La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 16 febbraio 2017

Pensare strategicamente la lotta contro la Loi Travail

di Christian Laval
Contre la loi travail et son monde di Davide Gallo Lassere è il primo libro che tenta di fare il punto sulla sequenza di lotta sociale della primavera 2016, il “lungo marzo francese”, prolungato da Nuit debout. Il saggio mette in prospettiva storica il movimento primaverile, risalendo al cambiamento del regime d’accumulazione intervenuto negli anni 1970 e iscrivendolo nel processo di cambiamento della composizione del salariato e delle sue forme. Questo saggio rompe con le letture troppo immediate e congiunturali, e, soprattutto, con le letture descrittive e senza concetto. Il libro di Davide Gallo Lassere è dunque molto più di un semplice pamphlet. È al contempo una cronaca della lotta e un’interpretazione teorica del movimento. È per questo che merita che gli vengano poste un certo numero di questioni attinenti alla portata e alle caratteristiche del movimento.
Dell’effetto politico del movimento
La prima questione da porre concerne l’effetto politico del movimento. Il libro, scritto tra luglio e agosto, dà appuntamento a settembre 2016. Come lo sappiamo, la legge è passata e il movimento si è spento. Non è la prima volta che un movimento fallisce nel far arretrare un governo. Uno degli aspetti più rilevanti della forma di governo neoliberale è che un governo non arretra davanti ai movimenti sociali, non negozia. Thatcher ha fornito l’esempio via il confronto brutale con i sindacati dei minatori. Lo stesso scenario si è presentato in Francia durante le grandi manifestazioni del 2003 e del 2010 – il movimento anti-CPE del 2006 essendo un’eccezione. Ciò che costituisce la novità riguarda il fatto che sia un governo che si reclama “social-democratico” ad aver adottato tale stile autoritario e intransigente, rompendo nel modo più esplicito con tutta la tradizione social-democratica del “compromesso sociale”; quasi come se avesse voluto fornire, nei confronti del potere europeo, la prova per l’ennesima volta della sua adesione piena e integra all’agenda ordoliberale delle “riforme strutturali”.
Ma cosa significa questa “vittoria”? Per il governo, si tratta di ciò che comunemente si chiama una vittoria di Pirro, poiché è in parte corresponsabile dell’impopolarità crescente di Hollande e Valls. L’effetto politico di lunga portata consisterà in un tornante a sinistra del partito socialista, ultimo tentativo di resurrezione della social-democrazia, oppure in un’accelerazione del suo declino come in Spagna e in Grecia? Ad ogni modo, il movimento ha chiaramente posto il problema dell’egemonia del partito socialista sulla sinistra e del rovesciamento del rapporto di forze in favore del capitale da essa promosso. Più in generale, questo movimento non testimonia anche delle forme di radicalizzazione che hanno a che fare sia con la destra che con la sinistra, come l’abbiamo visto alle primarie della destra con la vittoria di un candidato che osa richiamarsi a Margaret Tatcher? La Francia ha davanti a sé degli scontri via via più duri, siccome la destra e il patronato, incoraggiati dalla sottomissione del partito socialista al neoliberalismo, sembrano decisi a portare fino in fondo questa logica neoliberale. Quanto all’estrema destra, si nutre di queste politiche anti-popolari, beneficiando della seduzione del “socialismo nazionale” neofascista presso le “classi declassate”. Infine, se il movimento sociale non si è risvegliato quest’autunno, abbiamo al contrario visto la mobilitazione di un movimento corporatista, animato da poliziotti di estrema destra – fatto che non annuncia niente di buono rispetto alla radicalizzazione politica in seno all’apparato repressivo di Stato.
Omogeneità o eterogeneità del movimento?
La seconda questione concerne la composizione sociale e politica del movimento contro la Loi Travail e Nuit debout. Il libro di Davide Gallo Lassere insiste sul fatto che il movimento non ha integrato i “gruppi sociali razzializzati”. Certo, ma ciò autorizza veramente a tirare le conclusioni di un’omogeneità sociale e politica del movimento? Il saggio pare postulare una sorta di continuità, persino di connivenza, tra lo “spezzone di testa” [cortège de tête] e il corteo dei salariati condotto o inquadrato dalle organizzazioni sindacali, principalmente CGT, FO e Solidaires. Sottolinea a più riprese il carattere produttivo e offensivo dell’“azione reciproca” tra le differenti componenti del movimento.
