche che, nel corso dei decenni precedenti, la lotta di classe ha contribuito ad edificare, occorre agire sulla sovrastruttura giuridica e politica della società, intervenendo sulla legislazione del lavoro, ma, soprattutto, sulla legge fondamentale, sulla Costituzione nata dalla Resistenza, che fa dell’Italia, unico paese del mondo capitalistico dell’Occidente, una “repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
La fine del campo socialista accelera il processo di superamento dell’anomalia italiana. Occorre omologare la Costituzione nata dalla Resistenza a quelle liberal-democratiche dell’Occidente e cancellare qualsiasi prospettiva di democrazia progressiva e di superamento del capitalismo. 
È proprio dalla massima carica dello stato che parte l’affondo più velenoso. Il 26 maggio 1991 Francesco Cossiga invia un messaggio alle Camere, evocando la possibilità di eleggere un’Assemblea costituente, poiché il mutamento dello scenario geopolitico dopo la caduta del Muro di Berlino avrebbe reso antiquata la Costituzione redatta nel dopoguerra. 
6. La strategia referendaria di aggressione al sistema elettorale proporzionale
L’appello di Cossiga per la nuova costituente, con rigoroso tempismo, precede di qualche settimana il voto per i referendum del 9-10 giugno 1991 proposti da Mario Segni, il primo dei quali, chiedendo l’abolizione della preferenza multipla, è implicitamente favorevole alla preferenza unica ed è interpretato come un voto per il maggioritario e il cambiamento del sistema politico dominato dalla “partitocrazia”. L’azione di Segni, avviata nel febbraio 1990, trova sostegno organizzativo e politico in un ampio schieramento trasversale, che va dalle ACLI al MSI, ed ha l’apporto determinante dell’organizzazione del PCI-PDS [GINSBORG 1998, p. 328]. Il quorum è abbondantemente superato e sul 62,5% di elettori, il 95,6% si esprime per l’abolizione della preferenza multipla. A livello di massa non si comprende che si tratta dell’introduzione subdola di un meccanismo che avrebbe portato qualche anno dopo al gravissimo vulnus della Costituzione del 1948: l’introduzione del maggioritario.
La mutazione genetica del PCI in PDS (poi DS, poi PD) non significa solo un definitivo e assoluto rigetto dell’esperienza comunista del XX secolo, dell’Ottobre sovietico e delle democrazie popolari, ma anche di una visione effettivamente democratica e progressiva della società. Alla crisi delle società socialiste il gruppo dirigente del PCI non risponde ora con una proposta di ampliamento della democrazia (come era stato negli anni 60 e nei primi anni 70, quando criticava i “tratti illiberali” dell’URSS e delle democrazie popolari), ma con un’idea – e una nuova ideologia – restrittiva della democrazia, ridotta a tecnica di governo, a governabilità. Il PCI che nel 1952-53 lottò con le unghie e con i denti contro la “legge truffa” che assegnava il 65% dei seggi (380) alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti, nel 1990 si fa promotore di un referendum che ripropone il maggioritario.
L’inchiesta di “Mani pulite” è utilizzata e strumentalizzata dai referendari. Essa serve a tuonare contro la “partitocrazia” [8], vecchio leit Motiv reazionario, già cavalcato nei primi anni della repubblica dal movimento dell’Uomo Qualunque di Giannini, e ripescato negli anni 70-80 da Marco Pannella. Dietro l’attacco alla “partitocrazia” si cela l’attacco al sistema dei partiti, uno dei pilastri della Costituzione italiana che vide in esso uno strumento essenziale della partecipazione democratica. 
La leva per scardinare il governo parlamentare previsto dalla Costituzione del 1948 è fornita dal referendum sostenuto da Segni e Occhetto volto all’abolizione del sistema proporzionale, che la corte costituzionale, contravvenendo la norma referendaria, dichiara ammissibile, anche se il quesito ripropone, senza sostanziali modifiche, quello già respinto qualche anno prima. 
Quella Corte rovesciando improvvisamente la sua giurisprudenza, diede prova di incredibile miopia. Quella di non prefigurarsi e non valutare gli effetti che quel referendum avrebbe prodotto sul piano della forma di governo e delle garanzie politiche, privando l’ordinamento costituzionale del sostrato su cui reggeva la sua dinamica, il sostrato cioè di una rappresentanza politica che, recettiva delle domande della democrazia, fossero o non fossero compatibili col sistema economico di produzione e di scambio, rispecchiasse la società così com’è, con i suoi conflitti, i suoi bisogni, il suo strutturale pluralismo [FERRARA 2006]. 
7. Attacco contestuale contro il proporzionale e contro l’intervento pubblico in economia
Ma il referendum pro maggioritario si accompagna ad altri quesiti referendari quali la richiesta di abolire il ministero delle Partecipazioni statali, le competenze delle Usl, il finanziamento pubblico ai partiti, il ministero dell’Agricoltura. Combinati insieme – sull’onda degli attacchi feroci allo “statalismo”, condivisi anche dalla grande maggioranza della sinistra – suggeriscono che l’intervento pubblico in economia e nei servizi sociali genera la corruzione di “tangentopoli” e l’ingovernabilità. 
L’attacco alla Costituzione del 1948 è contestuale e funzionale alla svolta neoliberista e privatizzatrice. Vi è, infatti, nella strategia referendaria del 1993, in nome della piena affermazione del mercato, una strettissima connessione tra attacco al sistema elettorale proporzionale, che è parte fondante e nient’affatto accessoria del disegno della Costituzione del 1948, e attacco alla democrazia sociale, al settore dell’economia a partecipazione statale, al ruolo della mano pubblica nei servizi sociali essenziali. Poche le voci che si levano contro.
E così, favoriti dalla campagna di propaganda dei referendum, passano provvedimenti che vanno nel senso della privatizzazione (il decreto legislativo 29/93 sulla riforma del pubblico impiego privatizza il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici), del presidenzialismo plebiscitario e del bipolarismo maggioritario. 
La legge n. 81 del 25 marzo 1993, approvata solo tre settimane prima dei referendum promossi da Segni e Occhetto, stabilisce l’elezione a suffragio universale e diretto del sindaco e del presidente della provincia; un premio in seggi alla coalizione vincente; giunta e sindaco rispondono all’elettorato e non al consiglio comunale; gli assessori sono nominati direttamente dal sindaco, dotato di un nuovo potere monocratico, rispetto al quale i cittadini hanno pochi mezzi di controllo, mentre il consiglio comunale e provinciale sono ridotti alla funzione di meri ratificatori.
Il 17-18 aprile 1993 si svolgono i referendum, tra cui quello per abrogare la legge elettorale per il senato. Sul 75% di votanti, i Sì sono la stragrande maggioranza: 82,7%. La vittoria dei referendum è accolta con fragorose e roboanti dichiarazioni che la assumono come il consenso di massa, plebiscitario e popolare, al cambiamento della Costituzione in direzione del bipolarismo maggioritario e del presidenzialismo sostenuto da Segni. Il trionfalistico editoriale di Eugenio Scalfari all’indomani del voto è a tal riguardo illuminante: 
È crollato il palazzo. Quanto agli altri referendum – scontato quello che abolisce il finanziamento pubblico dei partiti – c’è stato un plebiscito per quelli che vanno in direzione del libero mercato economico e contro la pratica delle lottizzazioni. Così si legge (e come altro si potrebbe?) il voto sulle Usl, quello sull’abolizione delle Partecipazioni statali, quello sulle nomine bancarie. La massiccia espressione del Sì anche da parte degli elettori di simpatie pidiessine dimostra ancora una volta che l’unità d’intenti ha superato steccati e residue ideologie [SCALFARI 1993].
Il 3 agosto 1993 il parlamento approva la nuova legge maggioritaria. È un sistema ibrido, in base al quale si applica il maggioritario a turno unico per 2/3 dei seggi, 472 alla Camera e 238 al Senato, mentre i restanti 158 e 77 vengono assegnati col proporzionale. Viene così abbandonata l’autonomia del parlamento dal governo, come portato di un pluralismo imperniato sul sistema elettorale proporzionale, che prima del 1993 risultava applicato a tutti i tipi di elezioni, escluse quelle riguardanti i piccoli comuni.
8. Attacco al lavoro
A completare il quadro della profonda involuzione che il paese subisce sul piano istituzionale e sociale, viene il protocollo d’intesa sul costo del lavoro, politica dei redditi, concertazione, siglato il 3 luglio 1993 da Governo, Confindustria e sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil. Esso abroga gli ultimi residui di parziale difesa dei salari col meccanismo della scala mobile, persino nella versione rimaneggiata dopo l’attacco craxiano del 1984.
Nel quarto di secolo che ci separa dal 1991 il padronato riesce – grazie ai nuovi rapporti politici ad esso favorevoli – a realizzare un roll back di proporzioni gigantesche, riportando le condizioni del proletariato, preso nel suo complesso, e quindi comprendente anche i dannati della terra, immigrati nell’Occidente capitalistico avanzato, ai livelli del primo ‘800, quando il padrone-master aveva un potere pressoché assoluto sul proletario, quando non esisteva legislazione del lavoro e diritto del lavoro. Il proletariato viene frammentato, il contratto collettivo, frutto dell’organizzazione e della lotta collettiva dei lavoratori, ridotto a contratto individuale. 
