La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 19 novembre 2015

Buona scuola: tra promesse, impicci e ritardi Ecco a che punto è la riforma nelle classi

di Michele Sasso e Francesca Sironi
Scontri, megafoni, striscioni e manganelli. La scuola è tornata in piazza sia il 13 che il 17 novembre. A Roma, Torino, Milano, Napoli, docenti e studenti si sono schierati contro il governo. Ci sono stati fermi, un prof e un ragazzo feriti. Ma la partecipazione è stata bassa, lontana dalla fiumana di gente che protestava lo scorso maggio. «L'atmosfera barricadera non si percepisce più», conferma Giampaolo Lucca, insegnante di matematica al tecnico Zanon di Udine: «Il clima è cambiato».
Che succede? La riforma della Buona Scuola ha iniziato a piacere a tutti? Non ancora, no. Ma tra le classi si è imposta un'aria di attesa. Le incombenze didattiche e burocratiche hanno ripreso il sopravvento sulle assemblee. E in molti ammettono che in fondo un passo concreto c'è stato, capace di raffreddare molti focolai di battaglia: le assunzioni. Prima i 29mila precari stabilizzati per regolare turn over. Poi le 8.200 nuove cattedre – di ruolo - assegnate, su 16mila disponibili (per le altre non c'erano in graduatoria le specializzazioni richieste).
E ora, proprio in questi giorni, l'avvio di quella che è definita “la fase C”, ovvero l'ingresso di 55.258 nuovi contratti a tempo indeterminato per il potenziamento della formazione.
Le tempeste di maggio si sono trasformate così in refoli, ma fra le aule i malesseri per la riforma di Matteo Renzi e Stefania Giannini restano. Dai dubbi sull'effettivo impatto che avranno le assunzioni ai problemi che potranno causare i premi ai “meritevoli”. Dagli ostacoli nel trovare gli stage ai fondi da investire per la scuola digitale. Ecco cos'è successo in questi primi tre mesi di Schola Renziana e cosa aspetta gli studenti tra i banchi.
«È ancora troppo presto per capire se questa sarà una Buona Scuola oppure no», temporeggia Isabella Milani, autrice di "L'arte di insegnare” per Vallardi:«Quello che è sicuro fin da subito è l'aumento esponenziale degli impegni burocratici per gli insegnanti: tra registri elettronici, Rav, Ptof, test ed extra...». Le oscure sigle indicano il piano dell'offerta triennale (ptof), che da questo autunno ogni sezione dovrà preparare, e il rapporto di autovalutazione (rav). «La riforma? E chi l'ha vista?» sorride il collega friuliano Giampaolo Lucca: «Per ora si è mosso poco o niente».
Rivoluzione posticipata? «Di fatto dall'inizio dell'anno non sono ancora diventati operativi grossi cambiamenti, gli istituti sono andati avanti come prima», conferma Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che segue con attenzione le mosse del governo sulla scuola. E spiega: «Gli snodi cruciali per ora sono due. Il primo si scioglierà solo a fine mese, l'altro a fine anno».
Iniziamo dal primo: sono i 55mila professori che in questi giorni stanno rispondendo alla chiamata del ministero. Le nuove forze andranno a formare quello che la riforma chiama “organico di potenziamento”: un bacino di docenti a tempo indeterminato che serviranno al sostegno, a coprire i buchi e a rafforzare le materie che mancano alle scuole. «Noi ne abbiamo chiesti otto. Ad aiutarci in matematica, informatica ed economia aziendale, per un corso di “impresa simulata”», racconta Anna Iacchetti del liceo Leonardo da Vinci di Crema: «Ma non sappiamo ancora chi ci arriverà».
Anche gli altri docenti raccontano di aver chiesto rinforzi su numeri e scienze: bisogni ben lontani da quelli indicati dal premier nel famoso “video alla lavagna”, in cui puntava tutto sulla «cultura umanista», un idillio di poesie «che allargano il cuore», musica, «storia dell'arte» e letteratura. No, per i docenti c'è bisogno di esperti in algebra, codici e bilanci: «E molti resteranno delusi», anticipa Gavosto: «Perché come è successo per i primi assunti, i docenti in graduatoria non rispondono a queste necessità». E quindi le aule rischiano di trovarsi un flautista anziché un programmatore o una creativa al posto di un'esperta di bilanci.
Se poi c'era la speranza che questi ex precari finissero tutte in laboratori coinvolgenti, proposte innovative e corsi di ampio respiro, anche questa promessa rischia di infrangersi al test di realtà: molti insegnanti spiegano infatti che con la caduta dei “vicari”, come sono chiamati i sotto-presidi incaricati di incombenze e circolari - ridotti da cinque a due - i futuri assunti finiranno a svolgere spesso quel ruolo.
E Gavosto indica anche un altro “cortocircuito legislativo” che imporrà a breve scompiglio: tra questi nuovi assunti ce ne sono molti che nel frattempo hanno accettato supplenze annuali. E quindi dovranno aspettare il prossimo settembre per arrivare a destinazione. Lasciando così i piani coscienziosamente stesi dai loro futuri colleghi nel limbo.
Se infatti gli arruolamenti della Buona Scuola hanno causato gran rumore, nel frattempo, zitte zitte, come ai vecchi tempi, si sono ripresentate le solite, care, ancestrali, supplenze annuali, in cui sono rientrati secondo la Cisl ben 70mila precari. Un esercito nell'esercito. Che resta di serie B.
C'è un altro elemento che continua a causare mal di pancia alla falange compatta dei docenti. Ed è uno dei cardini della Buona Scuola: i famosi bonus in denaro ai prof più meritevoli. Gli incentivi alla dedizione in contanti. Matteo Renzi l'ha detto chiaro in più interviste: «Parole come merito, valutazione, qualità e autonomia dovranno essere impiantate nel sistema scolastico». Ma sui primi due lemmi le barricate sono pronte a rialzarsi.
