La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 20 novembre 2015

La trasformazione di una tragedia in una guerra

di Jonah Birch 
Meno di due settimana fa bazzicavo al le Carillon, un bar del decimo arrondissement di Parigi e una delle scene degli orribili attacchi di venerdì. E’ un posto famoso, un po’ più avanti rispetto al mio appartamento di Belleville e a un solo isolato dal Saint-Martin Canal, dove giovani parigini e hobos (hipster) amano raccogliersi per bene vino e cazzeggiare. Ho incontrato alcuni amici al bar e ci siamo seduti fuori a parlare di politica.
I miei amici, per la maggior parte militanti di lungo corso, non erano ottimisti riguardo alla situazione in Francia. Erano preoccupati dello stato della sinistra francese (non buona di questi tempi) ed erano agitati per la prospettiva della forte avanzata del Fronte Nazionale, di estrema destra, alle imminenti elezioni regionali. Al tavolo vicino al nostro una coppia più anziana, che sembrava essere di clienti abituali, fumava una sigaretta dietro l’altra e chiacchierava con il barista di mezza età. Appena di là dalla strada Le Petit Cambodge, un popolare ristorante cambogiano, si stava riempiendo di commensali tardivi.
Questo venerdì scorso ero con amici in un altro bar di Belleville quando abbiamo inizialmente appreso degli attacchi che stavano devastando la città. Mentre le notizie stavano cominciando a filtrare – di bombe allo Stade de France, di assassinii di massa in rue de Charonne, di ostaggi al teatro Bataclan – ci siamo resi conto che la maggior parte delle uccisioni stava avendo luogo a pochi passi da noi.
Alla fine abbiamo deciso di recarci a casa di un amico dall’altra parte di Place du Colonel Fabien (dove di trova il famoso quartier generale del Partito Comunista Francese).
Abbiamo finito per passare la notte là, sei di noi in un appartamento angusto, a verificare gli aggiornamenti giornalistici, seduti storditi mentre arrivavano le notizie di altri attacchi. Col crescere del conto delle vittime (ora a 130) i miei amici hanno passato la sera a cercare di rintracciare i loro cari e di tenersi al passo con gli eventi in rapido cambiamento. L’attacco, che era partito da Saint-Denis (una banlieue periferica, appena a nord di Parigi) per arrivare vicino a dove stavamo noi a nord-est di Parigi, si stava dispiegando attorno a noi.
Tra il nostro appartamento in Colonel Fabien e il Boulevard Voltaire, vicino a Place de la Nation, c’era stata una serie di spari e correva voce che i tiratori stessero girando in macchina per il quartiere con fucili mitragliatori. Tra i primi luoghi colpiti, ho scoperto presto, c’erano il le Carillon e il Le Petit Cambodge. Sembra che gli sparatori siano arrivati sino a quell’angolo di Rue Bichat e abbiano cominciato a sparare con il kalashnikov contro gli avventori di entrambi i luoghi. Sono morte almeno quindici persone e altre decine sono ancora in condizioni critiche.
A posteriore, la violenza al le Carillon era solo un preavviso dell’incredibile carneficina che si sarebbe scatenata al Bataclan. Ma per me risaltava perché conoscevo il posto e avevo trascorso serate proprio come quella seduto ai suoi tavoli. Il mio orrore, radicato in questa sensazione di prossimità, impallidiva in confronto con quello che stavano vivendo molti altri che conoscevo; queste erano strade che avevano percorso per anni, bar e ristoranti che conoscevano intimamente. Alcuni di loro avrebbero scoperto più avanti che loro amici e conoscenti erano tra le vittime.
Il tremendo sentimento che condividevamo era aggravato dalla consapevolezza di ciò che sarebbe seguito.
A un certo punto della sera qualcuno si è sintonizzato con il discorso alla nazione del presidente François Hollande. Hollande, con la voce tremante per l’emozione, dichiarava lo stato d’emergenza in tutta la Francia. I confini sarebbero stati chiusi, le dimostrazioni e le grandi riunioni sarebbero state vietate e il governo ordinava l’invio a Parigi di 1.500 soldati. Hollande prometteva che non si sarebbe fermato fino a quando i terroristi che avevano organizzato l’attacco non fossero stati sgominati. Successivamente ha identificato l’ISIS come il colpevole e ha promesso di scatenare una “guerra spietata”.
Lunedì il New York Times ha scritto che Hollande sta ricercando nuovi diritti di condurre perquisizioni e irruzioni della polizia non autorizzate e di decidere arresti domiciliari con maggiore flessibilità. Hollande ha anche chiesto una modifica alla Costituzione che consenta al governo francese di togliere la cittadinanza francese ai terroristi condannati che detengano un altro passaporto.