I lavoratori sono progressivamente spogliati di diritti e garanzie, dominati dall’insicurezza sul futuro e dalla precarietà. Il lavoratore deve essere flessibile e genuflesso, sempre più sottoposto al ricatto capitalistico. La precarizzazione del lavoro, la trasformazione del posto di lavoro fisso in privilegio, lo smantellamento ideologico, politico, sindacale delle organizzazioni operaie rendono possibile l’attacco al salario in tutte le sue forme di salario diretto, indiretto (servizi sociali) e differito (pensione e liquidazione, trattamento di fine rapporto), portando il salario al di sotto del suo valore storicamente determinato, e spostando una massa ingente di ricchezza verso la borghesia, che solo in parte la reinveste in attività industriali, preferendo spesso giocare sul tavolo della speculazione di borsa o di spregiudicate operazioni finanziarie.
9. La prima ondata di stravolgimento della Costituzione: 1993-2001. 
Tra il 1993 e il 2001 forma di stato e forma di governo subiscono consistenti trasformazioni. 
Le leggi dell’estate ‘93 introducono il maggioritario nelle elezioni politiche e trasformano in senso presidenzialistico le amministrazioni comunali e provinciali, con l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia, lo spostamento sugli esecutivi della vita politica e lo svuotamento di poteri e funzioni delle assemblee elettive chiamate prevalentemente a ratificare le decisioni della giunta. 
A fine millennio, il presidenzialismo si afferma anche nelle regioni, cui la revisione del titolo V della seconda parte affiderà un peso molto più rilevante che in passato. Il 12 novembre 1999, il Senato vota in seconda deliberazione a larga maggioranza, superiore ai due terzi (contro: PRC, alcuni senatori PDCI, Lega Nord), la legge costituzionale n. 1, “Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni”. L’articolo 122 viene così riscritto: “Il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta”.
L’offensiva per trasformare la Costituzione procede su più fronti.
Il 6 agosto 1993 la legge costituzionale n. 1 istituisce la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, prevedendo, unicamente per i progetti di legge della XI legislatura, un diverso procedimento di revisione costituzionale che comporta, fra l’altro, la sottoposizione obbligatoria a referendum dei progetti approvati dalla Commissione.
Alla fine dell’anno la “bicamerale” presieduta da Ciriaco De Mita e Nilde Jotti formula un’ampia riforma del rapporto Stato-regioni, che ribalta – come poi accadrà con la riforma costituzionale del 2001, proposta e approvata dal governo Amato, sostenuto dalla coalizione di centro-sinistra – il criterio di competenza della Costituzione (enumerazione tassativa delle competenze regionali e attribuzione di tutte le altre competenze allo Stato). Evidente il collegamento di queste normative con il processo di europeizzazione, fondato sul primato del mercato, e la correlativa sottrazione di competenze dallo Stato alle Regioni. 
Il progetto di revisione costituzionale della Commissione De Mita-Jotti prevede inoltre l’investitura diretta da parte del Parlamento del Primo ministro, attribuendo a quest’ultimo l’esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri ed introducendo la “sfiducia costruttiva” [9].
Il 24 gennaio 1997 – primo governo Prodi – la legge costituzionale n. 1 istituisce una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali che avrebbe dovuto operare entro un procedimento di revisione diverso da quello disciplinato dall’art. 138 della Costituzione. Questa legge costituzionale si pone “come fonte sulla produzione di un diritto costituzionale nuovo, destinato a restare in vigore dopo l’esaurimento della temporanea disciplina di rottura posta in deroga all’art. 138”: un’evidente lesione del principio di rigidità [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006].
Tra il 1996 e il 2001 – primo governo Prodi e successivi D’Alema e Amato – viene ridisegnato, attraverso leggi costituzionali e leggi ordinarie, l’intero quadro dello stato repubblicano, che, alla fine della XIII legislatura, risulterà profondamente mutato in senso regionalista.
La legge Bassanini (legge n. 59 del 15 marzo 1997) ridefinisce su basi nuove finanche le politiche generali del lavoro: dal collocamento (preselezione, incontro fra domanda e offerta) alle politiche attive di impiego (incentivi alle assunzioni, sostegno alla imprenditorialità giovanile). Una normativa che non favorisce la coesione sociale fra le diverse aree del Paese. Essa si è, anzi, rivelata parte integrante di un articolato processo di destrutturazione delle politiche del lavoro, che travalicando i tradizionali ambiti di competenza (dalla formazione professionale all’attività di osservazione del mercato del lavoro) ha trascinato le Regioni in una spirale competitiva (di strategie sociali, di offerte e di opportunità), che potrebbe rischiare in futuro di compromettere gravemente il già flebile tasso di coesione sociale [DE FIORES 2000]. La legge dà un ruolo preminente al principio di sussidiarietà, conferendo “alle Regioni e agli enti locali, nell’osservanza del principio di sussidiarietà [...] tutte le funzioni e i compiti amministrativi, relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità” (art. 1, comma 2).
Alla fine del 1997, la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da D’Alema licenzia un progetto di revisione costituzionale in direzione del presidenzialismo a discapito della centralità del parlamento (elezione diretta del capo dell’esecutivo) e del federalismo. Le conclusioni della Commissione, sostenute dal relatore della coalizione dell’Ulivo, il diessino Cesare Salvi, che caldeggia il passaggio ad un premier eletto dal popolo e in grado di sciogliere le Camere, ripropongono la tesi numero uno del programma elettorale dell’Ulivo scritta da Giuliano Amato per le elezioni del 1996: l’adozione d’una forma di governo centrata sulla figura del primo ministro, tecnicamente anche detta premierato. La “bicamerale” propone una radicale revisione della Seconda parte della Costituzione (ne modifica circa 80 articoli). 
Nel giugno-luglio 1998, però, quando il progetto elaborato in seconda lettura dalla Commissione arriva all’esame delle aule parlamentari, Berlusconi, dopo averlo sostenuto, rovescia il tavolo, non certo perché dissenta, ma perché non lo ritiene conveniente nella tattica politica immediata. 
Quando, a fine legislatura, la maggioranza di centrosinistra approva con soli 4 voti di scarto la modifica dell’intero titolo V della Seconda Parte, può accampare il fatto che la riforma è stata condivisa nella “bicamerale”.
Il 7 ottobre 2001 al referendum costituzionale il Sì ottiene 10 milioni 340mila voti (64,2%). La percentuale di votanti è però molto bassa: solo il 34%. La modifica dell’intero Titolo V della II parte della Costituzione diventa così la legge costituzionale n. 3. 
A suggellare l’involuzione a tutti i livelli degli anni 90, era intervenuto, nella primavera del 1999, il “bombardamento umanitario” della NATO contro la Serbia, cui il governo D’Alema fornisce pieno supporto politico e militare, con buona pace dell’articolo 11 della Costituzione [10]. La “guerra costituente” apre una stagione di interventi militari italiani (Afghanistan, Iraq, Libia) a supporto della strategia USA-NATO. 
10. La riforma presidenzialistica di Berlusconi non passa
Tra il settembre 2003, quando una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri del governo Berlusconi II approva il disegno di legge di riforma costituzionale, e il novembre 2005, quando esso viene approvato dal Senato in seconda lettura, si sviluppa un’ampia offensiva con l’intento di trasformare in senso fortemente presidenzialistico la Costituzione. Il disegno di revisione costituzionale prevede un “primo ministro” (ormai il termine di “presidente del consiglio” è considerato obsoleto) scelto direttamente dagli elettori, con grandi poteri (nomina e revoca dei ministri, scioglimento della Camera) e meno vincoli per la realizzazione del programma di governo; la fine del bicameralismo perfetto, con l’istituzione del Senato federale della Repubblica, quale Camera rappresentativa degli interessi del territorio e delle comunità locali; devoluzione alle regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria; riduzione del numero dei parlamentari. 
Per la verità, le pulsioni al rafforzamento dell’esecutivo non sono solo del centro-destra, ma ben presenti anche nella “Bozza Amato”, approvata nel dicembre 2003 dal coordinamento dei segretari dei partiti del centro-sinistra.
Si sviluppa, in preparazione del previsto referendum costituzionale, un movimento a difesa della Costituzione, con la mobilitazione dei partiti del centro-sinistra, che vedono nella vittoria del No la possibilità di assestare un colpo definitivo al predominio del kavaliere, già barcollante per la sconfitta elettorale nelle regionali dell’aprile 2005, in cui il centro-destra vince solo in Lombardia e Veneto.
Il 25-26 giugno 2006 si svolge il secondo referendum costituzionale della storia della Repubblica. La riforma berlusconiana è respinta seccamente. I votanti sono il 52,3% degli aventi diritto; i No 15.791.000 (61,32%). 
Ma, a urne ancora calde, Giuliano Amato propone di creare una “Convenzione per riscrivere la Costituzione”.
11. La nuova offensiva contro la Costituzione nella fase della crisi finanziaria e limitazione della sovranità nazionale
