La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 20 novembre 2015

Il fanatismo religioso oltre le epoche. Abelardo, il dialogo e i rapporti tra culture

di Daniele Valli
Le difficoltà, i metodi e i luoghi delle relazioni interculturali sono problematiche che hanno da sempre, nel tempo, accompagnato l’uomo. In ogni epoca della storia di cui abbiamo testimonianze possiamo individuare con facilità momenti di contatto, più o meno riusciti, fra culture diverse, trascorsi con maggiore o minore consapevolezza dei contemporanei.
E’ certamente inutile sottolineare come anche nei nostri anni tali vicende siano di primo piano nello svolgersi dei rapporti internazionali. Tuttavia, in modo quasi inedito, oggi esse esercitano un ruolo sempre più pressante nell’opinione pubblica. Il terrorismo islamico, lo stravolgente fenomeno dell’IS, unito all’emergenza dei richiedenti asilo e ai numerosi e drammatici episodi di cronaca di guerra provenienti dal Medio Oriente hanno acceso e portato la discussione sui rapporti con le culture islamiche nei bar sportivi, nelle tavole da pranzo, sui social network. Ci si domanda, infatti, come e in quale misura debba avvenire il dialogo con il mondo musulmano, se sia opportuno o non lo sia, se sia necessario o sia evitabile. Del resto, così come non rappresentano novità questi temi, non sono affatto nuovi nemmeno questi interrogativi, e non dobbiamo faticare per trovare personaggi di altre epoche porsi, in contesti storici lontani, i medesimi dubbi.
Pietro Abelardo è vissuto nei secoli XI e XII. Intellettuale europeo del basso medioevo, ha conosciuto gli anni in cui la tensione culturale e religiosa scintillava, all’esterno e all’interno della cristianità. Non soltanto, infatti, la minaccia islamica intimoriva l’occidente cristiano, ma le dispute intorno alla corretta interpretazione delle Sacre Scritture infiammavano il ceto colto europeo, dando luogo a spietate battaglie dottrinali, che egli stesso soffrì sulla propria pelle.
Nella sua ampissima riflessione, si è occupato di rispondere ai quesiti che tali vicende ponevano, offrendo soluzioni incredibilmente coraggiose e fuori coro. In anni in cui l’idea di tolleranza certamente non primeggiava, fu condottiero di soluzioni di dialogo, di soluzioni in cui il rispetto e l’apertura verso la diversità trovano un inedito posto d’onore.
Il Dialogo e la tolleranza
Probabilmente fra il 1140 e il 1142 d.c., Pietro Abelardo compone il celebre Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano. Oltre ad essere un importante riferimento per gli studi teologici ed etici dell’autore, esso rappresenta un deciso e audace programma di conciliazione religiosa. Al suo interno è inscenata una discussione, di cui lo stesso Abelardo è chiamato ad essere giudice, fra i tre personaggi nominati nel titolo, provenienti da tre sentieri diversi. Essi divengono la rappresentazione di tre approcci culturali distinti, che tentano di trovare una sintesi armonica nelle distanze spirituali che li caratterizzano. La stessa struttura dell’opera è portatrice di un messaggio che trascende il gusto letterario e che mira direttamente ad un significato etico: Abelardo ci suggerisce che il luogo più opportuno ad ospitare i rapporti interculturali deve essere il dialogo. Con esso, infatti, si depositano gli scudi dell’incomprensione e si dischiude il terreno più fertile per un autentico e sano superamento delle ostilità. Lungo tutto l’arco del confronto, infatti, non v’è mai indisponibilità di principio fra gli interlocutori: tutti e tre dimostrano una reale disposizione d’animo verso le ragioni altrui, nel più sincero spirito di ricerca di verità. Questo rappresenta, dunque, già un primo elemento di interesse: il dialogo e il confronto come principi fondamentali per ogni rapporto fra diversità. E’ evidente come questo approccio con le relazioni interculturali fosse del tutto estraneo all’epoca in cui Abelardo visse. Del resto, non è affatto maggioritario nemmeno nel dibattito contemporaneo.
Proprio in questo solco si inseriscono tutte le riflessioni contenute nella conversazione tra i protagonisti dell’opera. Uno dei principali problemi su cui si concentrano, infatti, è il ruolo dell’educazione giovanile nella personale accettazione della verità rivelata. Il filosofo sostiene che il credo non sia affatto determinato dalla ragione critica e matura della persona, ma provenga invece esclusivamente dagli insegnamenti religiosi ricevuti in infanzia. Al contrario, l’ebreo ritiene che certamente la catechesi infantile rivesta un ruolo primario nei primi anni di vita di fede, ma che in maturità ad essa subentri la consapevolezza piena della rivelazione, unica vera forza della fede. Il nodo, dunque, è: un credente è tale per consuetudine o per convinzione? In questo dibattito, che può apparentemente mostrarsi semplicemente come disputa tra visioni antropologiche distinte, si gioca un tema che è di capitale rilevanza per la questione dei rapporti interculturali. Il punto chiave, che emerge dalle parole di entrambi i personaggi, è la centralità della comprensione razionale delle verità di fede: per entrambi, infatti, non si deve affatto escludere l’esercizio della ragione dalla dimensione sacra. Da questa premessa, in questo modo, si possono identificare due forme di vita religiosa: la prima che vede il fedele accettare passivamente la parola di Dio, senza autentica cognizione del suo contenuto, la seconda che al contrario vede il fedele interrogarsi sul significato del Verbo, in una ricerca attiva del senso della rivelazione. Si chiarisce quanto questo punto sia fondamentale mostrando la tesi implicita al pensiero di Abelardo, ovvero il fatto che il rapporto con il diverso si determina già a partire dalla dimensione privata.
