La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 11 dicembre 2015

I territori perduti della République

di Marco Assennato
«Il Front National è il solo fronte davvero repubblicano, perché è il solo a difendere la nazione e la sua sovranità. È anche il solo fronte che potrà riconquistare i territori perduti della République, a partire da Calais o dalle nostre banlieues». Il primo commento di Marine Le Pen ai risultati delle elezioni regionali francesi del 6 dicembre 2015 è un capolavoro di chiarezza e di logica politica. Addirittura perfido, nel riprendere quell’espressione marziale, tanto cara al primo ministro Manuel Valls – Riconquistare i territori perduti della République! – il quale ne aveva fatto una bandiera già dopo l’attacco stragista del gennaio 2015. Se questo è il programma fondamentale del governo socialista, dice la Le Pen, allora il popolo francese sa scegliere chi può coerentemente interpretarlo. Poi ne individua i luoghi simbolici: le banlieues, tane di quel popolo altro che si nasconde tra le folle di Francia, territori perciò di riconquista della guerra civile proclamata dal duo Hollande-Valls; e Calais, giungla di profughi, immigrati, invasori, da ripulire una volta e per tutte dalla peste straniera.
Stato d’emergenza, divieto di manifestare e di riunirsi in assemblea, guerra interna ed esterna: chi meglio dei neofascisti blumarine può ambire a suonare su tale spartito?
La destra e la sinistra paiono confondersi, indistinguibili. In verità l’espressione di Manuel Valls ha una storia precisa e relativamente recente.Les Territoires perdus de la République, infatti, è il titolo di una raccolta di saggi pubblicati nel 2002 da Mille et une Nuit, sotto la direzione di Emmannuel Brenner. Il coordinatore della raccolta è uno storico che aveva inteso – sotto quel titolo presto citato da Jean-Pierre Raffarin e Jacques Chirac all’epoca della legge contro il velo – mettere insieme una serie di testimonianze e contributi, in particolare di operatori scolastici, su «ciò che nessuno osa dire dellebanlieues». In un’intervista rilasciata a Le Figaro1, Brenner afferma, a proposito del suo libro: «una parte della gioventù del nostro paese si riconosce sempre meno nella nostra cultura. Essa è diventata ormai un codice estraneo, una lingua morta e non solo per delle ragioni sociali. Stiamo assistendo, in Francia, all’emergere di due popoli al punto che alcuni evocano i germi di una guerra civile».
Due popoli in guerra, dunque. La copertina della nuova edizione del libro, ripubblicato da Pluriel, mostra dei giovani intenti a distruggere delle automobili. A parere dell’autore però, se per una parte è guerra guerreggiata, l’altra resta timida e rifiuta les amalgames tra giovani banlieusards e violenza. «Oggi alcuni intellettuali si rifiutano di fare il gioco del FN, come i loro antenati comunisti o compagni di strada, che non volevano fare il gioco del grande capitale. Per un intellettuale una sola questione dovrebbe porsi: i fatti si sono avverati o no?». Brenner con il suo libro intende dunque denunciare il fragoroso cedimento della coscienza debole dei democratici francesi: ne trova un esempio lampante nel caso dei menu scolastici, per i quali sono previsti in alcune scuole dei pasti alternativi a quelli correnti, non contrari all’educazione alimentare degli studenti di religione musulmana. «Introdurre dei menu alternativi nelle scuole – dice Brenner – significa dare adito a delle pratiche comunitarie che non avranno più ragione di essere limitate. Il rischio è qui. È questo primo passo che permetterà tutti gli altri e condurrà a sfibrare il tessuto laico e che ci obbligherà su un cammino contrario a quello che, da almeno due secoli, costituisce la nazione francese».
Nel volume, una insegnante che lavora in una scuola della periferia nord di Parigi, aveva scritto che, dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, si sentiva tra i suoi allievi «come uno di quegli aviatori americani caduti in Vietnam e portati in mezzo alle folle». Ma aveva altresì voluto sottolineare che, dopo l’intervento militare in Afghanistan comandato da Geroge W. Bush, i suoi studenti erano tornati nei ranghi repubblicani. Per concluderne: «Bisogna ammettere quindi che, contrariamente a ciò che leggiamo sui media, l’intervento della forza militare ha ridato lustro all’Occidente e quindi che sono stati gli USA che in classe hanno ridato dignità ai professori abbandonati dallo Stato francese». La riconquista dei territori perduti è insomma sempre un affare di doppia guerra: interna ed esterna. Il socialista Valls e il presidente Hollande hanno ripreso questa prestigiosa tradizione culturale. Marine Le Pen, forte del risultato elettorale, ha spiegato loro che il Front National è l’unico interprete coerente del loro stesso programma. Se di qualcosa si deve discutere, in attesa dei risultati definitivi delle regionali, è di questo.