L’esito referendario del 2006, che ferma il tentativo di trasformare la Costituzione in senso presidenzialistico, sembra essere solo un incidente di percorso nell’assalto alla Carta del 1947. I dieci anni che separano il referendum sulla riforma Berlusconi da quello (4 dicembre 2016) sulla Renzi-Boschi sembrano attraversati, senza soluzione di continuità, e con pari fervore “bipartisan” di centro-destra e centro-sinistra, dall’esigenza di cambiare la Costituzione, ora con attacchi frontali e massicci, ora con attacchi ai fianchi. Motivazioni e discorsi si susseguono e intersecano in modo ripetitivo. E ciò che il referendum del 2006 ha rigettato, viene ripresentato in altra forma, più o meno edulcorata. I progetti di revisione costituzionale si intrecciano con la storia infinita della legge elettorale, alla ricerca della formula magica del “bipolarismo maggioritario” (Franco Marini, neopresidente del Senato, 29 aprile 2006), “regolatore di una democrazia dell’alternanza realmente operante” (Giorgio Napolitano, neo presidente della Repubblica, 15 maggio 2006).
Continuano a fioccare proposte di commissioni che riscrivano la Costituzione, o di “Costituente per le riforme”, come propone Walter Veltroni in un’intervista a “la Repubblica” del 5 novembre 2006; un anno dopo chiederà riforme costituzionali ispirate al sistema francese con presidenzialismo e ballottaggio. Oppure si procede per via ordinaria, attraverso il lavoro delle commissioni affari costituzionali, in direzione della revisione della parte seconda della Costituzione. Nell’ottobre 2007 la commissione della Camera approva il testo unificato che abolisce il bicameralismo paritario, con la formazione del “Senato federale della Repubblica”; riduce il numero dei deputati a 500; rafforza i poteri del Presidente del Consiglio. Si propongono commissioni bicamerali per il federalismo (Fini e D’Alema nel novembre 2008), mentre Berlusconi rilancia il presidenzialismo (dicembre 2008).
L’attacco alla Costituzione si intensifica e diviene sempre più protervo con l’esplosione della grande crisi finanziaria dell’Occidente – determinata dalla crisi più generale del sistema capitalistico, che risponde alla crisi di sovrapproduzione con una sempre più estesa finanziarizzazione dell’economia e la concessione di crediti difficilmente esigibili (i mutui subprime) – e l’attacco speculativo ad essa connesso ai titoli del debito sovrano di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia. Lo spread tra il rendimento dei titoli di stato italiani e tedeschi, relativamente contenuto al momento dell’esplodere violento della crisi negli USA nel settembre 2008 (90 punti), cresce relativamente, tra alti e bassi (nel 2010 è a quota 160), per divenire allarme rosso nella primavera-estate del 2011. Il 5 agosto, il presidente della BCE Jean Claude Trichet e il presidente in pectore Mario Draghi inviano al Presidente del Consiglio Berlusconi la famosa-famigerata lettera in cui, premesso che l’Italia deve “con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali”, dettano le misure da adottare: dalle liberalizzazioni alla riforma del mercato del lavoro e delle pensioni, alla pubblica amministrazione. Qualche mese dopo, quando la marea montante dello spread sembra inarrestabile, Berlusconi, senza essere stato sfiduciato dalle Camere, è costretto alle dimissioni (12 novembre 2011), sostituito immediatamente da Mario Monti, appena nominato senatore a vita da Napolitano, che gli conferisce a l’incarico di formare un “governo tecnico”, evitando il ricorso ad elezioni anticipate. 
L’Italia è un paese a sovranità limitata. Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano diventa il massimo garante dell’implementazione degli indirizzi politico-economici dettati non dal parlamento, non dal “popolo sovrano”, ma dal direttorio della BCE. Occorre sottolineare che le modalità della caduta del governo Berlusconi segnano una tappa ulteriore nell’attacco alla Costituzione: è un altro passo verso lo svilimento del ruolo del parlamento, una “sparlamentarizzazione” contro la Costituzione che ne pone invece la centralità, e lo spostamento evidente del baricentro della decisione e azione politica verso il presidente della repubblica. Il ruolo sempre più straripante di Napolitano nel formulare, contro il dettato costituzionale, l’indirizzo politico supera il precedente negativo di Cossiga (che nel 1991 propose un’assemblea costituente): già nel marzo 2011, di fronte a un riluttante Berlusconi, Napolitano si fa paladino, in ossequio alle potenze imperialiste dell’Occidente – Francia , Regno Unito, USA –, della partecipazione subalterna (e contro gli stessi interessi del capitale italiano) all’impresa neocoloniale di guerra per disintegrare lo stato sovrano e indipendente della Libia, governata da Gheddafi, con le conseguenze nefaste oggi ben note. 
Con l’operazione Monti si realizza un presidenzialismo di fatto, funzionale alla traduzione in Italia delle direttive dei poteri sovranazionali della Ue a direzione germanica. Direttive alle quali i parlamentari italiani in massa, salvo poche eccezioni, si piegano in toto, approvando in tempi strettissimi [11] una revisione costituzionale pesantissima: la legge costituzionale 1/2012 modifica gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, inserendo nella Carta il principio del pareggio di bilancio. Qualche mese dopo, a stragrande maggioranza, passa anche il Fiscal Compact (al Senato il 12 luglio 2012 con 216 sì, 24 no, 21 astenuti; alla Camera una settimana dopo, con 360 sì, 65 no, 65 astenuti).
Il presidenzialismo de facto introdotto dall’operato quotidiano del presidente Napolitano richiede un passaggio al presidenzialismo de iure. Non è un caso, allora, che in sede di prima deliberazione, il 25 luglio 2012, passi in Senato – ma con una maggioranza risicatissima di 153 voti del centro-destra su 298 votanti – il disegno di legge costituzionale che introduce l’elezione del Presidente della Repubblica a suffragio universale e diretto, a maggioranza assoluta dei voti validamente espressi ed eventuale ballottaggio fra i due candidati che hanno conseguito il maggior numero di voti. Esso, inoltre, assegna al Presidente della repubblica la presidenza del Consiglio dei ministri e la facoltà di revoca dei ministri su proposta del “Primo ministro” (così viene cambiato, in omaggio alla concezione del premierato, il titolo di presidente del consiglio). Viene eliminato il bicameralismo paritario, introducendo il Senato federale della Repubblica (modifica artt. 55, 57, 70 C.). Abolito il governo parlamentare, si può ben ridurre il numero dei deputati a 508 (modifica art. 56) e dei senatori a 250 (modifica art. 57). Il ddl abbassa l’età degli eleggibili a 21 anni per la Camera e a 35 per il Senato.
12. L’età del bipolarismo italiano: 1994-2013
Con il 1994 si è avviata la nuova stagione politica del bipolarismo, che, nella propaganda dei suoi sostenitori, avrebbe dovuto por termine alla frammentazione e dare stabilità al sistema. Non sarà propriamente così. Negli oltre due decenni che ci separano dall’introduzione del maggioritario, abbiamo assistito ad importanti crisi di governo provocate dal venir meno dell’uno o dell’altro partner della coalizione, da fratture interne ai partiti, in una girandola di scomposizioni e ricomposizioni di vecchie e nuove forze politiche, di nuovi gruppi parlamentari, con la coniazione di nomi e sigle che vengono cambiati prima che ci si possa fare l’abitudine, con numerosi e frequenti cambi di casacca. La storia politica italiana degli ultimi due decenni dimostra con la forza dei fatti che non si può mettere ex lege – con leggi truffa maggioritarie – una camicia di forza alle contraddizioni della realtà: la vita, pirandellianamente, si prende la rivincita sulle forme in cui la si vuole irreggimentare.
Il bipolarismo implica il maggioritario e il rifiuto del governo parlamentare, comprime in uno schema binario il pluralismo culturale, politico, sociale, restituendo un’immagine deformata della realtà. Ma non è solo questo. Esso è un’arma ideologica e politica per azzerare l’opposizione sociale e politica.
Se guardiamo all’esperienza ventennale del bipolarismo italiano, troviamo che i due poli, competitori anche feroci nella gara elettorale, sono dalla stessa parte nell’attacco alla Costituzione nata dalla Resistenza. Sono stati coautori di proposte di legge costituzionale trasversali, e spesso i loro progetti sono intercambiabili, al punto che con difficoltà se ne potrebbe riconoscere la paternità. Rispetto alla Costituzione condividono la medesima cultura politica.
Dietro lo scontro feroce e senza esclusione di colpi tra berlusconismo e antiberlusconismo, troviamo una sostanziale continuità e condivisione nelle direttrici di marcia.
Se si esaminano le politiche effettivamente attuate nelle legislature successive alla riforma della legge elettorale (XII: primo breve esperimento Berlusconi del 1994, seguito dall’interregno di Dini), XIII (governo guidato da Prodi – 1996-1998, poi da D’Alema – 1998-2000 – e da Amato), XIV (Berlusconi: 2001-2006), XV (Prodi: 2006-2008), XVI (Berlusconi: 2008-2011; Monti 2011-2013), XVII (Letta: 2013-14; Renzi: 2014-2016; Gentiloni…) entrambi i poli hanno attuato pesanti politiche antisociali di smantellamento di quanto era stato conquistato dalle lotte dei lavoratori, hanno favorito la mano libera del capitale sul lavoro (il pacchetto Treu spiana la strada alla legge Biagi e questa al jobs Act renziano), hanno raso al suolo l’economia pubblica (e qui il centro sinistra ha superato il centro-destra), hanno perseguito politiche imperialistiche sotto la direzione degli USA e della NATO: Jugoslavia 1999 (D’Alema), Iraq 2003 (Berlusconi), Libia 2011 (Berlusconi, malgré lui, sotto impulso di Giorgio Napolitano). 
