La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 22 febbraio 2017

Il Pd si rompe come si rompono i principali componenti della famiglia socialista europea

di Stefano Fassina
Perché si rompe il Pd? Per l'ossessione di rivincita di Matteo Renzi? Per i presunti risentimenti di Pierluigi Bersani? Per lo spirito di vendetta di Massimo D'Alema? Per l'improvvisata conversione socialista di Enrico Rossi sostenitore fino a ieri di Jobs Act, "Buona scuola", Italicum, revisione costituzionale, ecc? Sono chiacchiere insopportabili. Torniamo ai "fondamentali". Da tempo, abbiamo imparato che la vulgata marxista, traditrice del pensiero originario, non funziona: la "struttura" non determina la "sovrastruttura". La relazione è decisamente più complessa. Tuttavia, da tempo, la "struttura" è stata completamente rimossa dall'analisi delle vicende politiche. Invece, la struttura rileva per la sovrastruttura. Guardiamo alla struttura.
Il Pd è nato, fuori tempo massimo, nella scia del clintonismo e del blairismo, versioni soft del neo-liberismo globalista e finanziario. Poche settimane dopo che Walter Veltroni celebrava la "Terza via" al Lingotto, la "Terza via" rivelava la sua insostenibilità con il crollo della Lehman Brothers imbottita di "sub-prime", i mutui per working class e classe media a retribuzioni in retromarcia da trent'anni.
Il Pd, prodotto della subalterna deriva culturale post '89 delle sinistre storiche italiane, comunista e cattolica, nasceva e si teneva insieme nella convinzione, già allora falsificata, della capacità del mercato, inteso come dato di natura da liberare da lacci e lacciuoli imposti nel XX Secolo, di promuovere una versione pur diseguale di interesse generale (la teoria del "trickle down", dello "sgocciolamento", ossia del miglioramento diseguale ma per tutti).
Il Pd nasceva e si teneva insieme nella fede progressiva dei "padri fondatori" ulivisti nell'europeismo liberista: mercato unico e moneta unica, "vincolo esterno" per fare dell'Italia "un Paese normale". Insomma, il Pd nasceva e si teneva insieme nella rassegnata o compiaciuta lettura della fine della Storia: "There is no alternative".
Il 2016 dimostra, però, che Francis Fukuyama sbagliava. La Storia non è finita nel 1989. La Storia ritorna e scompagina lo scenario politico. Tre grandi eventi segnano l'anno appena passato: la Brexit, la vittoria di Trump e la valanga di No al referendum costituzionale del 4 Dicembre. I primi due avvengono in U.k. e Usa, i luoghi epicentro del trionfo neo-liberista. Il terzo in una periferia comunque pienamente integrata nelle correnti globali della Storia.
In sintesi, nel 2016, l'insostenibilità economica e sociale del neo-liberismo globalista e finanziario diventa anche insostenibilità politica. In altri termini, come rileva con onestà intellettuale The Economist, il 2016 ha per il neo-liberismo reale la portata che il 1989 ha avuto per il socialismo reale. Il neo-liberismo reale ha eliminato il lavoro come soggetto sociale e politico autonomo.
È stato lo strumento della "guerra di classe dall'alto". Ha spiaggiato le classi medie. Ha prosciugato le constituencies centrali della Terza via. Ha reso impossibile, per chi vuole dare un minimo di attenzione al lavoro e alla sua dignità, la convivenza con chi rimane nella scia blairiana per continuare a rappresentare gli interessi economici più forti. Insomma, la forza delle cose, la struttura, ha chiamato il bluff egemonico del blairismo.
Inevitabilmente, il Pd si rompe, come si rompono, cambiano radicalmente connotati ideologici o vanno ai margini dell'agorà politica i principali componenti della famiglia socialista europea: a Londra, un vecchio marxista eretico umilia, per due volte, il New-Labour; in Francia, il candidato blariano dell'impresentabile Presidente socialista uscente deve candidarsi fuori dal Ps per evitare di essere eliminato alle primarie; in Germania, la Spd si affida al lontano Martin Schultz, costretto a rinnegare le mitizzate "Riforme Hartz" per recuperare significato e competitività politica; in Spagna, il Psoe rimane stampella nuda del governo Rajoy, incalzato da Podemos; in Grecia, dove le dinamiche comuni si impongono in forme estreme e brutali data l'intensità dei problemi, il Pasok scompare, mentre la brillante ascesa di una forza culturalmente autonoma come Syriza viene schiacciata dalla morsa dell'eurozona.
Vicenda analoga segna il Partito Democratico spezzato tra Clinton e Sanders. Ovviamente, le separazioni e le fondazioni di avventure politiche hanno senso e non sono bolle di sapone, come ha ricostruito Paolo Mieli qualche giorno fa sul Corriere, se colgono il passaggio di fase e hanno la capacità di elaborare la radicale discontinuità necessaria. Allora, per chi rompe con il neo-liberismo soft e cerca di ridare voce e prospettiva costituzionale al lavoro è inevitabile rideclinare il nesso nazionale-internazionale, dato distintivo di un soggetto politico autonomo non residuale.
Nel vecchio continente, vuol dire ridefinire la relazione tra dimensione nazionale e un'Unione Europea e un'eurozona costruita sulla svalutazione del lavoro e sul conseguente svuotamento della democrazia. Per noi, vuol dire riconoscere che i trofei dell'ulivismo, il mercato unico e l'euro, sono stati errori di portata storica: fattori di aggravamento dei colpi della globalizzazione sull'universo del lavoro, sul popolo delle periferie, giustamente rabbioso verso le sinistre storiche e indifferente verso la cosiddetta "sinistra critica" dedita all'astratto cosmopolitismo dei diritti.
Nell'impossibilità di revisione progressiva dei Trattati europei, il "divorzio amichevole" (Stiglitz) della moneta unica è condizione necessaria, certo non sufficiente, per ricostruire le condizioni di protagonismo sociale e politico del lavoro, ossia per muoversi verso la "Repubblica democratica fondata sul lavoro", in un'Unione europea ridefinita come cooperazione di Stati nazionali rivitalizzati. Sta qui, per tanti di noi, la ragione fondativa di Sinistra Italiana. Sta qui il terreno di incontro con chi vuole coraggiosamente ricominciare fuori dal Partito Democratico.

Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore 

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