A seconda di come viene vissuta la propria esperienza religiosa si sarà propensi ad un atteggiamento piuttosto che ad un altro nei confronti di chi appartiene ad un differente universo culturale. All’accettazione supina e cieca dell’insegnamento dottrinale non può che corrispondere una incapacità strutturale di relazione e di tolleranza: non si immagazzinano, infatti, gli strumenti critici per instaurare un dialogo autentico, ma soltanto formule vuote di senso. Al contrario, nell’attiva comprensione razionale della fede risiede la capacità del dubbio, della ricerca, della’autocritica, della ragione: con questa forma di vita spirituale si include nel proprio approccio la capacità del ragionamento, e dunque del confronto. Abelardo, in altre parole, ci suggerisce che la forma virtuosa di rapporto con la diversità è quella che fa del logos, della ragione, del pensiero critico, la propria premessa.
Dal basso medioevo ad oggi
E una simile visione in che modo può interessare il dibattito contemporaneo? Queste idee, che giungono a noi attraverso i secoli come un monito profetico, mettono in luce come sia troppo spesso strutturalmente inadeguato l’atteggiamento europeo verso le questioni che le relazioni interculturali pongono. Al netto del contesto teologico in cui l’opera di Abelardo si inscrive, esso cerca di trasmettere a noi l’audacia e il coraggio del confronto.
Non può esistere un reale dialogo in assenza della forza della comprensione e dall’auto-comprensione. Una società consapevole di sé è una società forte, è una società che non teme la diversità, che sa guardare l’altro con spirito di costruzione. Forse, uno degli obiettivi che la comunità europea deve ora porsi è proprio quello di comprendersi, di valutarsi e capire cosa funziona e cosa no. Si cerchino le radici prime del nostro universo culturale e, liberi dal pregiudizio, si affrontino le questioni che oggi le relazioni interculturali presentano con lo spirito del confronto e dell’armonia. Quali sono le fondamenta del nostro essere europei? Forse proprio nell’incertezza di questa risposta risiede l’incertezza del nostro atteggiamento verso il diverso. Una società che perde il senso ultimo del suo stare insieme è una società priva di capacità di confronto. Da questo recupero probabilmente passa anche il recupero della consapevolezza con cui le tragedie del Mediterraneo, dell’Europa e del Medio Oriente devono e meritano di essere affrontate.
Da questo ordine di riflessioni non devono essere escluse anche le realtà musulmane. Quali sono le ragioni dell’esasperata esaltazione dell’identità a cui si assiste, per esempio, nel fenomeno dello Stato Islamico? Quale è la sua genesi? Si tratta di un orizzonte di considerazioni in cui si giocano nodi cruciali per il futuro del rapporto fra mondo cristiano e Islam. E di questo, a ben guardare, era ben consapevole lo stesso Abelardo, il quale nel Dialogo inserisce, quasi di nascosto, un elemento straordinario. Il personaggio del filosofo, infatti, che rappresenta lo spirito del confronto laico, non dogmatico, più razionale e libero da condizionamenti, è descritto molto poco. Ma da alcuni dettagli capiamo che questo interlocutore, che discute con l’ebreo e con il cristiano, è di origine islamica. Il musulmano, dunque, non è assente nel Dialogo, e non manca affatto la terza grande religione monoteista. Semplicemente, il suo rappresentante è in primo luogo un uomo di pensiero libero, non un credente. Ci è forse impossibile comprendere come in quel secolo qualcuno abbia avuto l’ardire di pensare ad una simile figura. Abelardo ci mostra in questo modo un’ampiezza di pensiero unica nel suo genere: egli è capace, negli anni in cui nascono le crociate, di vedere nel diverso anche un interlocutore, e di attribuirgli la responsabilità del dialogo e della comprensione.
La profondità della cultura islamica, anche in relazione al pensiero occidentale, era certamente nota allora più di quanto lo sia ai nostri giorni. Ma in questa intuizione risiede una ricchezza che in nessuna epoca dovremmo lasciar tramontare, sia nel mondo cristiano che in quello non cristiano: si abbandoni ogni approccio dogmatico, si abbia il coraggio del dialogo, e si faccia della ragione il motore del confronto.

Bibliografia

Pietro Abelardo, Dialogo tra un filosofo un giudeo e un cristiano, tr. it di Cristina Trovò, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1995.

Mariateresa Fumagalli Boenio Broccheri, Abelardo, Laterza, Roma-Bari, 2006.

Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica

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