Dal 1994 al 2013 – quando ha fatto irruzione sulla scena politica italiana un “terzo incomodo”, il M5S – i due poli si sono affrontati senza esclusione di colpi, rappresentandosi mediaticamente come un’antitesi inconciliabile, che poteva essere risolta solo con la sconfitta-eliminazione dell’uno o dell’altro contendente. Ma si è trattato, piuttosto, di una lotta tra ceti politici che si contendono – al pari di produttori e venditori dello stesso tipo di merce in concorrenza tra loro sul mercato – il consenso elettorale e la gestione del potere politico, l’amministrazione dello stato in tutte le sue diramazioni e in tutti i suoi gangli. L’acutezza dello scontro è la rivalità di due pari per occupare la stessa poltrona.
Nella realtà effettuale delle democrazie occidentali il bipolarismo, di cui il bipartitismo è la forma estrema, è il modo attraverso cui il proletariato, in quanto “classe per sé”, viene privato della sua rappresentanza politica parlamentare o è costretto forzosamente a convivere in modo inevitabilmente subordinato in coalizioni dirette da frazioni della classe borghese dominante. Il bipolarismo non è oggi – nei paesi maturi dell’Occidente capitalistico, in cui la classe dominante ha stabilizzato il suo potere e affinato gli strumenti di controllo sulla società – la contrapposizione di un polo borghese e di un polo proletario, di un polo degli sfruttatori e di uno degli sfruttati, ma è il modo in cui la classe dominante capitalistica regola le contraddizioni delle sue frazioni. Nessuno seriamente può affermare che la divergenza tra democratici e repubblicani negli USA sia strategica, che gli uni rappresentino il lavoro e gli altri il capitale. Ma lo stesso può dirsi anche dei bipolarismi maturi in Europa. E anche lì dove il bipolarismo non è pienamente maturo, come l’Italia. Se guardiamo alla storia recente, lo scontro tra Progressisti (o Ulivo, o Unione, o Italia Bene comune) e Polo (o Casa delle libertà) berlusconiano, non troviamo tra i due poli uno scontro di classi contrapposte.
L’ideologia del bipolarismo è mistificante, è appunto ideologia nel senso che Marx ed Engels davano al termine ne L’ideologia tedesca. Il bipolarismo – come ci ripetono a iosa i suoi apologeti – è funzionale ad un modello di democrazia dell’alternanza. Dell’alternanza, non dell’alternativa! Come nel modello USA, che lo ha realizzato in forma pressoché pura – riducendo a zero la rappresentanza politica del lavoro, del proletariato, degli sfruttati dal capitale – si alternano al governo del paese due poli o, meglio, due partiti che sono entrambi pienamente all’interno del sistema capitalistico di sfruttamento, che non si propongono alcuna alternativa di società. Il bipolarismo serve, nella fase attuale del capitalismo mondializzato, ad eliminare (o includere in modo subalterno, evirandola) la rappresentanza politica del lavoro sfruttato dal capitale; a regolare le contraddizioni intercapitalistiche tra frazioni della classe dominante. Ad esempio, nel caso italiano, tra frazioni del capitale bancario e industriale, tra grande impresa e piccole e medie imprese, tra frazioni capitalistiche filo o anti-europeiste. Al di là del teatrino della politica, i marxisti dovrebbero recuperare l’analisi delle classi sociali e delle loro rappresentanze politiche, sapendo individuare la base sociale (che non sempre coincide con la base elettorale) di ciascun partito.
13. 2013-2016. “Renzismo” e attacco alla Costituzione
Alle elezioni del 24-25 febbraio 2013 l’irrompere del Movimento 5 Stelle con oltre il 25% dei suffragi terremota il quadro politico italiano, vissuto per vent’anni sullo scontro bipolare centro-destra/centro-sinistra. La presenza in parlamento e nel paese di una terza forza che non ha nei suoi programmi la fedeltà assoluta alla BCE e alla UE e che, quindi, potrebbe rendere meno disinvoltamente praticabili operazioni politiche come quelle del governo Monti, durante il quale passano pressoché senza opposizione – né in parlamento, né in piazza o nei luoghi di lavoro: i sindacati confederali sono silenti e immobili – misure di massacro sociale quali la riforma delle pensioni del ministro Elsa Fornero, nonché i summenzionati pareggio di bilancio e Fiscal Compact. 
Ecco, allora, all’opera l’infaticabile Giorgio Napolitano per rilanciare la strategia di “riforme costituzionali”, con un ulteriore strappo all’articolo 138, che regolamenta la revisione della Costituzione. Il 30 marzo 2013, a poche settimane dalla scadenza del suo settennato, egli nomina, con una procedura anomala, due gruppi di “saggi” perché formulino proposte: su “riforme istituzionali” e in materia economico-sociale ed europea. La data è significativa: due giorni prima, il 28 marzo, Pierluigi Bersani, segretario del PD e leader della coalizione di centro-sinistra (PD e SEL) – che, con un minimo scarto di voti rispetto al centro-destra, ha ottenuto, grazie all’abnorme premio del Porcellum, la maggioranza dei deputati – rimette nelle mani di Napolitano l’incarico di un mandato esplorativo per la formazione del governo: non vi sono i numeri per una maggioranza al Senato, e abortisce rapidamente il tentativo di un accordo col M5S. Le “riforme costituzionali” possono rappresentare il programma unificante per un governo di larghe intese. Che in effetti sarà formato, col sostegno di PD, PDL e Scelta Civica, da Enrico Letta dopo la rielezione di Giorgio Napolitano e l’uscita di scena di Bersani, impallinato, in occasione delle elezioni presidenziali (18 aprile), dal “fuoco amico” dei parlamentari PD: dopo aver mandato in fumo l’elezione di Marini, candidato concordato col centro-destra, danno il colpo di grazia, facendo mancare più di cento voti al nuovo candidato del centro-sinistra Romano Prodi. 
Nel suo discorso di reinsediamento (22 aprile) Napolitano chiede la riforma del Porcellum, “legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità”, e “riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario”. Una settimana dopo, il nuovo presidente del consiglio, per la prima volta nella storia della Repubblica, collega esplicitamente la nascita e il destino dell’esecutivo all’esito di un percorso di revisione della Costituzione: “Fra 18 mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro”. 
Ai “saggi” di Napolitano, il 4 giugno subentra, nominata da Enrico Letta, una Commissione di 35 “esperti” per le riforme costituzionali con funzione consultiva rispetto al governo. Il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge che istituisce il “Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali”. Le materie da affrontare riguarderanno i titoli I, II, III e V della Seconda parte della Carta fondamentale, che dovrebbero essere ridefiniti entro ottobre 2014: un riassetto su vasta scala delle forme di governo e di rappresentanza. L’iter del ddl costituzionale per l’istituzione, in deroga all’articolo 138, del Comitato parlamentare dovrebbe essere, stando agli annunci, rapidissimo. Il Senato lo approva in prima lettura l’11 luglio, la Camera il 10 settembre; il Senato, in seconda deliberazione, con la maggioranza dei due terzi, il 23 ottobre. Ma poi il percorso si inceppa. L’ultima seduta della commissione affari costituzionali della Camera per approntare il dibattito in aula per la seconda deliberazione e approvare definitivamente la legge costituzionale è del 21 novembre. 
Intervengono nel frattempo nuovi eventi che mutano il quadro politico. Il 1º agosto 2013 Berlusconi è condannato, con sentenza passata in giudicato, a quattro anni di reclusione per frode fiscale. Il 27 novembre il Senato approva con voto palese la sua decadenza da senatore per effetto della “legge Severino”. Il sostegno dei berlusconiani al governo Letta viene meno, anche se quest’ultimo potrà contare sulla pattuglia di parlamentari e ministri che, al seguito di Alfano, si scindono ufficialmente dal PdL a fine novembre, formando il “Nuovo Centro-destra”. 
In questo contesto, in cui il governo Letta ha già perso il sostegno della destra berlusconiana, interviene, il 4 dicembre 2013, la sentenza di parziale incostituzionalità del Porcellum [12] emanata dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi grazie all’ostinata battaglia intrapresa da alcuni avvocati (Claudio Tani, Aldo Bozzi e, in particolare, Felice Carlo Besostri): un macigno sul percorso istitutivo della commissione per le riforme parlamentari ed elettorali, che era riuscito a giungere senza difficoltà quasi in dirittura d’arrivo. 
Al contempo, la “contenibile ascesa” di Matteo Renzi al vertice del PD apre scenari per avviare un altro percorso. Il rampante sindaco di Firenze non si accontenta, infatti, di aver conquistato la segreteria. Riapre spregiudicatamente i giochi con Berlusconi, invitato nella sede del PD in via del Nazareno (18 gennaio 2014) per stringere un accordo complessivo, per tutta la legislatura, su legge elettorale e riforme costituzionali. Perfezionato in successivi incontri l’accordo tra PD e Forza Italia, si può licenziare senza troppe moine il governo Letta per sostituirlo col governo Renzi. Il 13 febbraio 2014 la direzione nazionale del PD approva (136 sì, 16 no e 2 astenuti) la mozione per “rottamare” il Presidente del Consiglio, che il 22 febbraio presenta le dimissioni, accolte subito da Napolitano senza rinviare il dimissionario alle Camere: dopo il precedente di Berlusconi nel 2011, ancora una volta (e non sarà l’ultima, perché lo stesso accadrà a fine 2016 con le dimissioni di Renzi che il presidente Mattarella non rinvia alle Camere) il parlamento viene scavalcato ed esautorato con l’avallo del capo dello stato.
