La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 30 gennaio 2016

Refugees welcome. La liberazione animale nell’antropocene

di Marco Reggio
Il dibattito avviato su Effimera sull’antropocene ha suscitato in me alcune brevi riflessioni che vorrei condividere, a partire dall’articolo di Mariaenrica Giannuzzi e dal successivo testo di Tiziana Villani. Lo faccio muovendo da un posizionamento che, pur non essendo preciso, è sintetizzabile nell’etichetta di “attivista antispecista” (qualunque cosa ciò significhi).
Sentir parlare di antropocene a margine del COP21, per un antispecista, dovrebbe essere una soddisfazione. Si tratta di un termine originariamente descrittivo, neutro (l’epoca geologica in cui l’umano è il principale attore dei cambiamenti territoriali e climatici) che oggi evoca una preoccupazione relativa alla nostra influenza sul mondo. L’idea di una specie umana irrimediabilmente aggressiva o dannosa – un’idea che circola da sempre fra chi a vario titolo solidarizza con gli animali – dovrebbe trovare conferma in un discorso che lega il disastro ambientale a una forma di supremazia umana quasi naturalizzata, il discorso dell’antropocene, appunto. Gli studiosi, in fondo, sembrano aver dato espressione a quello che andiamo dicendo da tempo: la nostra è una specie prevaricatrice e colonialista (anzi:infestante – il registro passa qui rapidamente dal politico al naturalistico).
Farla finita con l’idea di umanità?
E tuttavia a me, proprio in quanto attivista antispecista, non fa questo effetto. Sarà perchè ho toccato con mano l’assurdità delle scorciatoie essenzializzanti dei vari estinzionismi, dei vari specismi speculari. Sarà anche perchè non capisco bene, ogni volta che compare questo prefisso, anthropos, di che cosa si parli: una specie? Una piega storica che essa ha preso? E quando? O forse si parla di una parte, di una componente della specie umana. Forse di unaclasse (parola fuori moda). Del resto, il femminismo, gli studi queer e postcoloniali non ci hanno mostrato come l’”umano” sia tutt’altro che un universale neutro? Anzi, come si tratti di un soggetto situato che mentre si produce occulta la sua stessa storicità? L’uomo – quello che facendo autocritica forse si autocelebra per l’ennesima volta – è maschio, eterosessuale, cisgender, bianco, proprietario, abile, adulto, ecc. ecc. (e gli “ecc. ecc.” di rito, come ci ricorda Judith Butler, tradiscono un particolare tipo di imbarazzo[1]). E, per inciso,quest’umano universale si dimentica volentieri di essere pur sempre un animale, con buona pace di Darwin: «oggi l’accostamento umano/animale operato da Darwin non suscita più indignazione […], ma ciò non significa che abbiamo tratto tutte le conseguenze che tale accostamento richiederebbe».[2]
Del resto, «questa idea di umanità è lo zoccolo duro della nostra civiltà […]. Questa nozione di umanità fa chiaramente riferimento al concetto di specie, ma l’appartenenza alla specie non è sufficiente per fare pienamente parte dell’umanità. Bisogna possedere alcune caratteristiche: essere uomo e non donna, adulto e non bambino, ricco (aristocratico o borghese, ma mai di un ceto basso) e non povero».[3] Per contro, l’animale «è qualcosa di più che la somma degli animali non umani: esso comprende anche molti umani – in potenza, tutti ad eccezione delle élite di volta in volta al potere – e l’animalità che ci percorre e attraversa da parte a parte».[4]
Il tutto per la parte
Il pericolo di attribuire implicitamente alla “nostra” specie le responsabilità che sono di una sua parte o di precise scelte è stato segnalato da tempo proprio nell’ambito dell’ecologia.
Non dimenticherò tanto facilmente la mostra “ambientalista” organizzata negli anni ’70 dal Museo di Storia Naturale [di New York], con una lunga serie di scenografie che mostravano al pubblico esempi di inquinamento e distruzione ecologica. L’ultima di esse, quella che concludeva la mostra, portava l’incredibile titolo “L’animale più pericoloso della Terra”, e consisteva unicamente di un grande specchio che rifletteva l’immagine del visitatore che si fosse trovato a sostare di fronte ad esso. Ho ancora in mente l’immagine di un bambinetto nero che guardava lo specchio, mentre il suo maestro bianco cercava di spiegargli il messaggio che l’arrogante scenografia tentava di comunicare. Non c’erano scenografie rappresentanti gli staff dirigenziali delle industrie che decidono di disboscare montagne intere o funzionari governativi che agiscono in collusione con essi. Il messaggio della rappresentazione era uno solo, fondamentalmente antiumano: sono gli individui come tali, non la società rapace e coloro che ne beneficiano, ad essere responsabili degli squilibri ecologici, i ceti poveri tanto quanto quelli ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi privilegiati, le donne non meno degli uomini, gli oppressi non meno degli oppressori. Una mitica “specie umana” rimpiazza così le classi, gli individui rimpiazzano le gerarchie, i gusti personali (molti dei quali sono modellati dai media) rimpiazzano i rapporti sociali, e i diseredati che vivono magre ed isolate esistenze rimpiazzano le multinazionali, le burocrazie aggressive e le manifestazioni violente dello Stato.[5]
