La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 30 gennaio 2016

L'eroe in Ernst Jünger

di Giovanni Tomasin
Una premessa. Il centenario dell’inizio della Grande guerra coincide, com’è giusto che sia, con la ripubblicazione di una serie di opere prodotte dallo scrittore tedesco Ernst Jünger all’inizio degli anni Venti. Nella lunghissima parabola della sua vita questo autore, solitario e conservatore, si è confrontato con gli abissi più profondi della storia novecentesca. I suoi esaltati scritti giovanili, nati dopo l’esperienza in trincea, sono tuttora oggetto di culto nei circoli dell’estrema destra, che vi apprezzano il carattere nazionalista e la vicinanza ai nascenti totalitarismi. Appiattire l’uomo e lo scrittore sulla lettura frettolosa di qualche opera post-bellica significa però fare un grave torto a Jünger. Senza cercare di iscrivere l’autore a parrocchie che non sono la sua (in fondo egli fu e rimase sempre una sorta di anarchico conservatore), si possono approfondire i testi prodotti fra la Prima e la Seconda guerra mondiale facendo emergere l’evoluzione del suo pensiero sulla figura del guerriero, in un passaggio da un eroismo consonante a quello dei fascismi a un eroismo che con essi è in contrapposizione assoluta.
Sulla scia dell’eccellente lavoro compiuto da Wu Ming 4 con J.R.R. Tolkien, è quello che si è cercato di fare in questo articolo.
Il guerriero e l’Operaio
L’uomo nuovo si fa largo tra nebbie venefiche, il viso cancellato dalla maschera antigas, lanciandosi verso le trincee nemiche sotto una pioggia di metallo. Al seguito della prima ondata cammina lento l’ufficiale: il cappotto grigio macchiato di fango, guanti bianchi a stringere pistola e frustino. Tutt’attorno vulcani di terra si sollevano a ogni colpo d’artiglieria, proiettando schegge e tranci di cadaveri in lunghe parabole nel cielo giallo. Il tempo della Grande guerra è scandito da momenti di violenza estrema alternati a lunghi silenzi tra una battaglia e l’altra, nell’attesa che l’ingranaggio delle battaglie di materiali si rimetta in moto. L’uomo che vive in questo habitat riunisce in sé spirito moderno e ancestrale, a suo agio nei locali delle metropoli, durante la licenza, così come nel paesaggio da cavernicoli del fronte occidentale.
Il ritratto appena abbozzato del soldato del Primo conflitto mondiale è il calco di un’immagine letteraria che assurse a concetto politico: è l’uomo nuovo descritto da Ernst Jünger (1895-1998) negli scritti pubblicati tra la fine della guerra e l’inizio degli anni Trenta.
Soldato dal coraggio leggendario, decorato con la più alta onorificenza del Secondo Reich, la medaglia Pour le Merite, Jünger fu una delle figure più controverse del panorama culturale della Repubblica di Weimar. La parabola umana e politica, da acceso nazionalista a oppositore del nazismo, si è riflessa inevitabilmente nell’opera dello scrittore, tra le più importanti in lingua tedesca nel secolo scorso: indagare il concetto di eroismo nella sua produzione compresa tra le due guerre consente di rintracciare una svolta cruciale nel pensiero jüngeriano, capace di gettare una luce differente sulla figura complessa di questo grande conservatore.
Nel 1920 il giovane Jünger si guadagna un’improvvisa notorietà tra gli ex commilitoni con la pubblicazione dei suoi diari del fronte, intitolati Nelle tempeste d’acciaio. In questo e negli altri libri pubblicati all’inizio del decennio Jünger propone una lettura del conflitto che rinnega tanto la propaganda patriottica quanto la visione pacifista, l’idea dell’inutile strage. La definizione di Benedetto XV è blasfema agli occhi dello scrittore: sancire la sostanziale inutilità del conflitto significherebbe, per Jünger, condannare ex post i camerati caduti a una morte insensata. Se anche le ragioni formali del conflitto sono vacue, riflette, ciò non comporta che l’evento sia privo di un significato recondito. Nell’apparente assurdità, come in un mosaico sconvolto, Jünger individua un’immagine: appurato che le mire nazionali sono mero gioco d’ombre, lo scrittore soldato rintraccia il senso autentico del conflitto nel prorompere titanico della tecnologia moderna sullo scenario «eterno» della guerra. Nelle battaglie di materiali e negli uomini che giungono a sentirvisi a casa.