Jacques Rancière, già nell’aprile 2015, aveva provato a denunciare la mutazione degli ideali repubblicani in armi di discriminazione e di disprezzo, rivoltandosi contro quell’«universalismo confiscato e manipolato» dai governi che pretendono farne il «segno distintivo di un gruppo, per mettere sotto accusa una comunità precisa». Per poi fornire l’unica risposta razionale alla questione che agita la stampa francese in questi giorni: Dov’è finita la sinistra? Perché il popolo non ascolta? Come siamo potuti arrivare a questo punto?
«Da una ventina d’anni – diceva Rancière al Nouvel Obs – gli argomenti al servizio della xenofobia e del razzismo sono venuti da alcuni intellettuali della sinistra detta repubblicana (…). I grandi valori universalisti – laicità, regole comuni per tutti, uguaglianza uomo-donna – sono diventati lo strumento di una distinzione tra noi, che aderiamo a quei valori, e loro che non vi aderiscono. Il Front National può dunque fare economia dei suoi argomenti xenofobi: tanto gli vengono forniti dai repubblicani. (…) Dov’è la sinistra? Si chiedono i socialisti. La risposta è semplice: è lì dove loro l’hanno condotta, cioè al nulla».
Le ragioni del voto al Front National sono in realtà altrettanto semplici e note. L’applicazione acritica e sistematica delle politiche neoliberiste – appena mitigate dal pretenzioso ruolo militare della Francia in Europa – ha enfatizzato gli elementi di segregazione e gerarchizzazione sociale, di precarizzazione della gran parte della popolazione ad esclusivo vantaggio di una minoranza adesso minacciata dai suoi avatar, come presa nella doppia deriva interna del fascismo nazionalista e del fascismo integralista. È esattamente l’incapacità di pensare un mondo globalizzato, multiculturale, compiutamente postnazionale, che condanna anche la sinistra non socialista, in Francia, ad essere polverizzata. Anche loro, a forza di giocare al nuovo keynesismo sovranista, sono finiti nel gorgo della retorica di Florian Philippot e Marine Le Pen.
Tuttavia, come ci ha spiegato più volte Judith Revel, l’entropizzazione dellabanlieue, la profonda lacerazione sociale che segmenta le moltitudini europee, non è certo un destino: è il frutto delle politiche che hanno governato la trasformazione della forza lavoro non qualificata di tipo fordista in singolarità produttive adatte al capitalismo cognitivo. Insistiamo: è un passaggio che non è stato pensato. Oggi si dice: le élites francesi – tutte: grandi partiti, grandi giornali, associazioni padronali, quadri tecnocratici – hanno rivelato la loro totale incompetenza di fronte alle sfide poste dalla crisi finanziaria, ormai tradotta in crisi profonda della costruzione politica europea. Ed è senz’altro vero. Esse si muovono nella più totale ignoranza. Le loro uniche risorse per affrontare un quadro internazionale che, per quanto complesso, non è impossibile da ripensare e tensioni interne ormai da tutti riconosciute, sono il conferimento dei pieni poteri alla polizia e la guerra, in dispregio delle libertà pubbliche. Marine Le Pen, come alcuni tenori del pensiero destituente, in un’inedita convergenza, ripetono allora senza sosta: il nazionalismo è l’unica via d’uscita possibile dalla crisi dell’Europa. Ci pare che qui il realismo politico si traduca troppo rapidamente in fascismo. E contro il fascismo non si può fare altro che battersi.
A poco valgono le miserie della cronaca tattica: forse, nel gioco al miglior perdente, il Partito Socialista verrà fuori meno male del previsto dal ballottaggio di domenica prossima, scrivono i giornali di sinistra;probabilmente la strategia di Sarkozy è stata indebolita da questa tornata elettorale e provocherà un’ulteriore frammentazione a destra, scrive Le Monde. Certo è che – in un quadro nel quale pare ormai endemico che voti poco meno della metà degli aventi diritto – il FN è ormai al 30% dei consensi, ovvero è un protagonista stabile della vita politica francese, per di più con forti previsioni di crescita. Ciò significa che esso ha tradotto in terminali istituzionali diffusi e solidi il proprio programma. Ha costruito struttura, massa burocratica e questo peserà tanto sul dibattito europeo, quanto sulla vita concreta delle persone. Si tratta quindi di comprendere: come ci si organizza nella crisi europea, tra il nazionalismo e la morsa delle politiche neoliberiste?

Fonte: Euronomade

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