Ciò pone un insieme di problemi, a partire dalla convergenza di più forme d’espressione politica. Sembra, a seguire lo svolgimento del movimento nel suo insieme, che quest’ultimo sia stato attraversato da tre logiche differenti e su certi punti inconciliabili. Si potrebbe denominarle così: la logica sindacale che prova la sua forza grazie al numero; la logica della sommossa e dello scontro con la polizia; la logica democratica che inventa e sperimenta nuove pratiche.
La coesistenza di queste forme nelle stesse manifestazioni o nello stesso momento non significa che tendano ad unificarsi. Cominciamo dal rapporto tra le due prime logiche. Affianco, o più esattamente in testa alla manifestazione di massa dei sindacati dove il criterio della forza è il numero dei manifestanti e/o degli scioperanti, si è vista apparire un’altra forma di espressione politica rivoltosa per la quale ciò che conta è l’intensità dello scontro, la visibilità dei danni materiali dalla portata simbolica provocati da piccoli gruppi determinati e distaccati dal corpo della manifestazione. Due logiche vicine, quella del numero e della violenza, ma che non s’incontrano e non convergono necessariamente. L’analisi di Davide Gallo Lassere, senza negare questa eterogeneità, postula una convergenza, meglio una “contaminazione” della logica della sommossa al resto del corteo sindacale. Afferma così che le pratiche rivoltose “sono riuscite a contaminare positivamente dei settori normalmente più restii della popolazione e della sinistra tradizionale a queste modalità di manifestazione del dissenso” (pp. 73-74). Senza dubbio gli esempi del 9 aprile o del 1° maggio a Place de la Nation hanno mostrato una certa mescolanza tra il cosiddetto “spezzone di testa” e i manifestanti rimasti sulla piazza, anche se non erano affatto venuti in massa per scontrarsi con la polizia. Possiamo dedurre un’“azione reciproca” positiva, se le componenti di “testa” e di “corpo” sono rimaste, salvo eccezioni, piuttosto estranee l’una l’altra? Non si può negare che la volontà dei gruppi autonomi era di ingaggiare un confronto di massa con la polizia e che la tattica provocatoria delle forze di repressione durante tutto il movimento li ha incoraggiati. Ma si può anche notare come l’effetto domino non ha avuto luogo.
La logica rivoltosa, facendo della polizia il nemico principale, se non il solo nemico (“tout le monde déteste la police”) non ha cercato di deviare il movimento verso altri bersagli rispetto alla Loi Travail? Non era d’altronde l’obiettivo dell’appello degli intellettuali del 22 marzo (data o quanto simbolica) che relativizzava la Loi Travail e chiamava a un “debordamento”: “ci pare che ciò che bolle nel paese ha certo per fattore scatenante la Loi Travail, ma in fin dei conti ha poco a che vedere con questa legge”, spiegava dottamente l’appello. Frase che risuona in modo piuttosto strano siccome la Loi Travail, in quanto legge neoliberale che colpisce direttamente il salariato, può apparire al contrario come intimamente legata a “ciò che bolle”. Si potrebbe prolungare il ragionamento: questa forma rivoltosa d’ispirazione insurrezionalista, non ha danneggiato il movimento sociale permettendo al potere di criminalizzarlo? Ciò che sembra attestare il girotondo sinistro attorno al bacino dell’Arsenal il 23 giugno. Questo “percorso sindacale” sotto stretto controllo poliziesco con perquisizione dei manifestanti è un fenomeno totalmente inedito nella storia sociale francese.