Il duro discorso di Hollande si appaia a quello di altri politici francesi. Il primo ministro di Hollande, Manuel Valls, ad esempio, ha annunciato che chiederà misure speciali per far espellere dal paese imam radicali e tutti coloro che usino violenza ai “valori della Repubblica Francese”. Si è spinto a promettere “una grande determinazione e volontà di distruggere” nella guerra contro l’ISIS.
Laurent Wauquiez, segretario generale del prevalente partito conservatore Les Républicains, ha sollecitato l’arresto e la detenzione di sino a quattromila sospetti di estremismo islamico. Il governo dovrebbe costruire campi di internamento speciali a tale scopo, ha detto Wauquiez.
Più prevedibili sono state le reazioni del capo dei Republicaines, l’ex presidente Nicolas Sarkozy. Favorito alle elezioni presidenziali del 2017, Sarkozy ha chiesto una guerra “totale” contro i “jihadisti barbari”. Sarkozy ha proposto di mettere agli arresti domiciliari più di 11.000 sospetti estremisti e di costringerli a indossare un congegno elettronico di localizzazione.
Contemporaneamente il capo del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, che oggi è in testa in molti sondaggi per le elezioni del 2017, ha affermato che la Francia doveva riprendersi dall’Unione Europea il controllo dei propri confini. Ha proseguito: “Il fondamentalismo islamista deve essere annientato. La Francia deve mettere al bando le organizzazioni islamiste, chiudere le moschee radicali ed espellere gli stranieri che predicano odio nel nostro paese e anche gli immigrati illegali che non hanno nulla da fare qui.”
La Le Pen, che recentemente si è guadagnata attenzione quando ha promesso di fermare “l’immigrazionebatterica” – che ha affermato aver inondato gli ospedali francesi di “malattie contagiose non europee” –attualmente ha, nei sondaggi, il sostegno di un terzo dell’elettorato.
Gli eventi di venerdì scorso hanno chiaramente dato vento alle vele della destra populista e xenofoba di tutta Europa. In Francia voci della destra tradizionale si sono unite all’appello a che Hollande assuma una linea più dura nei confronti di immigrati, profughi e dell’”estremismo islamico”. Un editoriale del giornale Le Figaro ha sollecitato Hollande a far propria una pagina dell’ex presidente francese Georges Clemenceau che in un’occasione disse: “Faccio la guerra in patria. Faccio la guerra all’estero. Faccio sempre la guerra”.
Che cosa, esattamente, si pretenda da Hollande non è chiaro poiché, come hanno segnalato numerosi commentatori, egli ha effettivamente inviato truppe francesi in numerosi importanti conflitti: Mali, Libia e, più di recente, Siria. La Francia ha anche accolto pochissimi profughi; ha lasciato bloccati migliaia di profughi presso il Canale per l’Inghilterra, dove vivono in un accampamento improvvisato, subendo spesso la repressione violenta delle autorità e le provocazioni dell’estrema destra.
Ciò nonostante c’è una forte spinta a irrigidire ulteriormente le restrizioni all’immigrazione per rafforzare la politica estera già muscolare della Francia. Dopo la diffusione delle notizie dell’attacco di venerdì, l’amministrazione Hollande lo ha immediatamente dichiarato un “atto di guerra” e ha cominciato a preparare un’intensificazione della campagna militare contro l’ISIS in Siria.
Questo allargamento della presenza militare francese in Medio Oriente va combinato con un’intensificazione della repressione in patria, la “guerra in casa”, come è chiamata. Il ministro dell’interno Bernard Cazeneuve, ad esempio, ha affermato che userà i poteri straordinari offerti dallo stato d’emergenza (che Hollande dice di voler prorogare per tre mesi) per chiudere moschee e associazioni culturali che promuovono l’islamismo radicale. Il governo sta facendo preparativi per cacciare religiosi che accusa di incitare i giovani alla violenza.
Niente di questo viene interamente fuori dal nulla; in realtà molte di queste mosse erano in lavorazione da un certo tempo. Timori che giovani mussulmani francesi siano radicalizzati da imam sono aumentato da gennaio, quando due fratelli nati in Francia sono stati alla testa del massacro a Charlie Hebdo e in un supermercato kosher. La scoperta che almeno alcuni degli assassini di venerdì scorso erano cittadini francesi reclutati dall’ISIS e addestrati in Medio Oriente non farà che alimentare tali preoccupazioni.
