La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 20 novembre 2015

La retorica della guerra

di Alfredo Morganti 
Ve lo dico francamente. Io non avrei sdoganato la retorica della ‘guerra’, soprattutto se fossi stato un Presidente socialista. Nemmeno per dire: ‘ci siamo dentro, è uno stato imposto da altri’. Il linguaggio è importante, è evocativo. Suscita scenari, delinea un contesto. Dire ‘guerra’ (anche quale mera ‘constatazione’, ammesso che si possa ‘constatare’ in modo distaccato l’esistenza di una guerra) è come dire che la guerra c’è, e quindi deve essere combattuta, non c’è scelta. È come dare corpo a una escalation linguistica che è, tout court, una escalation politica e bellica. Se ammetto l’esistenza di una guerra, se interpeto come guerra quel che accade (anche quando è qualcosa di inedito o di diverso) ecco che la guerra si manifesta e deve essere combattuta. E quindi lo stato d’emergenza deve essere prorogato, e quindi esso deve entrare in Costituzione, e quindi si decide ‘sullo’ stato d’eccezione e si ‘eccede’ la norma, modificando quella fondamentale. In realtà non c’è parola più inadatta oggi a indicare come ‘guerra’ il sistema sparso di focolai bellici, conflitti regionali e atti di terrorismo che punteggiano l’intero mondo.
Invece di pensare la novità di questo nuovo ‘sistema’ di regolazione dei conflitti, si arranca dietro una vecchia ‘parola’, si torna a legittimarla, si fa leva su di essa persino per cambiare la Costituzione.
Il linguaggio è importante. L’uso inappropriato delle parole è un danno. Non mi meraviglio che poi non si abbia una strategia all’altezza della fase. E si arranchi o si temporeggi. Oppure si ceda alla retorica della guerra. Hollande ha scelto questa strada, quella di attizzare la vampa già accesa. Altri temporeggiano, come il nostro premier, e capisco la loro difficoltà a intravedere una strada in mezzo a questo caos strategico. Ogni giorno ci riserva delle novità. Putin ieri era fuori oggi è dentro, per dire. Io li chiamo sbandamenti, prodotti da una classe dirigente e da élite mondiali che hanno perso il filo, che non governano più un mondo senza blocchi, senza confini, ad alleanze variabili e a scenari cangianti. La politica e la guerra oggi si sovrappongono, difficile distinguerne i confini. Vuol dire che la guerra regola i conflitti, mentre la politica bombarda. Vuol dire che viviamo in un mondo dove i confini tra pace e guerra sono caduti o quasi. In una specie di simultaneità di bombe a affari che lascia inorriditi. La ‘visione strategica’ non è fare comunque affari con chi spalleggia Daesh, non è barcamenarsi tra bombe e petrolio, conflitti armati e commesse di opere pubbliche assegnati alle proprie imprese nazionali. Non può essere così. ‘Visione strategica’ è chiarezza nella scelta tra, da una parte, i bombardamenti, le politiche interne securitarie, la retorica della guerra, e, dall’altra invece, politiche regionali più avvedute, difesa interna a trazione democratica, stop con gli affari con chi arma i terroristi, lavoro di intelligence più accurato, sostegno a chi si batte localmente contro Daesh.
Si deve sempre poter scegliere. Sennò finisce la politica ed essa diventa solo guerra, o meglio uno strano ibrido di entrambi. La retorica della ‘guerra’ ci mette in un vicolo cieco, certifica che essa è guerra, punto, e quindi deve essere combattuta, magari modificando la Costituzione e facendo venire meno pezzi consistenti di democrazia. E in tal caso non c’è scelta possibile, perché la scelta è già stata fatta imponendo un ‘termine’ al dibattito e la retorica corrispondente. E quando non c’è scelta non c’è democrazia, e dunque diventa naturale che la Costituzione, alla fine, restringa i diritti e le libertà in nome della ‘sicurezza’. Tutto si tiene, insomma. Ma proprio tutto. Il linguaggio è importante.

Fonte: nuovatlantide.org

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