Da quest'anno infatti ogni istituto dovrà eleggere un proprio “comitato di valutazione”. Vi entreranno il preside, due docenti eletti dal collegio, un rappresentante del personale amministrativo e uno studente o un familiare scelti dal consiglio di istituto. Questo dream team dovrà quindi decidere i criteri secondo cui assegnare i “premiuzzi” in denaro ai migliori prof di ruolo: “premiuzzi”, perché lo stanziamento complessivo, nazionale (su un milione di prof) pare di 200 milioni di euro.
Comunque di premi si parla. «E finirà che molti dirigenti, pur di non creare dissidi fra le classi, distribuiranno a pioggia o a turno i contributi», teme Gavosto: «Lo diciamo da tempo: era meglio investire su premi in posizioni,quindi maggiori responsabilità, e quindi qualche aumento di stipendio» piuttosto che in questa gara alla cuccagna.
«Da noi tutti sappiamo chi se li meriterebbe, e spero che i soldi vadano a loro, e non a chi fa nulla», ribatte però il prof di Udine. «Vedo che ci sono tanti colleghi che non si risparmiano, si dedicano con passione e alla fine il comitato magari non gli riconoscerà 40 euro in più di stipendio», teme anche Annamaria Ciaccia insegnante di amministrazione e finanza in una ex Ragioneria all’Eur di Roma: «Sarà difficile trovare gli strumenti adeguati per premiare davvero i migliori».
Intanto però, la macchina è partita, anche se a rilento. «Nel nostro consiglio docenti nessuno si è autocandidato per il ruolo scomodo di “giudicatore dei colleghi”», spiega l'insegnante di Crema: «E la votazione è slittata per una riunione. C'è molta resistenza a questa novità».
Non soffre molta opposizione, ma si scontra già su diversi ostacoli concreti, quello che era invece il primo “punto alla lavagna” di Matteo Renzi: l'alternanza scuola-lavoro. La trasformazione di tutte le superiori non in soli pensatoi, ma in veri ponti affacciati sul reale. E sul lavoro: con la speranza che gli stage (ovviamente gratuiti e ovviamente obbligatori) possano permettere di abbassare quel vergognoso 44 per cento di disoccupazione giovanileche attanaglia l'Italia, aiutando gli adolescenti ad avvicinarsi il prima possibile alla concretezza del lavoro.
Per riforma quindi, d'ora in poi, ogni studente di un Itis dovrà fare 400 ore di stage, e ogni liceale dovrà rinunciare per un po' ad algebra e greco per applicarsi in 200 ore di impieghi fuori dalle mura scolastiche nell'arco del triennio (dal terzo al quinto anno quindi). I dubbi sullacolossale “stagistizzazione” delle classi sono molti.
Il primo riguarda il “dove”: per prendere un sedicenne in azienda, le società si devono iscrivere a un albo speciale che molte camere di commercio non hanno ancora avviato; a Milano Classici e Scientifici, alla prima prova sul fronte dell'impresa, stanno chiedendo ai genitori degli alunni contatti e consigli su dove mandare i loro figli. «Noi avevamo già dei tirocini sul territorio, ad esempio nell'ufficio tecnico del Comune, ora dobbiamo solo potenziarli», racconta invece positiva Anna Iacchetti da Crema: «Per esempio pensiamo di organizzare esperienze come redattori nel giornale locale, o anche all'ospedale, oppure sfruttare amicizie che abbiamo con studi di architetti e ingegneri».
Il secondo dilemma riguarda il “quando”: dentro o fuori l'orario curricolare? E il terzo infine il “come”: chi si occuperà di coordinare quest'immensa macchina di tirocinanti? «L'idea degli stage è importante per gli studenti e può funzionare, ma bisogna creare tra noi delle figure dedicate a seguirli» spiega Filippo Novello dell’Itis Galilei di Milano: «Ora è un fuggi-fuggi generale, nessuno vuole farlo: io che mi sono offerto volontario nel solo mese di ottobre ho fatto 40 ore extra che non mi verranno mai pagate».
Molto più entusiasmo si riscontra invece ad accennare a temi come quello della “scuola digitale”: tutti gli istituti sono in queste settimane alle prese coi piani per ottenere i fondi “Pon” (finanziamenti europei con un contributo nazionale) destinati unicamente all'innovazione sui banchi. «Per noi è la prima volta. Acquisteremo delle lavagne luminose e dei computer per le classi a cui mancano», commenta Iacchetti. «Ventimila euro non è molto, se consideriamo che ci devono bastare per sette anni, ma è già qualcosa», aggiunge Zanon:«Pure se ancora una volta la formazione la faremo noi da volontari».
Per tutti questo è un tema su cui investire: «La nostra è già una scuola 2.0 grazie al finanziamento ministeriale», racconta Carmelina Gallipoli, dirigente scolastica dell'istituto comprensivo di Bella (Potenza): «da noi i ragazzi riescono ad essere protagonisti delle tecnologie che usano tutti i giorni, imparando i linguaggi della programmazione. Prima però abbiamo formato il corpo docente e non è stato affatto facile».
Una piccola rivoluzione culturale per chi ha seguito per quindici-vent’anni i programmi ministeriali. Ora raccolgono i frutti di decine di ore investite volontariamente dagli insegnanti nei “coderdojo” (il movimento no profit internazionale che unisce i club di programmazione), mettendo quello che hanno imparato a disposizione dei loro 450 alunni.

Fonte: L'Espresso 

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