E’ chiaro che gli eventi di Parigi dello scorso fine settimana saranno usati per giustificare altre misure repressive. Come in passato, probabilmente ci saranno richieste di un rinnovato sforzo per sradicare un afflusso percepito di militanti islamici e per difendere i valori repubblicani della laicité e della libertà di espressione. Ciò spronerà un giro di vite sui giovani delle banlieue periferiche segregate, le cui asseritepatologie sociali e politiche sono divenute una fonte di cronica apprensione per la dirigenza francese negli ultimi due decenni.
Questo è lo schema della politica francese: ogni volta che c’è un qualche genere di crisi che coinvolge persone di ascendenza africana o mediorientale, i giornali sono improvvisamente pieni di discussioni accorate sull’”esclusione sociale” nelle banlieue. Perché, si chiede, i giovani delle periferie non si integrano nella società francese? Ma anziché occuparsi seriamente delle preoccupazioni dei residenti per la disoccupazione, la mancanza di alloggi adeguati, la discriminazione cronica e la brutalità della polizia, le autorità hanno reagito con una polizia rinforzata, lavori socialmente utili e lezioni sulla necessità di abbracciare i valori francesi.
In anni recenti la Le Pen ha guidato la carica della denuncia dell’”autosegregazione” degli immigrati, incarnata, ella afferma, negli alti tassi di disoccupazione e di pratiche culturali quali il consumo di cibo halal e l’adozione di bandane.
Dopo l’attacco contro Charlie Hebdo queste dinamiche hanno alimentato un’atmosfera di repressione da cui non sono stati immuni nemmeno gli scolari più piccoli. Il rifiuto di rispettare il momento di silenzio per le vittime dell’attacco è stato interpretato come un segno di estremismo islamico. Anche il più piccolo commento poteva guadagnare a qualcuno una visita della polizia.
Le conseguenze degli attacchi di venerdì per i residenti delle banlieue saranno indubbiamente cupe.
Tuttavia l’affermazione dell’ISIS che conduce gli attacchi nel nome delle vittime mussulmane dell’occidente fa acqua. L’ISIS non ha problemi a uccidere mussulmani, a Parigi (dove molti sono stati tra le vittime dell’attacco di venerdì), a Beirut o in qualsiasi altro posto e la forte probabilità che l’esistenza dei mussulmani comuni diventerà più difficile a causa del massacro sembra irrilevante per la sua crociata.
In un senso più generale, quindi, i mussulmani francesi e i ragazzi di colore della classe lavoratrice appartengono anch’essi alla lista dei bersagli dell’ISIS, che negli attacchi di venerdì è sembrata del tutto casuale. In effetti è stata la casualità della violenza che l’ha resa ancor più spaventosa; non pare esservi alcuna particolare base religiosa, simbolica o ideologica per la scelta dei bersagli. Casomai la violenza è stata diretta a quartiere noti per essere razzialmente ed economicamente misti: delle vittime identificate sinora, molte erano stranieri e un buon numero erano non bianchi.
Perché questo insieme di bersagli quando altri sembrerebbero avere valore simbolico?
Per la maggior parte i dirigenti francesi non hanno problemi nel rispondere a questa domanda: l’ISIS è composto da fanatici irrazionali che pensano di star ristabilendo il califfato e detestano la repubblica francese e i suoi valori con tutta la loro anima. Per loro è sufficiente additare la “barbarie” dell’ISIS e la narrativa di uno scontro di civiltà per spiegare la violenza che esso commette.
Altri, tuttavia, hanno segnalato che anche se l’ISIS può essere malvagio, reazionario e capace della brutalità più orrenda, rimane un gruppo essenzialmente politico che persegue scopi definiti, basati su un programma relativamente chiaro. In effetti, contro l’idea che siano motivati dal desiderio di distruggere i “valori francesi”, quelli che hanno condotto gli attacchi hanno offerto una spiegazione più prosaica. Essi, come pare aver urlato un attaccante del Bataclan, stavano reclamando dal popolo francese vendetta per la politica estera del governo francese. “Prendetevela con il vostro presidente”, pare aver detto mentre massacrava innocenti partecipanti al concerto.
Analogamente il comunicato dell’ISIS dopo il massacro ha affermato che era stato il ruolo di Hollande nel guidare la carica all’intervento in Siria che aveva fatto della Francia un bersaglio.
Fino a un certo punto dobbiamo prendere seriamente tale spiegazione. Certamente l’intervento della Francia in Siria ne ha fatto un bersaglio per gli europei che si sono recati in Siria per unirsi all’ISIS. E senza la guerra statunitense in Iraq e la combinazione della brutalità del presidente siriano Bashar al-Assad e dell’intervento occidentale in Siria, l’ISIS non avrebbe avuto l’influenza che ha.