Enrico Letta ha legato le sorti del suo governo all’espletamento del compito assegnatogli da Napolitano di portare a termine le riforme costituzionali, come richiesto pressantemente dai vertici UE e BCE. La motivazione con cui viene liquidato è la lentezza eccessiva del cammino delle riforme costituzionali ed elettorali, alle quali invece il nuovo governo a guida Renzi si impone di imprimere un passo molto più accelerato. E, in effetti, l’arrampicatore fiorentino sembra, nel 2014, bruciare le tappe nella realizzazione delle due riforme, costituzionale ed elettorale, che procedono di pari passo e suscitano, per il loro “combinato disposto”, il grido d’allarme dei costituzionalisti democratici contro la “svolta autoritaria”, “un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali”, precipitando il paese nel baratro di una “democrazia plebiscitaria” [13]. 
Il 12 marzo 2014, con rapidità fulminea, l’Italicum viene approvato in prima lettura alla Camera con 365 sì, 156 no (M5S, Lega, FDI e SEL) e 40 astenuti (centristi di Popolari per l’Italia e Scelta Civica). Il testo rispetta sostanzialmente i punti dell’accordo con Berlusconi: premio di maggioranza di 340 seggi (54%) alla lista o alla coalizione in grado di raggiungere il 37% dei voti; se nessuno dovesse raggiungere la soglia del 37%, il ballottaggio tra le due liste o coalizioni più votate assegnerà al vincitore 321 seggi (52%); soglia di sbarramento nazionale al 12% per le coalizioni, al 4,5% per i partiti coalizzati e all’8% per i partiti non coalizzati; suddivisione del territorio nazionale in più di 100 collegi plurinominali, da designare con un decreto legislativo che il governo è delegato a varare entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge; brevi liste bloccate senza possibilità di esprimere preferenze. La Camera, eletta con il Porcellum, sconfessato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, approva una legge elettorale maggioritaria e antidemocratica, con altissime soglie di sbarramento [14]. Passerà poi con modifiche il 27 gennaio 2015 al Senato (con 184 sì, 66 contrari e 2 astenuti; 23 senatori del PD non partecipano al voto). La versione finale licenziata dal Senato e poi approvata definitivamente dalla Camera il 4 maggio 2015 – col ricorso al voto di fiducia! – prevede: premio di maggioranza di 340 seggi (54%) alla lista (non più alla coalizione) in grado di raggiungere il 40% dei voti (non più il 37%) al primo turno; ballottaggio tra le due liste più votate se nessuna dovesse raggiungere la soglia del 40%, senza possibilità di apparentamento tra liste. Il vincitore ottiene 340 seggi (54%), non più 321 (52%); soglia di sbarramento unica al 3% su base nazionale per tutti i partiti, non essendo più previste le coalizioni; suddivisione del territorio nazionale in 100 collegi plurinominali (designati successivamente con un decreto legislativo); designazione di un capolista “bloccato” in ogni collegio da parte di ciascun partito, con possibilità per i capilista di candidarsi in massimo 10 collegi. La legge n. 52/2015, firmata dal presidente della repubblica Mattarella, nonostante evidenti profili di incostituzionalità (che la sentenza della Consulta del 25 gennaio 2017 rileverà) entra in vigore il 23 maggio 2015, ma le disposizioni decorrono dal 1° luglio 2016, in attesa dell’approvazione della riforma costituzionale, a tal punto data per già fatta, che, con l’emendamento (11 marzo 2014) del deputato PD Giuseppe Lauricella, è stata stralciata la parte riguardante il Senato. 
L’8 aprile 2014 viene presentato al Senato, a firma di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, il disegno di legge costituzionale su “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”. L’8 agosto 2014 il Senato lo approva con alcune modifiche. Il 10 marzo 2015 passa alla Camera, per ritornare al Senato (13 ottobre 2015). L’11 gennaio 2016 vi è l’approvazione definitiva della Camera con 367 sì, 194 no e 5 astenuti. 
La riforma – scrive Domenico Gallo – non è una semplice legge di revisione della Costituzione. Si tratta di un intervento che modifica o sostituisce ben 47 articoli, oltre un terzo dell’intero corpo normativo, realizzando in questo modo la sostituzione dell’ordinamento democratico previsto dalla Costituzione con un altro ordinamento, ispirato a principi e ragioni affatto differenti da quelle che avevano guidato i padri costituenti. Si tratta, pertanto, di un progetto ambizioso simile a quello che in Francia nel 1958 determinò il passaggio dalla IV alla V Repubblica con la riforma De Gaulle. [… La riforma] persegue un altro obiettivo: quello di aggredire la centralità del Parlamento, cominciando ad eliminare una Camera ed assoggettando l’altra, eletta con metodo supermaggioritario, alla supremazia del Governo, che, essendo già padrone della maggioranza parlamentare, con la riforma, imponendo l’approvazione delle leggi a data fissa, nel termine di 70 giorni, si impadronisce dell’agenda dei lavori parlamentari. In questo modo viene appannata la distinzione fra potere legislativo e potere esecutivo, dal momento che il capo del partito politico “vincitore” delle elezioni, è a capo del potere esecutivo e controlla la maggioranza parlamentare, da lui stesso creata. A questo capo di partito che esercita un potere di fatto quasi senza limiti possono opporre solo un debole argine le istituzioni di garanzia, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale. Attraverso le riforme, viene consolidato il passaggio da una democrazia rappresentativa, fondata sulla centralità del Parlamento, ad una democrazia dell’investitura, fondata sulla prevalenza dell’Esecutivo sul Parlamento e del governo centrale sulle autonomie regionali. Il risultato finale è quello di instaurare una sorta di Premierato assoluto [GALLO 2016].
14. Battersi per la Costituzione, battersi per il proporzionale!
L’attacco organico alla Costituzione del ’48 portato dal governo Renzi è stato respinto il 4 dicembre 2016 da una valanga di 19 milioni e 420 mila No (il 59,1%), per di più con un’alta (relativamente ai referendum [15]) affluenza alle urne: 65,47%. Un risultato clamoroso, se si guarda all’insieme di forze, interne e internazionali, mobilitate a favore della riforma Renzi/Boschi: un potentissimo apparato mediatico al servizio del governo e del suo “capo”, onnipresente in TV, come mai era avvenuto in una consultazione referendaria; l’endorsement dei principali leader dei paesi occidentali, da Obama alla Merkel, accorsi in soccorso di un governo incaricato di mettere in atto le loro direttive; le grandi banche d’affari e i loro principali giornali; le grandi organizzazioni padronali e i rappresentanti del grande capitale, dalla Confindustria a Marchionne; il clero mediatico filogovernativo, gli intellettuali voltagabbana, sempre proni al potente di turno, sempre pronti a giustificare con alchimie verbali e contorti pseudoragionamenti le loro scelte opportunistiche; le minacce aperte di attacchi finanziari speculativi al sistema bancario nazionale; la demagogia di basso livello che proponeva di barattare il sistema democratico costituzionale in cambio del risparmio di 40 denari; l’ingannevole discorso del “rottamatore” Renzi, che invitava ad accettare qualsiasi cosa, anche pessima, purché nuova; 40 milioni di lettere per il Sì inviate ad ogni elettore.
Il fronte del No era composito e molto variegato. Diverse forze politiche schieratesi per il No, da Forza Italia alla Lega Nord, sono – come si può chiaramente evincere dalla ricostruzione sommaria delle vicende costituzionali dell’ultimo quarto di secolo che è stata qui delineata – ferocemente avverse alla Costituzione del ‘48, sono per il presidenzialismo, la governabilità a scapito della rappresentanza, per il rafforzamento del potere esecutivo e la riduzione del ruolo del parlamento, contro il sistema elettorale proporzionale e per il maggioritario, sono contrarie alla Costituzione di democrazia economico-sociale e al governo parlamentare, vorrebbero cancellare l’articolo 1 (la “repubblica democratica fondata sul lavoro”) e tutti gli altri che ad esso si ispirano. Dopo aver inizialmente approvato riforma elettorale e riforma costituzionale, si sono schierate per il No per mero calcolo politico, per colpire l’avversario politico, insieme al quale, magari, riproporre in un prossimo futuro stravolgimenti della Carta non molto diversi da quello proposto da Renzi e Boschi. Accadde lo stesso, a parti invertite, con il referendum costituzionale del 2006, quando il centro-sinistra avversò la riforma presidenzialistica di Berlusconi, per rilanciare subito dopo proposte di “riforme” non molto dissimili nell’impianto di fondo da quella berlusconiana.
Tuttavia, nella vittoria del No vi è stato il contributo qualitativamente determinante delle forze vive che hanno animato la battaglia referendaria; che hanno costituito non solo nelle grandi città, ma anche nei comuni minori, comitati unitari fondati sui principi e l’architettura della Costituzione del ’48; che hanno promosso in tutt’Italia migliaia di iniziative, conferenze, comizi, manifestazioni, con l’attivismo volontario e autofinanziato di migliaia di persone risvegliate alla politica in nome della nostra Carta costituzionale. 
Rispetto alla mobilitazione per il referendum antiberlusconiano del 2006, vi è stata una partecipazione più consapevole, con un maggior coinvolgimento di donne e uomini in carne e ossa; vi è stata una più ampia spinta di base. La mobilitazione del 2006 fu sostanzialmente sotto la grande ala dei DS (in procinto di diventare PD nel 2007), che avevano ricostruito una grande coalizione di centro-sinistra, l’Unione, che andava fino al PdCI e al PRC. Il fronte contro la riforma berlusconiana poteva presentarsi ancora nel solco già rodato di una grande tradizione antifascista unitaria. In fondo – anche se in realtà non era propriamente così, viste le pulsioni maggioritarie e presidenzialistiche presenti nel PDS sin dai primi anni 90 – i fronti sembravano ben delineati: da un lato, il centro-sinistra democratico e antifascista, su cui convergevano le grandi organizzazioni dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, impegnate nel fronte del No; dall’altro, la destra autoritaria. 
