La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 24 febbraio 2017

Diseguaglianza, dalle maree ai naufragi

di Marco Bertorello
Sulla diseguaglianza in questi anni sono uscite molteplici ricerche e riflessioni, anche di carattere divulgativo. Basti pensare allo statunitense Joseph Stiglitz, al britannico Anthony B. Atkinson o al nostrano Luciano Gallino. Per non dire del recente contributo del francese Thomas Piketty sull'importanza del patrimonio ereditario e dei suoi effetti cumulativi. Una valanga di dati denunciano le crescenti sperequazioni socio-economiche, soprattutto nei paesi occidentali. Tale mole di numeri trova una corrispondenza, almeno nei paesi tradizionalmente più ricchi, anche nel senso comune, riassunto nello slogan diffuso dal movimento di Occupy Wall Street sul 99% contro l'1% di ricchi.
Uno slogan che, se da un lato può apparire eccessivo nella sua semplificazione (il 99% ovviamente non è in una condizione omogenea), dall'altro non solo è una fotografia della realtà, ma addirittura minimizza i processi in corso, in quanto per la precisione solo lo 0,1% degli americani ha visto crescere decisamente il proprio patrimonio. Detto ciò, il tema delle diseguaglianze è questione complessa e articolata e vorrei provare a prenderlo da un altro punto di vista.
La crescita globale, in particolare il ruolo dei cosiddetti paesi emergenti, con tutte le sue storture e sperequazioni, sembrerebbe dimostrare il teorema secondo cui la crescita economica è come la marea che innalza il livello di tutte le imbarcazioni. A prescindere dal fatto che aumentino le differenze. Come dire che, nonostante l'aumento delle differenze relative, quel che conta è che tutti abbiano un po' di più: ovvero che l'arricchimento di pochi non inficia la riduzione della povertà sul pianeta ma, in buona misura, ne sia il presupposto. Questo è ciò che si legge, almeno nelle riflessioni più ardite. Alcuni studiosi, come Charles Kenny, sono però costretti a riconoscere «l'appiccicosità dei redditi» oppure «la difficoltà a incrementare i tassi di crescita». In ogni caso, questo teorema è l'unico che prova a fronteggiare la denuncia delle diseguaglianze. Ma davvero la crescita globale riduce la povertà in termini assoluti? Quando c'è l'alta marea, insomma, tutte le barche salgono almeno un po'? Il contesto globale è assai differenziato. Sottolineare come la differenza tra paesi va diminuendo indurrebbe all'ottimismo, ma occorre riflettere anche sulla diseguaglianza all'interno dei paesi e in particolare sull'esplosione di quella dentro ai paesi più ricchi. Intanto perché, anche se le differenze di potere d'acquisto in termini relativi vanno diminuendo, quelle assolute aumentano. La Cina, ad esempio, seppur in decisa crescita in termini percentuali, parte da una base molto ristretta e, secondo le proiezioni dell'Ocse, la differenza assoluta di reddito tra Usa e Cina potrebbe aumentare fino al 2057.
Alcuni grandi paesi come Cina e India, poi, sono cresciuti a tal punto da vedere l'affermarsi di una classe media, ma le stime di questa ascesa sono assai discordanti: per la sola Cina si ipotizza una classe media che va dai 70 ai 300 milioni di individui. La differenza è rilevante. Allo stesso tempo, sempre nell'Impero Celeste, alcune centinaia di milioni di contadini si sono riversati nelle megalopoli in costruzione, perdendo il proprio radicamento nella terra e finendo per ingrossare le fila di una manodopera spesso schiavizzata e poco specializzata.
Indubbiamente il diffondersi del capitalismo cinese ha anche creato una classe operaia sempre più conflittuale, in grado di elevare i propri livelli di vita e ha dato persino origine a fenomeni di delocalizzazione in altre parti del globo ancora più convenienti per le imprese. Insomma, la globalizzazione nei paesi emergenti ha avuto forme simili ai primi processi di industrializzazione della vecchia Europa e, al contempo, ha alimentato processi di competizione al ribasso in termini di reddito e diritti.
Ciò che a volte viene rivendicato come il grande risultato della globalizzazione, cioè la fuoriuscita dalla povertà per una fetta crescente di popolazione mondiale, è un risultato fatto di luci e ombre, non così incontrovertibile come si vorrebbe.
Un altro aspetto da considerare consiste nell'individuare quali sono stati i soggetti che hanno pagato il conto di questo parziale riequilibrio a livello globale. Infatti, la crescita economica realizzata, per quanto poderosa, non è stata generalizzata, semmai il contrario. Alla crescita di alcune economie emergenti ha corrisposto un impoverimento di altre. Si può parlare di giustizia sociale? La definizione sarebbe corretta se la riduzione della povertà planetaria fosse il risultato di un processo di riequilibrio complessivo. Come dire che al migliorare delle condizioni delle classi sociali più povere avesse corrisposto una riduzione della ricchezza per quelle nettamente più ricche. In realtà, a pagare il conto sono state le classi medie e popolari dei paesi occidentali, cioè quelle uscite dall'indigenza plurisecolare da non più di un centinaio di anni. Le classi dirigenti e più abbienti, il famoso 1% (o meglio lo 0,1%) non solo non hanno visto contrarre redditi e patrimoni, ma dalla globalizzazione hanno ottenuto solo enormi vantaggi. Per fare un solo esempio circoscritto ai redditi da lavoro (in campo finanziario le disparità sono ancor più gravi), negli Usa la retribuzione media dei direttori generali nel 1960 era 12 volte lo stipendio medio di un operaio, oggi è balzata a ben 531 volte. In questi decenni non c'è stato alcun progetto riequilibratore su scala internazionale e neppure una mano invisibile che ha condotto verso un processo di giustizia, semplicemente si è imposto un progetto a tutto vantaggio dei vincitori di quella che è stata chiamata la lotta di classe dall'alto, che ha avuto come controindicazione, e per certi versi come effetto indesiderato, la crescita economica di alcune società fino ad allora ai margini.
Infine, l'attuale crescita di reddito basata su illimitati consumi e crescente mercatizzazione delle società non solo appare di difficile estensione verso una maggiore uguaglianza globale, ma anche insostenibile ecologicamente. Se il modello da esportare e generalizzare continuerà ad essere quello attuale, allora un pianeta finito come il nostro non sarà sufficiente. E a poterne cercare un altro meno inquinato e infetto forse saranno proprio i principali responsabili di questo scempio.

Fonte: Attac 

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