La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 24 febbraio 2017

Il pane ma anche le rose. Quello che la crisi nasconde

di Fabrizio Marcucci
“Bisogna riaccendere la luce evitando di farsi abbagliare, perché dopo tanto tempo che l’hai tenuta spenta, la luce può accecarti”. La metafora di Franco Martini, membro della segreteria nazionale della Cgil, si presta bene a spiegare come fino ad oggi c’è stato un elemento invisibile non solo al sindacato ma un po’ a tutti, presi come siamo dal misurare la crisi in termini di punti decimali di Pil e di numeri legati a redditi e produzione. Eppure ci sono altri numeri, che testimoniano come la tempesta in atto ormai da un decennio sta logorando legami, sta minando la percezione che le persone hanno di sé, sta relegando problemi di natura sociale alla sfera individuale, gravando le persone, già penalizzate da precariato, disoccupazione o ritmi ossessivi di lavoro di un peso ulteriore.
Si tratta di quelle che Ambrogio Santambrogio, sociologo, docente all’Università degli studi di Perugia, definisce “le conseguenze sociali della crisi” per distinguerle da quelle economiche, delle quali si sa molto, a differenza delle prime.
Logorati dentro
Perché sì, la crisi non è solo deprivazione materiale, perdita di “cose” (lavoro, soldi). La crisi, questa crisi che ci trasciniamo dietro da così tanto tempo da essere divenuta la normalità, sta lavorando anche a un altro livello, più profondo, e se possibile più pericoloso. Sta producendo un incupimento generale, che diventa a sua volta la causa di altri problemi. Nel 2010 le persone che si dichiaravano molto soddisfatte della loro esistenza erano il 43,4 per cento della popolazione, nel 2016 erano scese al 41. Nello stesso 2010, c’erano 23 persone ogni cento che ritenevano che gran parte della gente fosse degna di fiducia; oggi sono solo 21. Ancora, per capire come la crisi sia fatta anche di cose immateriali ma fondamentali: fatto 100 l’indice delle relazioni sociali registrato nel 2010, nel 2016 eravamo passati a 97,1. E l’indice di stato psicologico della popolazione, che era 49,8 nel 2005, è passato nel 2013 a 49,1. Si tratta di numeri che fotografano l’invisibile prodotti dall’Istat nel Bes, il rapporto sul benessere equo e solidale che ogni anno punta a fare una stima di come si sta con indicatori che vadano al di là dell’arido e insufficiente Pil. E per andare più a fondo della questione, giova rilevare che mentre nel 2004 si consumavano mediamente 26 dosi di psicofarmaci al giorno ogni mille persone, oggi si è passati a 39. E ancora: secondo una ricerca europea scaturita dalle intuizioni di Michael Marmot, docente di epidemiologia all’University College of London, lo stress psico-sociale abbassa l’aspettativa di vita di due anni.
Cambiare la società, cambiare il lavoro
L’erosione di reddito insomma mina la sicurezza, l’idea di futuro, l’immagine che si ha di se stessi; produce una mutazione nei rapporti interpersonali, e più in generale può portare a un isolamento che non giova alla comunità nel suo complesso, oltre a essere fonte di seri problemi per i singoli individui. Quindi, “occorre riaccendere la luce”, per dirla con Martini. E la Cgil ha battuto un colpo, organizzando a Perugia un convegno dal titolo suggestivo: “La crisi ci rende matti”, che per la qualità degli interventi e per le conclusioni cui si è arrivati ha avuto l’aria di essere solo la prima iniziativa di un lavoro che punta a far entrare il tema nell’agenda pubblica. Noi di ribalta l’abbiamo seguito volentieri, anche perché al tema abbiamo dedicato due diverse uscite, a conferma di quanto ci stia a cuore la questione. Però, ecco. Occhio a non farsi accecare. Perché se davvero si vuol affrontare il problema e farlo diventare politico, come merita, bisogna liberarsi dalle lenti con le quali si è guardato al rapporto lavoro-sicurezza fino a venti anni fa, o giù di lì, l’epoca in cui, secondo Martini, si è spenta la luce. Perché lì il nocciolo del problema era la sicurezza nei luoghi di lavoro. Qui, dopo che è cambiato tutto, o quasi, occorre ripensare il rapporto fra lavoro e non lavoro, fra luoghi di lavoro e società. Anzi. Bisogna ripensare la società affinché cambi anche il lavoro. Perché come ha evidenziato Andrea Filippi, psichiatra e segretario regionale umbro di Cgil Medici, il disagio economico non è di per sé causa di disagio psichico. Lo diventa nel momento in cui la società è fondata solo sulla soddisfazione dei bisogni. Se il lavoro diventa fonte di arricchimento non solo economico, se il lavoratore migliora come persona attraverso la propria opera, si affrontano meglio anche le crisi economiche, dice Filippi. Le testimonianze di alcuni lavoratori che sono state anche diffuse durante il convegno nel video (curato otre che dall’autore del pezzo che state leggendo, da Fabrizio Ricci, dell’ufficio stampa Cgil Umbria) che potete vedere qui sotto invece, testimoniano che c’è ancora da fare, e molto, su questo terreno.
