La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 29 gennaio 2016

Uber, noi e gli apprendisti stregoni


di Alessandro Gilioli
Ci sono pochi dubbi sul fatto che i tassisti, Uber o non Uber, siano destinati a un rapido downsizing: che diventerà una sparizione totale quando arriverà l’auto che si guida da sola. Com’è successo, chessò, ai casellanti. Come sta succedendo del resto a noi giornalisti – decisamente un mestiere declinante per numero di addetti e chances.
L’altro giorno leggevo un articolo sui controllori di volo: stanno falcidiando anche quelli, che il traffico aereo lo regolano meglio i software.
Da un’altra parte ho letto delle fattorie hi-tech dove i trattori robotizzati non solo svolgono le loro funzioni classiche senza il contadino sopra, ma meglio di lui identificano se il terreno è abbastanza umido (e nel caso fanno partire l’irrigazione) e hanno sensori per capire quali frutti sono maturi e quali no, quali acini d’uva daranno vino costoso e quali invece usare per quello a buon mercato.
Ah, hanno aperto un ristorante a San Francisco dove a parte i clienti non c’è nessuno: uno schermo touch riceve gli ordini, sono i robot a cucinare e i sistemi automatizzati a servire il cibo pronto nei vassoi, poi si paga con carta di credito o cellulare contactless. Dell’home banking che decima gli impiegati agli sportelli è inutile perfino parlare, così come dei postini che si vedranno soppiantati da droni camminanti o volanti.
Potrei andare avanti all’infinito, credo.
Non chiederti per chi suona la campana, essa suona per te.
Anche se fai un mestiere nuovo e creativo, suona comunque anche per te: perché il mix di robot, intelligenza artificiale, algoritmi, internet, disintermediazione e globalizzazione cambia per sempre tutto il meccanismo dell’offerta e della domanda di merci così come di lavoro, trasformando quindi tutta la realtà che ci circonda.
È un po’ la questione che, prendendo spunto dai tassisti, viene posta oggi da Massimo Russo sulla Stampa: quella della futura e totalizzante uberizzazionedell’esistenza.
Massimo scrive che «le innovazioni delle quali decretiamo il successo come consumatori sono le stesse contro le quali ci scagliamo come corporazione» e avrebbe perfettamente ragione se non fosse per la riduttività un po’ spregiativa del termine che sceglie per definire il lato oscuro delle innovazioni: non è solo come corporazioni che andiamo in sofferenza, ma è più in generale come produttori, come (ex) lavoratori. Il ribasso dei costi e dei redditi, le tecnologie e la disintermediazione creano un mondo di individui con l’anima divisa in due: come consumatori siamo felici di avere sempre più beni e servizi facili ed economici, come produttori siamo disperati perché sottopagati, inoccupati, orfani di sindacato e di diritti, sostituibili in ogni momento da qualcuno o qualcosa d’altro.
Non è quindi questione di categoria. O meglio lo è solo molto parzialmente e comunque provvisoriamente: finché qualche corporazione è ancora abbastanza forte e coesa da provare a mettere dei sassolini nelle rotelle di un meccanismo peraltro infinitamente più potente. Ma è una resistenza residuale, caduca, perdente.
È ovvio che non è difendendo sovrastrutture le cui fondamenta sono state distrutte dai cambiamenti tecnologici che possiamo pensare di tutelare i diritti di base delle persone: un reddito, una casa, l’istruzione, la salute, la socialità, l’ambiente, insomma la serenità del vivere.
E’ altrettanto, se non ancora più ovvio, che non c’è proprio da bearsi passivamente di questa ineluttabilità. Le società e la politica, anzi, hanno un’urgenza estrema di cercare altre universali strade per non renderci invivibile l’esistenza di ex produttori scuoiati: perché altrimenti non ci sarà più “consumo felice” che tenga – e tutto imploderà in un incubo da apprendisti stregoni, tutti contro tutti e tutti disperati.

Fonte: L'Espresso - blog Piovono rane

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