Il conflitto diventa così il momento di trapasso a una nuova epoca dell’umanità, un’era storica dominata da una stirpe di umani completamente diversa dall’europeo della Belle Epoque. Negli scritti che, molti anni più tardi, Jünger definirà il suo «antico testamento», i soldati usciti dalle trincee sono dipinti come i rappresentanti di una stirpe destinata a mutare la società nel suo complesso, cambiandone le forme o riempiendole di nuovi significati: così come la Grande guerra è stata la trasposizione nel conflitto della produzione industriale, le forme della politica ventura saranno la messa in pratica della mobilitazione totale che ha caratterizzato i paesi impegnati nello scontro.
Araldi dell’ordine nuovo, i soldati del fronte costituiscono un tipo d’eroe che da secoli mancava sui campi di battaglia: disinteressato alla sopravvivenza della propria individualità, pronto a sacrificarsi e a uccidere per la causa superiore, noncurante del suo stesso terrore. La figura del nuovo soldato tedesco si sovrappone come in un sogno a quella del guerriero germanico, deciso a combattere fino all’ultimo uomo per l’onore proprio e del proprio re. Il titolo tedesco di Nelle Tempeste d’acciaio, In Stahlgewittern, è una parola composita in cui risuonano le kenningar dell’epica altomedievale amata da Jorge Luis Borges: storie sanguinose di vendetta e strage in cui la spada diventava la serpe del cuore, il mare la strada delle balene e le frecce i corvi del sangue.
In La battaglia come esperienza interiore, libro del 1922 in cui presenta il risvolto spirituale dello scontro, Jünger scrive:
Corriamo. I colpi si fondono l’un l’altro sempre più in fretta, sempre più furiosi, affondando in un ruggito crescente. Il terreno ondeggia, l’aria soffocante impregnata di gas e putrefazione ci arriva in faccia a ondate. Zolle di terra si schiantano contro gli elmi, le schegge risuonano contro le armi. Si ode forte e chiaro ogni volta che un pezzo di ferro stacca un trancio di carne umana. Ai nostri piedi, ai bordi del sentiero giacciono i morti, dazio per tanti mesi di passaggio, spettrali bambole di cera nella luce fioca, gli arti stranamente slogati. Una cassa toracica affonda, tenera come un mantice, sotto il mio stivale chiodato, il cervello viene bombardato d’immagini, colpi di lama che ronzano bluastri, martellate sfolgoranti. Sono tante, le percezioni, da far scordare anche la paura, anche se ogni cosa ha i colori spettrali dell’incubo.
Nel corso degli anni Venti Jünger continua a propagandare la sua visione apocalittica: fonda il gruppo neonazionalista, frangia politica estrema vicina ai nazionalbolscevichi di Ernst Niekisch, che vede nella Germania il paese destinato, per eredità spirituale, a meglio incarnare la nuova fase storica vaticinata dalla Grande guerra. E’ in questo periodo che Jünger si guadagna l’etichetta affibbiatagli da Thomas Mann – «un pioniere spirituale, gelido libertino della barbarie» – e attrae gli strali di Walter Benjamin, che proprio a Jünger dedicherà una critica durissima nel suo saggio Teorie del fascismo tedesco:
Profondamente imbevuta della propria depravazione, la tecnologia ha dato forma al volto apocalittico della natura, riducendola al silenzio – sebbene questa tecnologia abbia il potere di dare alla natura stessa la sua voce. Invece di usare e illuminare i segreti della natura attraverso una tecnologia mediata dallo schema umano delle cose, l’astrazione metafisica della guerra dei neonazionalisti non significa null’altro che una mistica e immediata applicazione della tecnologia alla soluzione del mistero di una natura percepita idealisticamente. “Fato” ed “eroe” occupano le menti di questi autori come Gog e Magog, divorando non soltanto i figli degli uomini ma anche le idee nuove. Tutto ciò che c’è di puro, incontaminato, ingenuo e umanistico finisce tra i denti consumati di questi Moloch che reagiscono con i rutti dei mortai da 42 centimetri.