È un caso che, alle varie omissioni sottolineate da Tiziana Villani, si possa aggiungere quella dell’ecologia sociale di Murray Bookchin?
Probabilmente no, ma non è questo l’elemento più interessante. Quando una prospettiva viene invisibilizzata, è bene riflettere su che cosa venga invisibilizzato con essa. In questo caso, per rispondere basta considerare gli aspetti più dirompenti del pensiero di Bookchin: un’analisi “di classe” (appunto: non “di specie”) del disastro ambientale; la centralità del nesso fra dominio degli umani sugli umani e dominio della natura, fra dominio dell’uomo sull’uomo, e dominio sulle donne e i bambini; la critica antiautoritaria ai biocentrismi irrazionali e misticheggianti («ecofascismi»); il sospetto verso la retorica dell’”ognuno fa la sua piccola parte”. L’attualità dell’opera di Bookchin è testimoniata tanto dal silenzio su di essa prodotto dallo spettacolo dell’autocritica istituzionale (COP21), quanto dalla sua vitalità in alcune espressioni di critica pratica – e rivoluzionaria – come la resistenza curda in Rojava. Prassi, queste ultime, tutt’altro che tristi.
Il movimento di liberazione animale, in Italia forse più che altrove, si è storicamente legato a doppio filo, soprattutto nella sua componente radicale, proprio con quelle visioni della questione ambientale che provengono dall’ecologia profonda. È difficile semplificare i rapporti di causa-effetto fra lo stringersi di questo sodalizio e le derive essenzialiste dell’antispecismo. Che nasca prima l’uovo o la gallina, però, poco cambia. Resta il fatto che, anche se negli ultimi anni il panorama della critica animalista radicale è per fortuna più articolato, la depoliticizzazione delle due lotte all’insegna degli appelli ad adottare stili di consumo individuali virtuosi ha proceduto senza argini in grado di contenerla. E questo nonostante un rapporto sempre difficile fra liberazione animale e liberazione “della Terra”. Una storia di incomprensioni profonde fra la salvaguardia delle specie come valori in sé e la difesa dei soggetti animali in quanto esseri senzienti o resistenti.
Maldestramente
Forse non per caso, per trovare la chiave per un rapporto proficuo fra i due movimenti, devo rivolgermi qui al pensiero di Bookchin, che certo non era un antispecista, e i cui epigoni hanno prodotto discorsi esplicitamente anti-animalisti. Non esiste, del resto, un’ecologia anti-antropocentrica, ma al massimo un desiderio di un’ecologia che decentri l’umano senza cadere nel misticismo. Non parlo, qui, di una prospettiva ignorata, ma di una prospettivaimpensabile, una postura che – come accade alle posture non erette – non è possibile assumere. Dove potrebbe portare il fatto di pensare alla biosfera come la terra di ogni individuo animale? Non un “paesaggio”, una “risorsa”, un’ambiente naturale, né un organismo dotato di valore in sé, ma proprio un luogo abitato da diversi popoli animali che convivono collaborando, confliggendo o anche ignorandosi? Non possiamo saperlo.
Cerchiamo maldestramente di portare all’attenzione pubblica in occasione dei grandi vertici sul clima il trattamento riservato ai non umani negli allevamenti intensivi, in cui si svolge quotidianamente quello che Derrida ha definito uno sterminio per moltiplicazione[6]. Maldestramente, perchè utilizziamo l’argomento del carattere altamente inquinante degli allevamenti moderni, come se questo sterminio potesse essere meno sconvolgente se non producesse tonnellate di CO2 o non devastasse fiumi, mari, suoli. Non perchè questo argomento sia falso – effettivamente il silenzio su una delle maggiori cause dell’effetto serra è clamoroso -, ma perchè è superfluo e la dice lunga su quanto poco conti, al netto del fiorire di discorsi che si dicono orgogliosamente postumani, la vita anonima di una mucca, di un pollo o di un pesce.