Alcuni hanno detto che gli eventi di venerdì rappresentano un’orribile punizione per l’estensione imperiale francese; un contraccolpo della politica estera sempre più aggressiva di Hollande che ha incluso una serie di interventi in Africa e in Medio Oriente. Gli attacchi sono stati, da questo punto di vista, una risposta reazionaria e mal diretta, e tuttavia spiegabile, alle politiche del governo francese.
Ma i bersagli scelti non avevano alcun significato politico.
Gli attacchi di venerdì sono stati indirizzati a quartieri alla moda, progressisti, che sono progressivamente imborghesiti ma che tuttora hanno una considerevole presenza della classe lavoratrice. Non sono aree di élite, come i ricchi quartieri di Parigi ovest. Non sono centri finanziari o governativi come molti nel centro di Parigi.
Il quartiere République, ad esempio, è uno snodo commerciale e di trasporti per chi si reca nel centro di Parigi dai “quartieri popolari” della periferia della città (nonché un luogo di ritrovo per adolescenti e giovani sulla ventina).
Belleville, a poca distanza, è stata storicamente un cardine della vita della classe lavoratrice (e del radicalismo di sinistra) a Parigi est. Ci sono vaste sacche di residenti della classe lavoratrice, molti di loro immigrati da Asia, Africa e dal mondo arabo.
Se percorrete rue de la Fontaine au Roi (dove una targa ricorda il luogo dell’ultima barricata della Comune di Parigi) oltre dove quasi venti persone sono state uccise venerdì, vi troverete presto in un quartiere dove le vendite di kebab sono comuni come i caffè, dove l’arabo si mischia con il francese nelle conversazioni agli angoli delle strade.
Il Teatro Bataclan, Le Carillon, Le Petit Cambodge, questi luoghi attirano professionisti, ma danno anche da mangiare a molti altri tipi di persone: giovani bloccati in lavori merdosi o che tirano a campare con un reddito da studenti. Persone più anziane che vivono da decenni in città. Ricchi professionisti e disoccupati diplomati. Francesi e stranieri (che hanno costituito una parte considerevole degli uccisi al Bataclan). Ragazzi bianchi e figli di immigrati dal vecchio impero coloniale francese.
Quanto allo Stade de France, esso si trova al margine di Saint-Denis, una delle banlieue più grandi di Parigi, nota per le sue vaste popolazioni di immigrati arabi e neri e famosa come roccaforte tradizionale della sinistra.
Perché l’ISIS avrebbe scelto questi come bersagli della sua violenza?
Una tale campagna di terrorismo casuale ha più senso se lo scopo non è solo di reclamare vendetta, ma anche di generare un’ondata di repressione e militarizzazione. L’obiettivo, almeno in parte, sembra consistere nell’emarginare ulteriormente i mussulmani francesi e i residenti nelle banlieue ed esacerbare il loro isolamento dal resto della società francese.
Sollecitando livelli più elevati di razzismo e un giro di vite da parte dello stato, gli attacchi probabilmente aggraveranno la divisione tra i residenti francesi immigrati mussulmani e le istituzioni della vita sociale francese. Il risultato perseguito consiste in un circolo vizioso di repressione, polarizzazione sociale e radicalizzazione politica, una divisione che, a lungo andare, può contribuire a creare un terreno più fertile per un gruppo come l’ISIS.
Per ora, tuttavia, è importante sottolineare che l’uditorio dell’ISIS in un paese come la Francia è minuscolo: su circa sei milioni di mussulmani francesi, forse solo un paio di centinaia si sono uniti al gruppo. Ma è in questo contesto di crescente polarizzazione che esso può cominciare a conquistare ascolto (anche se, nel breve termine, la sua credibilità subisce un colpo). Alla fine l’ISIS trae vantaggio da qualsiasi cosa agevoli la polarizzazione; per esso una vittoria della Le Pen alle elezioni presidenziali del 2017 sarebbe lo scenario migliore (con al secondo posto un’altra amministrazione Sarkozy) precisamente perché per la maggior parte dei mussulmani in Francia sarebbe un tale disastro.
Da questo punto di vista sia l’ISIS sia il Fronte Nazionale traggono vantaggio dalla devastazione che si sono lasciati dietro gli attacchi di venerdì. L’ironia è che reagendo con una repressione e un militarismo accresciuti lo stato francese sta alimentando la crescita delle stesse correnti che vuole combattere.
