La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 29 gennaio 2016

Il travisamento del lavoro

di Maurizio Sgroi 
Cos’è il lavoro, mi chiedo, mentre sfoglio analisi preoccupate sull’evoluzione di questa peculiare espressione dell’agire umano, che ipotizzano un mondo segnato da una crescente disoccupazione tecnologica. Poiché ho imparato che le domande semplici nascondono sovente vicende complesse, ho deciso di cercare una risposta saggiando quella comune, che vado a ripescarmi nel volume dedicato all’economia dall’enciclopedia universale Garzanti aggiornato a una decina di anni fa. Mi sembra il modo più semplice per comprendere come la vulgata definisca il lavoro.
Qui leggo che il lavoro è “attività umana volta alla trasformazione e all’adattamento delle risorse naturali, allo scopo di produrre beni e servizi che soddisfino bisogni individuali e collettivi”.
“Oltre a presupporre un’interazione fra uomo e natura, l’attività lavorativa è per eccellenza sociale: essa, cioè, mette normalmente l’uomo che la esegue in rapporto con altri uomini (..)le modalità di prestazione del lavoro e della sua remunerazione hanno caratterizzato le grandi fasi dello sviluppo sociale ed economico (..) la moderna organizzazione capitalistica della produzione comprende un mercato del lavoro ed elaborati meccanismi di determinazione dei salari (..) che assegnano un ruolo alle organizzazioni sindacali”.
Quindi il lavoro ha a che fare con la produzione di qualcosa e presuppone una interazione a livello individuale con la natura e a livello sociale con un altro soggetto, che nel tempo moderno ha generato un mercato e una burocrazia. In sostanza, quando andiamo a lavorare svolgiamo un’attività per qualcuno che ce l’ha commissionata e in cambio della quale riceviamo una retribuzione più o meno istituzionalizzata. Al di fuori di questo schema ormai consolidato non esiste lavoro. Chi non partecipa a questo schema è disoccupato.
Fin qui siamo nella conoscenza comune. Che però solleva nuove questioni. Se il lavoro è “attività umana volta alla trasformazione e all’adattamento delle risorse naturali, allo scopo di produrre beni e servizi che soddisfino bisogni individuali e collettivi”, ciò vorrebbe dire che il lavoro, con tutto ciò che ne consegue, è sempre esistito. La storia invece ci dice che non è così. Ossia, l’uomo ha sempre svolto attività al fine di soddisfare bisogni, ma queste attività sono diventate un lavoro, nel senso per noi comune, solo da pochi secoli. Basterebbe rileggere anche solo La Grande Trasformazione di Polanyi per ricordarlo.
L’importanza del lavoro risalta con piena evidenza nell’opera di Adam Smith, che nel libro primo, al capitolo V, della Ricchezza delle nazioniscrisse che “uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare (..) il valore di ogni merce è dunque uguale alla quantità di lavoro che le consente di avere a disposizione. Il lavoro è quindi la misura reale del valore di scambio di tutte le merci”. Riecheggiando così ciò che aveva scritto qualche tempo prima un altro filosofo, David Hume, nel suo trattato Of commerce: “Tutto al mondo è acquistato col lavoro”. Sempre Smith, nel libro secondo al capitolo terzo inaugurò la celebre distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo che per secoli ha dato lavoro agli economisti e ancora oggi segna il nostro dibattito pubblico, collegando il primo all’agricoltura e all’industria e il secondo sostanzialmente ai servizi.
Senonché, le affermazioni di Smith sono quantomeno di seconda mano, se non di terza o quarta. La radice della teoria del lavoro come costituente del valore, infatti risale almeno a un secolo prima. Il primo a “valorizzare” il lavoro, nella sua capacità di trasformare la natura e quindi creare reddito rendendola più di ciò che è fu probabilmente William Petty, l’inventore dell’aritmetica politica. Ma fu un altro filosofo ancora che formulò il principio del valore del lavoro. Un filosofo che ha avuto una notevole quanto misconosciuta influenza sullo sviluppo dell’economia politica sebbene solo di rado venga considerato un economista: John Locke.
Locke parlò ampiamente dell’importanza del lavoro non perché fosse interessato alla costruzione di una teoria del valore, ma perché cercava un fondamento per l’autentico caposaldo della nascente economia capitalista: la proprietà privata. Locke sta alla proprietà privata come Cartesio sta alla metafisica del soggetto. Quest’ultimo dedusse l’Io dal Cogito ergo sum. Locke dedusse la proprietà privata (mIo) dall’Io.