La nazione mistica, la «Germania eterna» che questi nuovi guerrieri si credono destinati a servire, spiega Benjamin, non è «nient’altro che una classe dominante sostenuta da una casta».
Nei primi scritti polemici di Jünger (Scritti politici e di guerra. 1919-1933) il fascismo italiano, allora ai suoi albori, viene esplicitamente richiamato come esempio, così come si rende omaggio al capo del nascente movimento nazionalsocialista, Adolf Hitler, ammiratore dichiarato di Nelle tempeste d’acciaio. Nel corso degli anni Venti, però, le posizioni divergono. Il circolo di Jünger critica il carattere «borghese» del movimento nazista, senza condividere nemmeno il feroce antisemitismo biologico propagandato dal partito di Hitler. Ciò non libera Jünger e sodali dalle loro responsabilità: criticato dai nazisti per la sua mancanza di antisemitismo, lo scrittore risponde con un articolo sulla «questione ebraica». Auspica la nascita di un nazionalismo ebraico analogo a quello tedesco, la cui clausola obbligata è la fine di ogni integrazione, l’imposizione della scelta minacciosa fra «essere un ebreo in Germania oppure non essere affatto». Un’infamia che comunque non basta all’autore per liberarsi dell’etichetta di filosemita: «Jünger difende i suoi amici kosher», scrive Joseph Goebbels in quegli anni.
Al contempo il gruppo di Jünger continua ad esaltare la mistica della guerra in una cupa consonanza con la propaganda nazista, meno intellettuale ma altrettanto brutale. Eppure è proprio su questo punto che si verificherà la rottura definitiva. Nel 1932 Jünger pubblica un libro intitolato L’Operaio (Der Arbeiter): è un’opera inquietante, in cui l’autore descrive con ritmo rapsodico la società dell’uomo nuovo, portando alle estreme conseguenze le riflessioni del decennio precedente. Il testo si sviluppa salmodiando l’immagine quasi neoplatonica di una Forma (ted. Gestalt), l’Operaio, che attraverso lo strumento della tecnica «mobilita il mondo». Ogni attività, nel mondo che nascerà, diventa lavoro: una trasfigurazione esemplificata dall’esempio di un campanile adattato a punto di riferimento trigonometrico per una postazione d’artiglieria.
Il carattere cosmico del processo descritto da Jünger trascende necessariamente la prospettiva nazionalista, pur presente nel testo. Al tempo stesso l’autore si avvicina a una forma di collettivismo che gli vale il plauso del nazionalbolscevico Niekisch, i cui suggerimenti hanno contribuito a plasmare le tesi esposte nel testo. Martin Heidegger tiene un corso universitario sulla lettura del libro, che influenzerà profondamente il suo ragionamento sulla tecnica dei decenni successivi. Lo apprezzano molto meno i nazisti: la rivista delle SS scrive che con L’Operaio Jünger è entrato «nella zona proiettile alla tempia».
Il diavolo e Belzebù
Con la salita al potere di Hitler la rottura di Ernst Jünger con i nazisti è del tutto consumata. L’autore rifiuta di appoggiare il regime, la sua casa viene perquisita dalle SS per rappresaglia. Scompare dalla vita pubblica e si ritira in un «esilio interno», unica interruzione i frequenti viaggi all’estero.
Negli anni Trenta l’idea che Jünger ha dell’eroe cambia radicalmente. La realizzazione pratica di parte delle profezie dell’Operaio, incarnata dal gretto regime nazista, svuota ogni speranza nella possibilità di cambiare il mondo attraverso la stirpe bellica nata in trincea. Lungi dal trasporre nel mondo tecnologico i valori aristocratici del guerriero, il nuovo dominio incarna semmai gli aspetti più deteriori della tanto deprecata società borghese. La critica di Benjamin dimostra fino in fondo la sua accuratezza: negli anni successivi la spietata casta politico-militare del regime porterà alle estreme conseguenze la disumanizzazione del soldato moderno, mettendo in atto lo sterminio di massa con la determinazione del burocrate. In questo periodo a Jünger appare ormai chiaro che la capacità di portarsi ai limiti dell’umano non basta a fare l’uomo nuovo: porta anzi al rovesciamento e alla distruzione dei pretesi valori cavallereschi cui avrebbe dovuto dare nuova linfa.