Che cosa significa il silenzio sugli altri abitanti del pianeta? Significa tacere almeno su due fenomeni. Il primo è quello dell’esistenza di dispositivi concentrazionari progettati per produrre e gestire miliardi di corpi docili o resi tali – perchè di questo, in sintesi, dovremmo parlare se parlassimo degli allevamenti intensivi (e quelli estensivi, peraltro, se ne discostano solo per alcuni aspetti). Ma, appunto, non ne parliamo. Si tratta, dopotutto, di uno dei pilastri del sistema produttivo, almeno da quando Ford ha mutuato la propria idea di catena di montaggio dalle catene di smontaggio dei mattatoi di Chicago.[7] Un settore, quello zootecnico, in cui le possibilità di riforma, se guardate dal punto di vista della richiesta di carne di una popolazione umana in crescita inarrestabile e al contempo da quello dei soggetti animali rinchiusi in gabbie più o meno larghe, appaiono come puri esercizi di (oscena) retorica. Un mondo che la narrazione vegan cerca di affrontare con una tendenza ormai ossessiva al proselitismo individuale: “cambia il tuo stile di vita e convinci il tuo prossimo a fare altrettanto, e il sistema cambierà radicalmente fino al crollo dello sfruttamento animale”. Intanto, sembra che l’unico sistema a mostrare qualche tipo di reazione sia quello del marketing della grande distribuzione, che, secondo un meccanismo collaudato, accoglie la nuova nicchia di mercato vegan con un sorriso sulle labbra.
Refugees (welcome?)
Il secondo significato del silenzio sull’impatto degli stravolgimenti ambientali sui non umani è quello di occultare la guerra ad intere popolazioni non direttamente asservite al dominio globale, i cosiddetti “selvatici”, sempre più costretti a vedere andare in fumo le proprie case, il proprio cibo, le proprie possibilità di movimento, indotti a migrare verso luoghi ignoti in cui l’ospitalità sarà in bilico fra un paternalismo ambiguo e la xenofobia. Se tutto ciò non ricorda da vicino un altro fenomeno più chiacchierato (ma non certo per estendere le forme di solidarietà), basta pensare all’emblema della risposta delle élite, e cioè il filo spinato. Le prassi di resistenza, come spesso accade, sono un passo avanti alla teoria: attivist* antirazzist* e antispecist* insieme, contestano le barriere, rivelando il comune destino degli esclusi di tutte le specie e spingendoci a riflettere sulla distinzione fra emergenze “umanitarie” ed emergenze “ambientali”. Si può dire che i “flussi” – un termine di per sè reificante – sono fatti di corpi animali che fuggono dal capitalismo? (Come fa notare Mariaenrica Giannuzzi, quest’ultima è forse la parola-tabù nei discorsi istituzionali sul clima).
La conferenza di novembre ha peraltro dato voce ad alcune formulazioni del nesso fra migrazioni e cambiamento climatico che inducono effettivamente ad una sua ripoliticizzazione. È il caso di Gianfranco Pellegrino che, analogamente a quanto fatto da Marcello di Paola, Daanika Kamal e Stephen J. Humphreys[8], suggerisce di interpretare le responsabilità per il cambiamento climatico alla luce della categoria dei diritti umani. Benchè la formulazione di rivendicazioni giuridiche relative a una serie di diritti (al risarcimento, all’ospitalità, allo status di rifugiato, ecc.) siano ovviamente appoggiabili come strumenti di vivibilità per milioni di soggetti, è chiaro che l’arma dei diritti è un’arma spuntata, proprio perchè il concetto stesso di diritto umano si costituisce inevitabilmente su una serie di operazioni escludenti. Gli animali che vengono lasciati fuori dalla protezione in questo caso non possono essere definiti partendo dall’idea biologica di “specie”, poichè comprendono sia moltissimi non umani sia le tante categorie di umani che faticano a rientrare nell’orbita del diritto, come testimoniano i risultati di tutte le retoriche paternalistiche sui “rifugiati”, che puntualmente lavorano a favore dell’esclusione di “migranti economici”, “clandestini”, “criminali”, ecc. Si tratta, ad ogni modo, di una domanda aperta: di quali risposte politiche necessita il climate change al di là del linguaggio dei diritti?
Ma torniamo nei pressi del filo spinato, dove accade talvolta qualcosa di più: le barriere vengono sabotate. L’iconografia che queste azioni quasi inevitabilmente producono ricorda in modo impressionante quella dell’Animal Liberation Front: “trance”, guanti, reti tagliate, spazi che improvvisamente si aprono. Animal Liberation Front potrebbe anche essere il nome di un nuovo movimento che, a differenza dell’ALF “storico”, riconosca più esplicitamente la comune animalità (e il comune status di oggetti di gestione biopolitica) dei corpi umani e non umani, pur conservandone le caratteristiche di orizzontalità e informalità che ne hanno fatto una sigla-non-sigla per l’azione diretta non identitaria – unaguerriglia queer, forse?