Nel suo Secondo Trattato sul governo, pubblicato anonimo nel 1690, Locke scrisse che “Dio ha dato la terra ai figli degli uomini, l’ha data in comune a tutta l’umanità”, quindi nessuno potrebbe o dovrebbe rivendicarne i frutti. E tuttavia tale principio “divino” deve essere contemperato con un altro principio di altrettanto peso: “Ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui”. E’ evidente la derivazione cartesiana.
Il combinato disposto fra i due principi, conduce alla conclusione che “il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi”. Quindi l’essere proprietari di sé conduce alla proprietà di ciò che da sé si produce. “Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria, tale lavoro essendo infatti indiscutibile proprietà del lavoratore, nessun altro che lui può aver diritto a ciò cui esso è stato incorporato”. In sostanza, il passaggio dal comunismo originario all’individualismo proprietario è una conseguenza del lavoro dell’uomo. E ciò spiega perché si arrivò fatalmente alle teorie di Smith e, più tardi, a quelle di Marx che, rimuovendo l’individualismo proprietario altro non ambiva che tornare al comunismo originario per il tramite dello stato, ossia l’Unico Proprietario che sostituisce Dio nel dispensare i suoi beni comuni. Non a caso la teoria del valore/lavoro è tanto centrale in Marx.
Il lavoro perciò è stato lo strumento filosofico sul quale è stato costruito il principio della proprietà privata. E questo è stato il suo primo travisamento. Se è ovvio che tutto ciò che io compio proviene da me, ciò non implica che tutto ciò che da me proviene sia di mia proprietà. Sennò dovremmo essere proprietari dei nostri figli, per fare un esempio. O di qualunque cosa sulla quale apportiamo un cambiamento, il che oltre ad essere assurdo è anche impossibile. E’ chiaro che Locke aveva uno scopo politico, quando scrisse il Trattato, che qui non serve rilevare. Basterà osservare che col suo scritto interpretava uno spirito emergente nel suo tempo, quello che sosteneva la nascente classe dei nuovi proprietari. Non a caso il ragionamento sul lavoro è inserito in un trattato di politica.
Il secondo travisamento è visibile già nella definizione della nostra garzantina, che dopo questa pur breve ricognizione ha assunto ben altro spessore, laddove afferma che il lavoro deve “produrre beni e servizi che soddisfino bisogni individuali e collettivi”. Il collegamento del lavoro all’attività produttiva è il fondamento della sua organizzazione nel sistema datore di lavoro-lavoratore che siamo abituati a frequentare.
Il problema di questo travisamento non è che sia fonte d’errore, ma che sia incompleto. Definire lavoro solo ciò che produce sostanzialmente reddito taglia fuori dalla categoria del lavoro una parte rilevante delle attività umane che producono un beneficio che la categoria del reddito non riesce a catturare. E questo scritto ne è la prova evidente. Ciò che io scrivo soddisfa sicuramente un bisogno, almeno il mio e forse di qualcuno di voi, e produce sicuramente qualcosa: delle parole e, spero un po’ di conoscenza. Quindi stando alla mia garzantina starei lavorando. Ma ciò che io produco non esprime alcun valore di scambio: nessuno mi dà, nel senso definito da Smith, in cambio altro lavoro sotto la forma di altri beni. Rimane il fatto che questa attività è spiccatamente sociale, come vuole l’enciclopedia, mentre rimane insoddisfatto l’altro requisito fondamentale del lavoro come lo intendiamo: la remunerazione.
Su questo punto, che poi è il punto centrale sul quale si è costruito il conflitto sociale negli ultimi trecento anni, purtroppo i classici hanno poco da dirci, com’è normale che sia: ai loro tempi, come d’altronde ai nostri, era del tutto ovvio collegare un lavoro a una retribuzione, e aspettarsi che la relazione si svolgesse fra due soggetti necessariamente antagonisti: il lavoratore e il datore di lavoro, originando quel conflitto fra lavoro e capitale che ha segnato la storia dell’economia. Da una parte il lavoratore che, evocando Locke e i tantissimi dopo di lui, rivendicava la proprietà di ciò che aveva prodotto. Dall’altra il capitalista che, evocando anche lui Locke, in quanto titolare del capitale, ossia di ciò che primariamente aveva creato col suo lavoro, rivendicava una quota del prodotto di tale lavoro. Per questo l’economia è diventata una lotta fra individui proprietari che si contendono fette di ricchezza. Una guerra costante. Il che sicuramente è un fatto reale. Ma non è tutta la realtà.