Dieci anni dopo, la strada dell’opposizione alla riforma renziana era molto più impervia: quando viene approvata in prima battuta al Senato l’8 agosto 2014, è in pieno vigore il “patto del Nazareno” tra PD e Forza Italia. I sindacati confederali sono collaterali al PD, come anche le cooperative, l’ARCI, l’ANPI: anche se non condividono in toto la riforma renziana, fortemente sostenuta dal presidente Napolitano, non è facile che si mettano apertamente di traverso sulla strada di un governo e di un partito che alle elezioni europee del 2014 vola al 40,8%. 
Nel 2006 l’opposizione alla riforma berlusconiana poteva contare su una dignitosa presenza organizzata dei partiti comunisti nel territorio e in parlamento (alle elezioni del 2006 il PRC ottiene alla Camera il 5,84%, il PdCI il 2,32%); dieci anni dopo, i comunisti risultano, purtroppo, frantumati, ridotti pressoché all’insignificanza. 
Né vi è una qualche forza di sinistra non comunista di rilievo: SEL, che gode di una discreta pattuglia parlamentare grazie all’abnorme premio del Porcellum, ottenuto in coalizione con il PD nelle elezioni del 2013, non ha un consistente e diffuso radicamento territoriale e si divide al suo interno tra la prospettiva di coalizione col PD e quella di una politica autonoma. Riguardo alla legge elettorale, poi, dopo aver inizialmente aderito nel 2011 all’iniziativa di Passigli contro il premio di maggioranza del Porcellum, obbedisce al richiamo dei vertici del PD e si muove a sostegno di un ritorno al maggioritario uninominale del Mattarellum. In difesa appassionata del quale, interviene, nel dibattito alla Camera sull’Italicum (12 marzo 2014), tra gli applausi dei deputati di SEL, Gennaro Migliore (allora rappresentante di SEL prima di indossare la casacca del PD) [16].
Il lavoro politico-culturale per erodere il fronte renziano è stato complicato, difficile, controcorrente. Un ruolo importante, fondamentale, nella costruzione di un’opposizione consapevole e ragionata alle “deforme” renziane è svolto dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, nato il 24 febbraio 2015 su iniziativa di numerose associazioni attive nella società civile, personalità della cultura, esponenti sindacali e politici, con l’obiettivo di “difendere e valorizzare i principi della democrazia della nostra Costituzione nata dalla Resistenza, operando per attivare l’opinione pubblica, largamente inconsapevole del significato e dei contenuti del processo di riforme istituzionali in atto, e per promuovere un dibattito politico che consenta la partecipazione di tutti i cittadini e faccia avanzare la consapevolezza della posta in gioco per gli anni futuri”. Una serie di reti e comitati per la Costituzione già esistenti si sono rapportati a questo Coordinamento, riuscendo a svolgere un lavoro capillare nei territori. 
Significativo è stato, per una prima erosione del blocco ideologico renziano, la presa di posizione del presidente dell’ANPI Carlo Smuraglia, che sin dalla primavera 2014 indirizza l’associazione – forte di 120mila iscritti, ma molto più rilevante per il peso politico-ideale – su una posizione critica. Il 29 aprile 2014 si tiene a Roma un’iniziativa per “lanciare l’allarme contro un progetto che, unendosi ad una legge elettorale come quella che è stata approvata alla Camera ed al proposito di irrobustire i poteri del Presidente del Consiglio e del Governo, si risolverebbe in una ulteriore e grave riduzione degli spazi di democrazia, che subiscono da tempo una lenta ma progressiva erosione e che, invece, l’ANPI considera intangibili, alla luce dei princìpi e dei valori costituzionali” [ANPI 2014a]. 
Ancor più importante per l’erosione del blocco renziano sarebbe stata la presa di posizione della CGIL. Sebbene con notevole ritardo (8 settembre 2016) e un sofferto dibattito al suo interno, l’Assemblea generale della CGIL ufficializza la sua posizione sul referendum, invitando a votare No, “ferma restando la libertà di posizioni individuali”, e puntualizzando che “nel preservare la propria autonomia” non aderirà ad alcun Comitato. Nella storia dei rapporti col partito di riferimento, è certamente una svolta significativa, al di là del fatto che l’impegno nei luoghi di lavoro e nei territori di un’organizzazione che ha quadri, apparati, risorse, strutture rilevanti, sia stato sporadico, disomogeneo, certamente molto al di sotto delle potenzialità del maggiore sindacato italiano.
In parlamento e nelle piazze il M5S, che ha scelto molte volte, ma non sempre, di non lavorare con i comitati unitari del No, ma in solitaria, ha dato, con il peso dei suoi consensi elettorali (secondo i sondaggi, intorno al 30%) e con l’iniziativa militante dei suoi attivisti, un contributo essenziale, rilevantissimo, alla vittoria del No. 
È difficile valutare quanto di questo No del M5S sia dovuto alle ragioni di difesa e rilancio della Costituzione del 1948, e quanto sia “strumentale”, di pura e semplice opposizione al governo Renzi. Il M5S rappresenta oggi una forza importante, forse la prima forza politica del paese. Il suo schieramento nel fronte del No è politicamente diverso da quello delle forze di destra – FI, Lega, FdI – che si sono opposte alla riforma renziana per mere ragioni tattiche e non certo perché fautrici della Costituzione del ’48, che nel corso dell’ultimo quarto di secolo hanno provato più volte a stravolgere. Tuttavia, sulla questione della Costituzione e del sistema elettorale proporzionale che ne è l’architrave, il M5S ha una posizione non di principio, ondivaga, ambigua, che in diversi casi si rivela meramente strumentale. 
È il caso, in particolare, della legge elettorale. Dopo la sentenza della Consulta (25 gennaio 2017) che dichiara incostituzionale il ballottaggio, ma assolve (ne ignoriamo le motivazioni, non ancora pubblicate) il premio per la lista che superi il 40% dei voti validi, il M5S chiede di estendere il “premio di governabilità” anche al Senato, con buona pace delle dichiarazioni a difesa del proporzionale o della democrazia diretta. Un fautore della democrazia diretta non dovrebbe propugnare una legge maggioritaria – specchio deformante della realtà politica del paese – nella democrazia delegata. 
Le oscillazioni e le ambiguità del M5S sul sistema elettorale rimandano ad una questione a monte: la forma di governo parlamentare e la centralità del parlamento. Il governo parlamentare implica che il governo si formi non la sera stessa del voto, non appena siano noti i risultati elettorali (è il mantra in continuazione ripetuto), ma in parlamento, con le forze politiche che lì dovrebbero essere rappresentate col sistema proporzionale. Il che significa, in un contesto di pluralismo politico e sociale, che, nella maggior parte dei casi, in cui nessuna forza politica consegue la maggioranza assoluta dei voti, occorrerà trovare un accordo tra le forze politiche, costruire una coalizione, sulla base di un programma e di un patto politico. La cui qualità e bontà, il cui carattere progressivo o regressivo, dipendono dalla qualità delle forze politiche che lo stipulano e lo mettono in atto. Se si accoglie il principio del governo parlamentare, nessuna forza politica dovrebbe a priori e “a prescindere” rifiutare la possibilità di un accordo, di un patto di coalizione. Rifiuto a prescindere, che è stato sinora uno dei punti irrinunciabili, se non il principale carattere distintivo, del M5S. Il quale, perciò, è continuamente percorso da impulsi “tattici” maggioritari, con la disponibilità a votare con qualsiasi legge maggioritaria, dal Porcellum all’Italicum al legalicum (l’Italicum come modificato dalla Consulta), buttando alle ortiche la proporzionale. L’attuale posizione del M5S, che accetta il maggioritario, proponendosi di raggiungere il 40% per avere il premio e andare da solo al governo del paese, potrebbe non giovargli neppure dal punto di vista tattico: è già pronta la proposta per estendere il premio alla coalizione e non alla lista singola. Opporsi a tale proposta diviene ben più difficile da parte di chi ha avallato la logica del premio di governabilità. 
Dopo la vittoria del No si è svolta a Roma il 21 gennaio una partecipata assemblea nazionale dei comitati. Il documento conclusivo, riconosciuto lo “straordinario valore” della vittoria del No, che potrebbe “cambiare il corso politico del nostro paese e aprire una nuova stagione democratica fondata sui principi fondamentali della Costituzione”, propone di mantenere attivi i 750 comitati territoriali “contro tentazioni future di stravolgimento dell’assetto costituzionale e per la piena attuazione della Costituzione”, ponendo tra i compiti immediati la battaglia per una legge elettorale proporzionale.
Difficilissima da sostenere oggi, date le forze politiche presenti in parlamento, coi loro opportunismi e tatticismi deleteri e una miopia così marcata che non riesce a far volgere lo sguardo al di là dell’immediato domani, la battaglia per il proporzionale rimane strategica per il movimento operaio e ha un grande valore politico e ideale, anche di battaglia per la verità, per la formazione politica delle nuove generazioni. 