La questione dell’omogeneità concerne ugualmente il rapporto tra movimento sociale e Nui debout. Abbiamo assistito a una sequenza inversa rispetto alla Spagna del 2011: il 15M comincia con un’occupazione delle piazze, la quale si accompagna ad una sperimentazione politica di grandi dimensioni, seguita dalle “maree” sociali che implicano dei salariati di differenti settori dello Stato, e si prolunga infine con una ricomposizione politica tanto su scala locale che nazionale. In Francia, all’inizio vi è un movimento di salariati piuttosto classico che in parallelo vede nascere un tentativo di reinvenzione democratica con Nuit debout. Se vi sono effettivamente state delle intersezioni puntuali tra i due, non è avvenuta una vera e propria fusione. Le organizzazioni sindacali hanno guardato senza dubbio con distanza, può darsi persino con diffidenza, lo sviluppo di un modo di espressione politico che resta loro estraneo. Ciò non è per forza vero per molti dei manifestanti, di cui alcuni sono potuti passare dall’una all’altra di queste forme politiche senza iati. Ma ciò supponeva delle disposizioni particolari per superare la posta in palio immediata della lotta (il ritiro della legge) e interrogare l’insieme dei dispositivi neoliberali, e aldilà, per tentare di praticare una “democrazia reale”. Constatiamo che uno dei grandi limiti del movimento attiene al fatto che Nuit debout non sia riuscita ad attirare la grande massa delle persone mobilizzate contro la legge. Ciò non vuol dire che tutto è svanito. Al contrario, si può legittimamente pensare che ciò abbia rappresentato una prima fase d’apprendimento di nuove pratiche che germoglieranno in altri movimenti.
Quanto alla logica della reinvenzione democratica di Nuit debout, non si armonizza facilmente con la logica rivoltosa e insurrezionalista dello “spezzone di testa”. Vi è tra di loro una contraddizione che il libro non sottolinea forse a sufficienza. Nuit debout obbedisce a una logica radicale il cui principio è l’uguaglianza concreta tra tutti. Nessun esperto, nessun capo, nessun rappresentante. E soprattutto nessuna avanguardia che impone la sua parola e i suoi atti. Ciò ha senz’altro comportato delle difficoltà, ma tutto l’interesse di una pratica utopica di massa sta proprio qui. Al contrario, la logica rivoltosa, aldilà delle intenzioni esplicite di coloro che la praticano, reattiva il grande mito dell’avanguardia auto-proclamata, simbolicamente in avanti rispetto alle masse, a testa del corpo della manifestazione, esercitando una violenza al contempo materiale e simbolica che dovrebbe, si presume, inaugurare il “grande sollevamento”. Non si tratta dell’ultima riedizione, sotto il nome di autonomia, di un’illusione classicamente blanquista, ossia sostitutista? I lazzi e le prese in giro dei “veri arrabbiati” rispetto a Nuit debout (“ricreazione di piccoli-borghesi inoffensivi”, come si è sentito dire) sarebbero sufficienti a mostrare tutto lo scarto tra delle persone che non hanno affatto la stessa strategia.
La contestazione multiforme della primavera 2016 non dimostra forse l’assenza di giunzioni tra le “soggettività ribelli”, fattore che spiegherebbe i limiti del movimento della primavera scorsa? E quest’assenza non tiene forse conto dell’impotenza politica, o piuttosto di una triplice impotenza politica? In quanto né la manifestazione sindacale classica operante sul numero, né la violenza rivoltosa fondata sull’intensità dello scontro con la polizia, né la sperimentazione democratica di Place de la République hanno dato nascita a un movimento politico nuovo e originale. È da venire? Come si attuerà il superamento di questa disgiunzione? È qui che si pone il problema strategico. E l’interesse del libro di Davide Gallo Lassere è di condurci a questo punto.
Quale linea strategica?