Se volessimo riportare il lavoro al suo significato più profondo, dovremmo dire che è lavoro tutto ciò di utile che qualcuno fa per qualcun altro, visto che è la relazione, e non la remunerazione, che connota questa attività. O almeno dovrebbe. In un suo vecchio libro,L’invenzione dell’economia, Serge Latouche ricorda che ai tempi dei romani era uso fra i ceti altolocati svolgere attività liberali, l’avvocatura o la medicina, senza per questo chiedere una remunerazione, che sarebbe stata ritenuta cosa disdicevole. Lo facevano per passatempo, diremmo noi oggi. Ma è evidente che non è così. Per quelle persone lavorare, quindi spendere il loro tempo per gli altri, ossia la risorsa più preziosa, era considerato un dovere sociale, oltre che un piacere personale. Un po’ come è per me scrivere queste cose.
Ciò che dovremmo proporci quindi, è recuperare lo spirito del dovere sociale del lavoro, ossia la consapevolezza che, vivendo in società, occorre fare qualcosa per gli altri, e scavalcare il problema della retribuzione allargando lo schema che siamo abituati a frequentare. Trasformare il dualismo datore di lavoro-lavoratore, che è solo una delle modalità in cui il lavoro si può esprimere, in una relazione più complessa che consenta di separare la prestazione dalla retribuzione.
Detto in parole povere: il lavoro, così come lo abbiamo definito, deve essere retribuito con un qualche potere d’acquisto, perché solo così chi lo esprime può vivere. Ma non è detto che debba essere retribuito da chi comanda il lavoro, per usare la terminologia di Smith, o da chi ne beneficia. Ciò parrà astratto, ma in realtà è molto concreto.
Facciamo qualche esempio. Se io vendo otto ore al giorno del mio tempo a un’impresa che produce barattoli e che mi paga per attaccarvi sopra etichette, il mio salario pagherà il mio tempo e l’impresa sarà proprietaria dei barattoli etichettati. Quindi io faccio qualcosa per un imprenditore che in cambio mi dà del denaro. La narrazione di Locke e dei trecento anni dopo si esaurisce in un fatto sindacale di natura contrattuale.
Se io vendo otto ore al giorno del mio tempo per insegnare a scuola, il beneficiario della mia attività – lo studente – non è lo stesso che mi paga lo stipendio. E questo spiega bene la differenza fra la produzione di un bene per un privato e quella di un servizio pubblico per lo stato. Entrambi oggi (ieri non era così) hanno diritto di cittadinanza nel nostro tempo. Quindi è evidente che il concetto di lavoro con l’invenzione dei servizi pubblici si è evoluto dalla visione smithiana.
Quel che dobbiamo chiederci è se, oltre a queste due, esista un’altra modalità di lavoro che si può immaginare conduca ancora più avanti lo schema già inaugurato dai servizi pubblici. Dove quindi la separazione fra soggetti della prestazione ed erogatore della remunerazione sia ancora più divaricata. Se io passo il mio tempo ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada, farò del bene a un sacco di persone ma nessuno mi pagherà alcunché. Eppure pochi dubiterebbero che faccio un’attività benemerita. Se io passo le mie giornata a dipingere quadri o a coltivare petunie che regalo ai passanti, attività che i classici avrebbero giudicato forse utili, ma di sicuro improduttive e che nessuno mi ha commissionato, ho diritto a essere chiamato lavoratore, e quindi retribuito, oppure no?
Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo farcene altre: che tipo di società vogliamo essere? Quest’epoca straordinaria che siamo chiamati a vivere dovrà essere ricordata come quella in cui le macchine hanno definitivamente distrutto il lavoratore, e quindi il lavoro, o quella in cui finalmente il lavoro riscopre, innovandolo, il suo significato?
Ci hanno ripetuto per decenni che il lavoro è un diritto (dimenticando che è anche un dovere) e che bisogna tendere alla piena occupazione. Ma questo significa che chiunque faccia qualcosa di utile per gli altri ha il diritto di farlo e di essere retribuito, oppure solo che dobbiamo avere un datore di lavoro che compri il nostro tempo? Possiamo immaginare (e sostenere economicamente) una società che remuneri chi compie qualcosa di utile per gli altri mettendo tale principio alla base del suo funzionamento?
Chiedersi che tipo di società vogliamo costruire, oggi che viviamo una straordinaria età dell’abbondanza, come ci ricorda in un libro recente Nicola Costantino (Abbondanza, per tutti) è il primo dovere di ognuno di noi. Abbiamo i mezzi e la possibile di restituire al lavoro la sua dignità e la sua importanza, ossia remunerandolo e ricordando la sua vocazione sociale, quale strumento di realizzazione personale e bene comune. Il problema è che dobbiamo evolvere il nostro paradigma economico e ampliare il concetto di lavoro che siamo abituati a frequentare. Esattamente come fece Locke più di trecento anni fa. Trecento anni dovrebbero essere un tempo sufficiente per pensare di cambiare.
Non è poi così difficile immaginare come.

Fonte: The Walking Debt 

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