Allo stesso modo, ogni volta che dirigenti francesi lanciano un giro di vite contro le bandane (kefiah), il velo o la preghiera religiosa mussulmana, contribuiscono a politicizzare una certa identità religiosa islamica, un’identità definita contro la società francese nel suo complesso.
La Le Pen è ora in grado di mobilitare grandi numeri di sostenitori sulla richiesta che nelle mense scolastiche sia prescritto il maiale. Nessuna meraviglia che un pugno di ragazzi delle banlieue sia attirato da filoni dell’Islam che offrono un totale rifiuto di quelli che sono strombazzati come “valori francesi”.
Di fatto, studi dimostrano che la maggior parte dei mussulmani francesi che si recano in Siria per unirsi all’ISIS non è costituita da persone che erano particolarmente religiose da giovani; la grande maggioranza proviene da famiglie di non credenti. E, in base alle scarse prove disponibili, la loro radicalizzazione pare radicata in rivendicazioni politiche di torti, quali l’intervento occidentale in Medio Oriente, piuttosto che in un indottrinamento religioso.
Per riconoscere le radici sociali e politiche profonde della carneficina di venerdì e procedere in un modo che non crei altri assassini e altre vittime, abbiamo bisogno di una svolta radicale della direzione della politica sociale, non di austere lezioni sui valori repubblicani o di appelli a una guerra contro i “nemici della Francia”.
Naturalmente quando i politici francesi sollecitano la guerra, in patria e all’estero, fanno rapidamente seguito con un appello all’”unità nazionale”. Abbiamo sentito gli stessi discorsi da Hollande e Valls in gennaio. Alla fine, tuttavia, quelle espressioni si sono dimostrate prive di significato: valori francesi “universali” come la libertà di espressione, è emerso allora, non si applicano a tutti.
Le dimostrazioni a favore della Palestina sono state vietate nel nome di “non importare in Francia il conflitto israelo-palestinese e non infiammare frizioni tra ‘comunità’”. Accuse di antisemitismo sono diventate la copertura di attacchi non solo contro mussulmani, ma contro la sinistra internazionalista, mentre l’islasmofobia della Le Pen è stata, in effetti, trattata come parte normale del dibattito politico francese.
Oggi stiamo ascoltando di nuovo quelle espressioni. Oggi, più che mai, è necessaria una visione alternativa: una che dia priorità alla solidarietà internazionale rispetto all’unità nazionale; una che si concentri sulle fonti della cosiddetta “frattura sociale”, piuttosto che su una nuova ondata bellica; una che offra un concreto universalismo politico, basato sul contrasto al razzismo e all’islamofobia, piuttosto che il limitato “universalismo” difeso da Hollande, Valls e Sarkozy.
Molti nella sinistra francese non sono stati sempre coerenti nel loro approccio a queste questioni: a volte in passato la loro dedizione all’idea della laicité ha indotto molti ad accettare misure repressive, come il divieto della kefiah nel 2004 e la proibizione del velo nel 2010 (in entrambi i casi la sinistra si è divisa, specialmente riguardo al primo).
Ci si chiede quanto questa confusione politica abbia contribuito alla marginalizzazione della sinistra in molte comunità della classe lavoratrice; nelle banlieue come Aubervilliers, Bobigny e Saint-Ouen, attorno a Parigi, tutte un tempo roccaforti dell’estrema sinistra. La destra è tornata al potere in anni recenti, in parte appellandosi a vaste comunità di immigrati e di mussulmani che hanno preso sempre maggior distanza dalla sinistra francese.
Per essere equi, le dichiarazioni pubblicate da molti gruppi chiave della sinistra dopo l’attacco sono in sintonia con questi temi. E questo è un buon segno, uno dei pochi segni buoni in questi giorni terribili, perché mentre scrivo questo, nei notiziari compaiono servizi sui “massicci” attacchi aerei francesi in Siria. Non so che cosa il governo abbia in programma di fare con la sua guerra più recente – né penso lo sappia Francois Hollande – ma essa quasi certamente produrrà una distruzione terribile.
Quelli che desiderano radunarsi, dar voce alla loro rabbia e al loro sgomento per gli attacchi aerei e chiedere una reazione diversa, sono stati messi a tacere dal divieto del governo contro le manifestazioni.
Così, per ora, Parigi è in lutto e il suo governo fa la guerra.

Da Z Net Italy- Lo spirito della Resistenza è vivo
Originale: Jacobin Magazine
Traduzione di Giuseppe Volpe
©2015 ZNet Italy- Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

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