Note 
1. Cfr. in particolare il libro di Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, nonché la sua relazione all’assemblea nazionale del 21 gennaio 2017 dei comitati del No, riportata in questo volume.

2. Sull’unicità della Costituzione italiana nel panorama delle costituzioni occidentali e sul suo carattere di democrazia economico-sociale, cfr. in questo volume, Salvatore d’Albergo, La Costituzione di democrazia economico-sociale.

3.  In un saggio di alcuni anni fa – pubblicato all’indomani dell’approvazione della riscrittura in senso fortemente presidenzialistico, ad opera del governo Berlusconi III (2005), del titolo V della Costituzione – Mario Dogliani e Ilenia Massa Pinto propongono una condivisibile periodizzazione della storia costituzionale italiana: 1. Armistizio fragile (1943-1955), in cui “la Costituzione venne attuata solo nelle parti che disciplinano lo scheletro della democrazia: le regole di coesistenza che rendevano possibile il non ricorso alla guerra civile”. 2. Armistizio consolidato (1956-1968): “Le prime attuazioni della Costituzione testimoniano che non era più in gioco la sua revoca”. 3. Disgelo (1969-1978), ovvero gli anni più fecondi di attuazione della Costituzione. 4. Nuova glaciazione (1979-1993): il referendum del ‘93 e la legge elettorale maggioritaria “Mattarella” sanciscono che “la Costituzione del ‘48 aveva cessato di rappresentare lo strumento essenziale di un equilibrio strategico vitale”. 5. Il passaggio dalla “lotta sulla Costituzione” alla “lotta per la Costituzione”, tuttora in corso [DOGLIANI – MASSA PINTO 2006].

