La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 20 novembre 2015

Uccisori e uccisi

di Francesco Pecoraro
Ragazzi arabi con poca istruzione, senza soldi e senza lavoro o con un lavoro di merda, ragazzi schizofrenizzati dal conflitto tra cultura di provenienza e cultura di approdo, dove pure sono nati e di cui parlano perfettamente la lingua, cultura di cui hanno studiato almeno gli elementi essenziali, ma senza riuscire ad assimilarli e senza farsene assimilare (perché?), fino al colpo di coda dell’estraneità di ritorno, al rigurgito dell’appartenenza e del dettato religioso, dunque fino al Rigetto. Ragazzi senza futuro, incagliati in un presente per loro immutabile, ragazzi incapaci di compiere il passo necessario alla mescolanza con Europa, che pure (ma solo a certe condizioni) può completamente accogliere, ragazzi senza visione dell’avvenire, ragazzi con barbe islamiche, ragazzi di cui non frega a nessuno sono disposti a morire pur di fare strage di altri ragazzi come loro, ma diversi perché istruiti, sofisticati, sostanzialmente integrati, completamente consenzienti al sistema e tuttavia ornati di deboli orpelli oppositivi. Ragazzi europei belli levigati creativi, super-qualificati, con buone prospettive di lavoro e quasi sicuramente un futuro, ragazzi con dottorato alla Sorbona e barbe e baffi e capelli da hipster, che si muovono disinvolti attraverso le frontiere ormai virtuali d’Europa, ragazzi che coltivano liberamente i loro rapporti, che non hanno regole sessuali, ragazze prive di alcun senso di minorità, libere, che ti guardano dritto negli occhi, ragazzi protetti dall’Occidente, di cui sono la crema e probabilmente i futuri dominanti.
Ragazzi scelti con cura per queste loro caratteristiche, poi aggrediti e ferocemente uccisi come un branco di gnu.
Per quanto la mente atea occidentale sia strutturalmente incapace, non dico di comprendere, ma anche solo di figurarsi in larga approssimazione la mente islamista, nelle sue motivazioni e nel suo immaginario, dalle foto dei volti della strage del Bataclan salta agli occhi la differenza di classe (in altre parole di prospettive di vita, di aspettative concrete) tra gli uccisori e gli uccisi. Non solo l’abisso di emancipazione tra gli uni e gli altri, ma un fondamentale iato di estrazione sociale. E non solo. Le foto dei morti ci parlano di un’antropologia giovanile occidentale europea e cosmopolita che si muove e si trova a suo agio in un mondo ormai completamente anglofono, di cui assorbe senza problemi il valore dei non-valori. Al contrario dei loro uccisori, che sembrano pervasi da un dettato antico, assoluto, inderogabile, talmente costrittivo che te ne puoi liberare solo con la morte. La morte non come fine della vita, non come sparizione nel nulla dei ragazzi uccisi, ma come liberazione dalla costrizione religiosa e inizio della vera vita dei ragazzi uccisori. 
Stretto da un Occidente che ti accoglie e allo stesso tempo ti relega e ti respinge, e, sull’altro lato, dall’alternativa di una rivalsa identitaria, tutta interiore, che ti conduce dritta allo schiacciamento dell’ego e ti sottopone a una pressione totalmente pervasiva, finisci per sognare l’annullamento nella morte, nel martirio, nella rinascita in un paradiso arcaico promesso da un libro altrettanto arcaico. Questo è ciò che riescono a produrre i miei tentativi di immedesimazione. Ma cosa veramente si annida nella mente posseduta in modo così decisivo dal meme islamista? E dove si situa il varco, il punto debole, attraverso cui quel sistema ideologico, così estraneo e diverso da ciò che si insegna nelle scuole europee, riesce a penetrare?
La mia non sradicabile cultura novecentesca mi porta a supporre che la differenza di classe, generando odio «naturale», giochi un ruolo decisivo nella scelta delle vittime, oltre che del lasciarsi «cadere» nell’avvitamento islamista. Ogni forma di disagio economico e di costrizione ai margini, dunque di sofferenza sociale, genera una forma più o meno sorda di odio e, se incontra un sistema ideologico capace di accoglierlo, di organizzarlo e finalizzarlo – sempre in senso variamente rivendicativo, sempre in direzione dell’emancipazione, del riscatto della condizione di partenza, che può avvenire attraverso il crimine, o l’azione politica, o il credo religioso – allora quell’odio può farsi spietatamente operativo. Come abbiamo visto.
Credo che la visione fondamentalista abbia la capacità di apparire, a chi si sente in vario modo respinto dal corpo sociale cui consciamente o inconsciamente vorrebbe appartenere, come una suprema affascinante semplificazione. Alla base c’è il sogno – che per gli occidentali è un incubo – di una società chiara, in cui la sharia regola ogni aspetto della vita. Al contrario delle società occidentali, non sono richieste facoltà di giudizio morale, ma solo pratico, perché il giudizio morale è già stato emesso secoli fa. In pratica è l’utopia del «tutto è scritto», perché tutto è già accaduto. Niente di nuovopuò esistere al di fuori del già detto, del già giudicato e tutto il nuovo che la società occidentale produce ogni giorno non conta: è solo uno degli strumenti per riaffermare il dettato arcaico. L’acqua moralmente torbida, piena di correnti, in cui noi nuotiamo noi occidentali diventa all’improvviso meravigliosamente limpida. Non solo: la morte come martirio diventa il supremo riscatto di una vita di cui non si accetta la fondamentale mancanza di scopo.
Ma è proprio l’accettazione più o meno implicita della mancanza di scopo della vita a caratterizzare la tarda società occidentale, sempre più secolarizzata e consumista, in cui si punta invece all’eliminazione della malattia, del dolore fisico e della morte. È la società prodotta da una forma di capitalismo molto aggressivo e pericoloso per l’individuo, in cui vige lo scopo segreto di spogliare lo stato di ogni responsabilità etica e materiale, per caricarla finalmente e in toto sulle spalle dell’individuo che o è stordito da un eccesso di abbondanza o è disperato da un eccesso di povertà, o è in bilico tra le due condizioni. Se nasci ben dentro una cultura di questo tipo, com’è per le vittime del Bataclan, i suoi attuali fondamenti ti sembreranno normali e per quanto tu ti possa dotare di strumenti critici, difficilmente sfuggirai al consenso di fondo generato dalla promessa implicita che tu ce la farai, che questo mondo è per te, che ti sta aspettando per portarti in trionfo.
Ma negli anfratti, neanche tanto segreti, di una realtà nella quale sei fondamentalmente a tuo agio, c’è chi non ti vede come un essere umano, ma solo come un cane infedele, che appartiene a un mondo la cui complessità atea è da respingere radicalmente in favore della purezza dell’utopia islamista, e perciò può scaricarti addosso, senza problemi, interi caricatori di kalashnikov.

Fonte: Le parole e le cose 

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