NOTE

[1] Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. di S. Adamo, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 202-3.

[2] Massimo Filippi, «Strade che convergono», prefazione a James Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, seconda edizione, Editori Riuniti, Roma 2015.

[3] Yves Bonnardel, «Farla finita con l’idea di umanità», trad. it. di feminoska ed Eleonora (intersezioni), in intersezioni.noblogs.org.

[4] M. Filippi, «Strade che convergono», cit.

[5] Murray Bookchin, Per una società ecologica, trad. it. di R. Ambrosoli, Elèuthera, Milano 1989, pp. 18-19. Si veda anche L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, trad. it. di A. Bertolo e R. Di Leo, Elèuthera, Milano 1986.

[6] Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 64.

[7] «L’idea ci venne in generale dai carrelli su binari che i macellai di Chicago usano per distribuire le parti dei manzi» (Henry Ford, La mia vita e la mia opera, trad. it di S. Benco, La Salamandra, Milano 1980, p. 93).

[8] G. Pellegrino, «Climate Refugees: Adaptation to Climate-induced Migrations». Si veda anche, dello stesso autore, «Climate Refugees and their Right to Occupancy», in: Climate Change and Human Rights, Month 1, pp. 70-75. London: Wiley & Sons. Marcello di Paola e Daanika Kamal, Climate Change and Human Rights: The 2015 Paris Conference and the Task of Protecting People on a Warming Planet.

Immagine in apertura: azione di sabotaggio del filo spinato in Slovenia (http://hurriya.noblogs.org/).

Fonte: Effimera 

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