Nel 1939 l’autore pubblica un nuovo libro, Sulle scogliere di marmo: vi si narra il tramonto della civiltà della Marina, una terra immaginaria minacciata dal Forestaro, crudele signore di orde fanatiche che albergano nella foresta. Se in altri scritti di Jünger ilWald sarà l’oltremondo mitico in cui rifugiarsi e a cui attingere forza in momenti di risacca spirituale, nelle Scogliere di marmo è proprio da qui che emergono le forze mobilitate dagli apprendisti stregoni del dominio: nelle pagine in cui descrive lo «scannatoio» del Forestaro, Jünger offre una sinistra anticipazione dei campi di sterminio che di lì a pochi anni avrebbero infettato l’Europa.
Quando infine le armate del Forestaro invadono la Marina, un gruppo di coraggiosi tenta l’ultima resistenza cercando di uccidere il capo predone. I protagonisti del libro, una coppia di fratelli le cui figure ricalcano con palese evidenza Jünger stesso e il fratello Friedrich Georg, prendono parte allo scontro pur sapendo di non poter prevalere. Sconfitti, invece di resistere e cadere fino all’ultimo uomo, i due fratelli e gli ultimi difensori scelgono l’esilio portando con sé la testa del principe Sunmyra, simbolo dei valori spirituali della Marina.
La conclusione del romanzo sarebbe stata inconcepibile per l’esaltato Jünger degli anni Venti: i protagonisti delle Scogliere di marmo combattono perché vi sono costretti e rifuggono l’inutilità della morte gloriosa in battaglia, il fosco cameratismo di chi resiste fino all’ultimo uomo. In quest’opera il guerriero non combatte per la guerra in sé ma perché ha qualcosa da difendere, un mondo che dev’essere protetto e non sacrificato nel nome di una hybris sanguinaria. Il rifiuto della guerra per la guerra apre uno spiraglio alla speranza, tema completamente assente negli scritti degli anni Venti: la partenza dei protagonisti dalla Marina concede la possibilità di svolte future, nuove albe.
È questo lo spirito con cui lo Jünger quarantenne, sposato e padre di due figli, affronta la follia del Secondo conflitto mondiale. Richiamato alle armi, lo scrittore partecipa all’invasione della Francia alla testa di una compagnia di fanti. Sconfitto lo storico nemico dell’esercito tedesco, resta come ufficiale dello Stato maggiore delle forze d’occupazione a Parigi.
In seguito Jünger darà alle stampe in tre distinti volumi i suoi diari del periodo bellico:Giardini e strade, Irradiazioni, La capanna nella vigna. Irradiazioni, in particolare, offre un osservatorio di profondità unica sugli abissali anni della guerra, pur essendo stato oggetto di critiche accese. E’ un dato di fatto che i numerosi detrattori di Jünger abbiano sempre faticato a distinguere i vari periodi nel pensiero di un autore vissuto oltre un secolo, attribuendo alle opere degli anni Quaranta le stesse caratteristiche di quelle degli anni Venti, completamente differenti.
Nella capitale francese Jünger è molto vicino agli ufficiali che faranno parte del tentativo di Putsch contro Hitler del luglio 1944, anche se il grado di coinvolgimento dello scrittore nell’impresa è dibattuto. Jünger stesso nei suoi diari dice di essere stato informato della congiura ma, come il protagonista delle Scogliere di marmo, di aver reputato inutile se non dannoso il tentativo di tirannicidio. Pare che il suo scritto La Pace, compilato fra il 1941 e il 1943, fosse considerato come un possibile manifesto dai congiurati. Secondo lo storico Giorgio Galli il viaggio che Jünger conduce alla fine del 1942 sul fronte russo, nel Caucaso, è un pretesto per sviluppare le trame fra gli ufficiali della Wehrmacht partecipanti al complotto. La dedizione jüngeriana ai giuramenti di silenzio, tipica dell’ufficiale prussiano, rende impossibile ulteriori approfondimenti sul tema: certo è che lo scrittore abitò per tutta la seconda parte della sua lunga vita nella foresteria di un castello dei von Stauffenberg a Wilflingen, Svevia.