Prima le persone
Prima le persone, insomma. E il fatto che si comincino a considerare finalmente aspetti della crisi che minano proprio le persone nel loro profondo, è già un buon modo di partire, per tentare di illuminare questa zona oscura. Perché tutti gli intervenuti hanno convenuto su alcuni punti fondamentali: la crisi espelle uomini e donne dal lavoro e dal reddito, espone chi riesce a salvare la propria occupazione a ritmi più tesi e difficili da affrontare, provoca disagio perché il futuro diventa oscuro. E tutto questo ha pesanti ricadute psicologiche sulle persone più vulnerabili. Perciò la questione è politica, e come tale va posta, sollevandola dalla mera sfera individuale in cui viene relegata. Del resto, Mario Bravi, presidente di Ires Umbria, ha ricordato come nella sua regione sono stati persi trentamila posti di lavoro nonostante i salari fossero mediamente più bassi che nel resto d’Italia. “Ciò significa che contenere i salari non aiuta a uscire dalla crisi”, ha concluso Bravi. Più in generale: comprimere i diritti, scaricare le tensioni di una crisi economica sui lavoratori, non giova a nessuno, anzi, è sintomo di miopia. Anche perché mentre in Umbria si comprimevamo salari e si espellevano lavoratori e lavoratrici dal ciclo produttivo, l’uso di psicofarmaci nella stessa regione è balzato da 27 a 49 dosi giornaliere ogni mille abitanti in dieci anni. Non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino la correlazione tra peggioramento delle condizioni di lavoro e di non lavoro e utilizzo di psicofarmaci, però, concordano il sociologo (Santambrogio) e lo psichiatra (Filippi), è evidente che c’è un nesso con la desertificazione socio-economica che si è prodotta nello stesso periodo. Certo, ci sono anche altri elementi che portano le persone alla dipendenza da psicofarmaci: su tutti la facilità con cui questi vengono prescritti dai medicina generale, ha sottolineato Santambrogio, che sul tema ha curato un volume dal titolo “Psicofarmaci e quotidianità” edito da Morlacchi, pubblicato nel 2016, ma la radice sociale del problema c’è.
Produrre salute
Già, ma come si fa a tradurre tutto questo in pratica politica? Come si fa a mettere in agenda la questione del “miglioramento complessivo dei lavoratori come persone”, per usare le parole di Filippi, al fine di evitare che la crisi produca anche disagio psichico? Come si riesce a rendere visibile un invisibile così pesante, a riaccendere la luce? Due-tre (buone) idee sono maturate nel corso della mattinata di studio. Vasco Cajarelli, della segreteria regionale della Cgil, nonché anima e motore dell’iniziativa, ha proposto il varo di una legge per il reinserimento lavorativo di persone che abbiano maturato problemi disagio psichico. Ivan Cavicchi, docente all’Università di Tor Vergata, già responsabile nazionale Cgil per le politiche sanitarie ha invitato tutti a portare ancora più su l’asticella: “Occorre sfidare governo e mondo delle imprese sulla salute, perché la salute non fa mica male all’economia – ha detto il docente -. Bisogna incalzare le controparti affinché si produca salute. Che non significa solo fare prevenzione: significa predisporre le condizioni migliori affinché tutti si stia meglio. Anche perché salute significa ricchezza. Meno malati significa meno spesa sanitaria e quindi possibilità di utilizzare meglio i soldi pubblici”. Riaccendere la luce, insomma. Ma riaccenderla per bene, tenendo conto dei contesti mutati e del fatto, come ha concluso Martini, che questa battaglia deve essere a beneficio di tutti: di chi potrà giovarsene perché è parte diretta della contrattazione, cioè i lavoratori di aziende in cui il sindacato è presente, e di chi invece dovrà giovarsene perché il sindacato, e non solo, avranno fatto bene il loro lavoro, considerando chi è fuori da certi perimetri novecenteschi. Accendere la luce, accenderla senza farsi abbagliare, accenderla per tutti. Per rendere visibile l’invisibile.

Fonte: ribalta.info 

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