Non si può che essere colpiti dal tema della “destituzione” che ha percorso le varie letture interpretative del movimento e che riprende in parte il libro di Davide Gallo Lassere. Questo tema, che sembra provenire da Agamben (e dalla sua lettura di Primo Levi), fa della “destituzione” il nec plus ultra di una certa politica radicale odierna. Si vede così sorgere o risorgere il tema della “sottrazione”, della “fuga” o dell’“esodo”. Che cosa ci dicono tali concetti della politica attuale? In che cosa la destituzione è così seducente per una parte almeno della gioventù colta e radicalizzata? Per dirlo in termini più strategici, come la “destituzione” permette di strappare l’iniziativa dalle mani del capitale e di riequilibrare il rapporto di forze tra capitale e lavoro? Non è questo il luogo per discutere l’apporto concettuale di Agamben. Ci atterremo alla proposta politica centrale di Davide Gallo Lassere. A seguirlo, per congiungere le “soggettività ribelli” bisogna porre un obiettivo politico. A tal riguardo, il “reddito sociale incondizionato” fornirebbe un potere destituente particolarmente potente rispetto al lavoro salariato. Avrebbe l’immenso interesse di permettere la ricomposizione di un soggetto politico. La rivendicazione del reddito sociale incondizionato, scrive Davide Gallo Lassere, “può così costituire il pilastro di una potente ricomposizione di classe, facendo convergere e articolando tra di loro le esigenze differenti di una pluralità di soggettività” (p. 90). Donne, giovani, popolazioni razzializzate vi troverebbe in particolare la base al contempo unitaria e molteplice di un’azione comune, ciò che non sarebbe più il caso delle rivendicazioni tradizionali legate alla centralità del salariato. E questo carattere unitario è dovuto al fatto che il denaro è un equivalente generale. La molla dell’unità nella molteplicità, la composizione della moltitudine, passerebbe necessariamente dall’equivalente monetario legato alla forma-merce della società. L’autonomia individuale apportata dal reddito sociale incondizionato avrebbe una dinamica socializzante più importante del lavoro. Per dirlo in altri termini, il comune passerebbe al contempo dai meccanismi di redistribuzione e dal mercato. Siamo qui ovviamente agli antipodi Marx: il lavoro non è più la base del comune a venire. Il denaro invece sarebbe l’unico in grado di fornire questa base. Solo quando le condizioni dell’autonomia individuale saranno riunite grazie al reddito sociale incondizionato si potrà immaginare la costruzione di una nuova società. L’autore raccomanda così una rivoluzione tramite il denaro: “chi vuole prendere il potere, che cominci col prendere il denaro”.
Questa proposta politica, dal portamento a tratti provocatorio, è innanzitutto degna d’interesse per il fatto che esplicita chiaramente una delle implicazioni della teoria del reddito universale: rimpiazzare il lavoro tramite il mercato come mediazione sociale. L’autonomia individuale, secondo l’autore, è innanzitutto permessa dall’accesso al mercato, non passa dalla socializzazione del lavoro. E ciò è altamente problematico. Perché mai il reddito sociale incondizionato potrebbe sfociare su qualcos’altro rispetto a una società di individui che non hanno tra di loro nessun altro rapporto che il mercato? Tra il lavoro salariato sotto il comando del capitale e l’accesso al mercato al difuori del lavoro non vi sarebbe un’altra via? È possibile isolare una “politica destituente” da uno scopo rivoluzionario di reistituzione della società? Davide Gallo Lassere non lo pensa di certo. Ma come pensare insieme allora questa visione d’insieme e delle rivendicazioni parziali?
Re-istituzione non vuol necessariamente dire ristabilire una rappresentanza dalle pretese sovrane, come non significa nemmeno una sistemazione ai margini del rapporto capitale/lavoro. La politica del comune, della quale la questione del reddito e l’accesso alle risorse non è che un aspetto, non fa del denaro e del mercato le leve principali e ancor meno le uniche di una trasformazione radicale della società. Essa mette in primo piano la pratica democratica istituente, ossia la trasformazione di tutte le attività secondo un principio di co-decisione e di co-obbligazione. È in ciò del resto che la sperimentazione di Nuit debout, aldilà dei suoi limiti, rappresenta un avanzamento. Insomma, la discussione che apre il libro di Davide Gallo Lassere si focalizza sulla transizione verso una società del comune: come articolare la trasformazione della struttura e della natura dei redditi con la trasformazione delle attività stesse? È la risposta concreta che saremo capaci di apportare a tale questione strategica senza false via di fuga né illusioni che condizionerà la congiunzione dei rifiuti, delle rivolte e delle sperimentazioni.

Fonte: Effimera 

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