Proprio nelle pagine del diario dedicate alla spedizione in Unione sovietica, però, l’autore riporta un avvenimento che getta nuova luce sulla sua idea dell’eroe. Jünger finisce sotto il fuoco nemico dalle parti di una località di nome Kurinskij, e scrive:
Saltammo nella fossa aspettando che la bufera passasse. Quel che sento in questi momenti è l’anacronismo, metà comico, metà spiacevole. Quell’età, o piuttosto quello stato d’animo che sa godere di queste esperienze, di cui anzi cerca di aumentare le proporzioni, appartiene ormai alla mia vita passata. Non so inginocchiarmi davanti al pericolo fisico senza sentire di compiere un rito ridicolo alla mia età.
Più che un’età è uno «stato d’animo». Anche se da giovani è più semplice sentire l’esaltazione della morte, è un vizio da cui si può essere affetti, e da cui ci si può liberare, in ogni momento della vita. «L’anacronismo, metà comico, metà spiacevole», il «rito ridicolo» sono ormai agli antipodi dagli scritti incendiari degli anni Venti. Il vecchio nichilismo eroico di Jünger si trasfigura approfondendosi, attraverso un movimento a spirale, in un eroismo di ben altra statura. In un passaggio di Irradiazioni l’autore sembra fare eco alle parole di Benjamin, che nello scritto di oltre dieci anni prima chiedeva il passaggio dalla guerra in sé alla guerra civile contro l’oppressore. Assistendo a una conferenza sulla propaganda tenuta dai burocrati del partito nazista, scrive:
È gente che conosce il mistero della potenza come i tecnici del coito conoscono quello dell’amore. I punti di vantaggio che indubbiamente posseggono sono di natura del tutto negativa: loro sanno disfarsi del bagaglio morale prima di qualsiasi altro, e hanno saputo introdurre le leggi della meccanica nella politica.
Secondo Jünger umani di questo nuovo tipo perdono il vantaggio derivante dalla spietatezza soltanto «di fronte ai loro simili, a quelli che sono andati alla loro scuola».
È un errore, quindi, aspettare che la religione e la religiosità ricostituiscano l’ordine. I fatti zoologici si producono sul piano zoologico e quelli demoniaci su quello demonologico; in altre parole, il pescecane viene inghiottito dal mostro marino e il diavolo da Belzebù.
Del resto, davanti al cinismo completo non è conveniente essere indignati. È una cosa che devo ancora imparare. Anche se mi fanno arrabbiare non posso negare l’impressione che mi fanno queste bertucce. Si tratta di stabilire un rapporto oggettivo, per esempio mettendosi a calcolare in silenzio quanto lardo e quanto grasso si ricavano da uno di questi retori dalla nuca grossa, e per quanto tempo i grassi cotti potrebbero servire a illuminare il cesso o quanti stivaloni di soldati si potrebbero ungere. Così ci si mantiene all’altezza della loro spiritualità.
Il tentativo di schiacciare il diavolo con Belzebù fallisce, per una serie di sfortunate circostanze, nel luglio del 1944. A differenza della gran parte dei suoi commilitoni Jünger riesce a scamparla grazie all’interessamento diretto, pare, del vecchio ammiratore Hitler. Non ha la stessa fortuna il figlio Ernstel che viene spedito in un battaglione punitivo sul fronte italiano e muore giovanissimo in uno scontro a fuoco a Carrara. Congedato «con indegnità» dall’esercito, Jünger si ritira a Kirchhorst, dove vivono la moglie e il figlio superstite, il piccolo Alexander.
Nella primavera del 1945, all’arrivo dei carri alleati, il vecchio eroe della guerra di trincea viene chiamato ancora una volta alle armi: deve comandare il gruppuscolo locale del Volkssturm, la milizia popolare che nei deliri finali di Hitler avrebbe dovuto trasformare l’occupazione alleata della Germania in un inferno di guerriglia suicida. L’ultimo gesto da soldato di Ernst Jünger è convincere la sua banda sparuta di vecchi e bambini ad arrendersi senza che venga sparato un colpo.

Fonte: Scenari Mimesis

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