4. Il XIV Congresso della DC (1980) elegge segretario il leader dell’area conservatrice Flaminio Piccoli e approva un “Preambolo”, che esclude un’alleanza con il PCI.

5. È, questa, materia estremamente complessa su cui i comunisti in Italia, oggi ridotti al lumicino, dovrebbero riprendere una riflessione attenta e approfondita.

6. Il 27 settembre 1979 Bettino Craxi, sostenuto da Giuliano Amato, lancia dalle colonne dell’“Avanti!” la “Grande Riforma dello Stato”.

7.  Il dispositivo del discorso può essere ben illustrato dai numerosi articoli che tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 pubblica su riviste e quotidiani di grande tiratura Salvatore Sechi, solerte e convinto propagandista del presidenzialismo e della modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Cfr. S. Sechi, Non è detto che sia sempre legge truffa, “L’Espresso”, 22 aprile 1979, pp. 79-88. ID., Il dibattito per la riforma dello stato. Repubblica presidenziale: alcune proposte concrete, “Corriere della sera”, 23 ottobre 1979, p. 2. ID., Da François Mitterrand una lezione per la sinistra italiana. Esecutivo forte, legge maggioritaria, “Il Messaggero”, 6 luglio 1981, p. 2. ID., Attenzione al “conservatorismo” dei partiti, “Il Messaggero”, 14 agosto 1982, p. 2. ID., Si possono modificare le tecniche mantenendo inalterati i valori. La Costituzione non è un tabù, “Il Giorno”, 31 agosto 1982, p. 2. ID., Il sovrano mancato, “L’Opinione”, 13 marzo 1984, p. 2. ID., Riforma istituzionale. Proporzionale questo mostro sacro, “Il Giorno”, 24 luglio 1984, p. 2. ID., Le indicazioni per un esecutivo più forte. Dare uno scettro al principe, “Corriere della sera”, 12 novembre 1985, p. 2. ID., Riforme istituzionali per garantire stabilità di governo, “Il Secolo XIX”, 12 novembre 1985, p. 2. ID., Riforme istituzionali. Idee per cambiare le regole del gioco, “Il Resto del Carlino”, 12 dicembre 1986, p. 4.

8. Il termine “partitocrazia” ha una lunga storia. Nell’infuriare della polemica antipartitocratica del 1992-93, funzionale al passaggio al maggioritario, accade anche di registrare, nel dibattito parlamentare sulla legge elettorale “Mattarella”, una disputa sulla sua primogenitura tra il deputato leghista Luigi Rossi, che, a sostegno della legge, evoca lo spettro di Weimar e inveisce contro “40 anni di centralismo partitocratico” e Carlo Tassi, neofascista del MSI, che rivendica orgogliosamente la paternità di Mussolini nella coniazione della parola: «Scusate, richiamiamo un piccolo marchio di fabbrica: il termine “partitocrazia”; non è stato inventato dai tedeschi; si tratta infatti di un neologismo di chiara marca mussoliniana. L’Italia non ha avuto bisogno di tradurre dal tedesco, come ha detto l’onorevole Rossi, la parola “partitocrazia”; la disse Mussolini su questi banchi al tempo in cui per primo soppresse l’appellativo di “onorevole” e, nel novembre 1922, si rivolse ai colleghi chiamandoli signori». In Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. XI Legislatura. Resoconto stenografico. Seduta del 14 giugno 1993, p. 14629.

9. L’ansia di presidenzialismo porta a modificare il termine costituzionale di “presidente del consiglio dei ministri” in “primo ministro”. Lo stesso accade nel programma dell’Unione (di centro-sinistra) per le elezioni politiche del 2006.   L’ansia di presidenzialismo porta a modificare il termine costituzionale di “presidente del consiglio dei ministri” in “primo ministro”. Lo stesso accade nel programma dell’Unione (di centro-sinistra) per le elezioni politiche del 2006.

10. Per una recente e sintetica puntualizzazione, cfr. Mauro Gemma, Marzo 1999: l’aggressione USA-NATO alla Jugoslavia, in “MarxVentuno” n. 1-2/2016.

11. 8 settembre 2011, il Consiglio dei Ministri vara il disegno di legge costituzionale; 30 novembre, la Camera lo approva con 464 sì, nessun no e 6 astenuti; 15 dicembre, il Senato approva con 255 sì, nessun no e 14 astenuti; 6 marzo 2012, La Camera approva in seconda lettura con 489 sì, 3 no e 19 astenuti; 17 aprile 2012, il Senato approva in via definitiva con 235 sì, 11 no e 34 astenuti. La legge costituzionale entra in vigore l’8 maggio 2012, ma le sue disposizioni hanno effetto a partire dall’anno 2014.

12. Il premio di maggioranza “è foriero di una eccessiva sovrarappresentazione” e può produrre “una distorsione”, perché non impone “il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista”.

13. L’appello, diffuso il 27 marzo 2014, ha tra i primi firmatari Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace.

14. Può essere interessante – per avere un’idea del consenso che il renzismo in ascesa suscita anche tra chi, un anno dopo, si dissocerà con accenti critici – rileggere la dichiarazione di voto a favore dell’Italicum, in stretta connessione con la riforma costituzionale, del capogruppo dei deputati PD Roberto Speranza: “Il nostro è prima di tutto un sì ad alcune domande di fondo che toccano il cuore della nostra democrazia e parte dal presupposto che con questo voto si arriva finalmente ad una partenza del treno delle riforme nel nostro Paese. […] Giorgio Napolitano è un cardine della nostra democrazia e fare le riforme significa anche dire che quel secondo mandato, che noi gli abbiamo chiesto, ha avuto ed avrà senso.[…] Oggi, finalmente, con questo voto noi avviamo questo treno delle riforme. E guardi, Presidente, abbiamo deciso di fare una legge elettorale valida solo per la Camera, abbiamo stralciato il famoso articolo 2. Io penso che questo sia il punto politico più rilevante: è l’impegno solenne di questo Parlamento a fare le riforme che il Paese aspetta. Basta parole: il superamento del bicameralismo; la trasformazione del Senato, su cui io credo che da subito, immediatamente, dobbiamo impegnarci perché si proceda con la partenza della discussione verso una prima approvazione di quel provvedimento; la riduzione del numero dei parlamentari. Non più parole, non più solo parole, ma fatti che ci consentano finalmente di dire agli italiani che la politica ce la può fare!”, in Atti Parlamentari - Camera dei Deputati, XVII legislatura, Discussioni, Resoconto stenografico 188, Seduta di mercoledì 12 marzo 2014, pp. 22-24. 

15. Nel referendum costituzionale del 2006 l’affluenza al voto fu del 52,46%.

16 . “Noi, noi, abbiamo difeso fino alla fine la legge Mattarella, quella dei collegi uninominali, non quelli che l’hanno portata qui dentro come una bandiera e un vessillo e poi l’hanno lasciata cadere (Applausi dei deputati del gruppo Sinistra Ecologia Libertà), e lo dico soprattutto ai colleghi del MoVimento 5 Stelle: con i vostri voti avremmo potuto far passare il Mattarellum ed impedire questo scempio”. In Atti Parlamentari - Camera dei Deputati, XVII legislatura, Discussioni, Resoconto stenografico 188, Seduta di mercoledì 12 marzo 2014, p. 16.

Editoriale del n. 1/2 2017 di MarxVentuno 
Fonte: Marx21.it

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