La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 28 gennaio 2016

La miseria del sistema bancario italiano (parte I)

di Andrea Fumagalli 
1. Le banche italiane sono vittime della speculazione?
Spesso le vicende economiche tendono a ripetersi. Ma, come la storia, mai nello stesso modo. L’attuale crisi del sistema bancario italiano viene sempre più analizzata dai media mainstream e dal governo come l’esito di un attacco speculativo dei “lupi” di Wall Street, sull’onda del ricordo di quanto successo ai titoli di Stato nella primavera-estate del 2011.
In effetti qualche analogia ci può essere ma è poca cosa per poter suffragare questa tesi. All’epoca, nessun giornale si era premurato di indagare perché, nel giro di pochi mesi, lo spread tra i bot italiani e gli analoghi tedeschi era talmente aumentato da causare difficoltà alla loro vendita nei primi mesi d’estate di quell’anno, nonostante che la dinamica dei rapporti deficit e debito/Pil fossero migliori di molti altri paesi europei (Gran Bretagna in testa). Si scoprì poi che un colosso della finanza mondiale – la Deutsche Bank – aveva avviato una speculazione al ribasso sui titoli italiani vendendo poco alla volta circa 6 dei 7 miliardi di bot che deteneva nel proprio portafoglio per poter lucrare laute plusvalenze sui derivati legati al titolo italiano, di cui possedeva ingenti quantità (vedi Prove (conclamate) di dittatura finanziaria).
Come oggi sappiamo, la speculazione finanziaria della Deutsche Bank, analoga a quella attuata da Goldman Sachs l’anno precedente contro la Grecia, ha causato un terremoto politico: la famosa lettera di Trichet e Draghi contro il governo Berlusconi, il golpe bianco di Napolitano con la destituzione del cavaliere e la nomina di Monti, fresco senatore a vita. Iniziava così la stagione dell’austerity.
Ricordiamo questi fatti, proprio per sottolineare la differenza con l’oggi.
Il deficit strutturale dell’economia e delle banche italiane
Per analizzare la difficile situazione del mercato bancario italiano è necessario infatti ricordare che la recessione in Italia (con il calo di oltre 10 punti di Pil ma soprattutto la scomparsa di circa il 20% della produzione industriale, il crollo del 25% degli investimenti dal 2007 e l’aumento della disoccupazione ufficiale a oltre il 13% – quella reale a oltre il 22%) ha avuto i suoi effetti peggiori proprio dopo il 2011, quando la crisi dei subprime (2008-09) era già passata e aveva solo tangenzialmente interessato il mondo bancario italiano, grazie alla sua arretratezza e scarsa internazionalizzazione.
E’ infatti dalla fine del 2010 che iniziano a crescere le sofferenze (ovvero le insolvenze) sui prestiti concessi dalle banche italiane alle imprese. Da quell’anno sino al 2015, l’andamento è cresciuto esponenzialmente, da circa 100 mld a oltre i 350 di oggi (con un giro di 1.500 mld di garanzie), per una quota pari al 17,6% del totale dei prestiti: un ammontare record in Europa (la Spagna, che ha pure lei difficoltà nel settore del credito, raggiunge il livello del 7, %: dati Banca d’Italia) . La debolezza strutturale dell’apparato produttivo italiano, il mancato decollo di un minimo di capitalismo cognitivo a maggior valore aggiunto, una dimensione troppo piccola e, di conseguenza, la carenza di managerialità a vantaggio di un rigido capitalismo familiare, non in grado di sfruttare appieno i vantaggi derivanti dalle economie di apprendimento e di rete: ecco i fattori che hanno fatto sì che la recessione economica tracimasse oggi (e non all’inizio della crisi) nella crisi di un settore bancario già strutturalmente arretrato e inadeguato, troppo localista e politicamente corrotto.
L’attuale crisi bancaria è dunque lo specchio dei vizi strutturali dell’economa italiana, per di più accentuata dal perseguimento di una politica miope (del governo Renzi) di sostegno all’offerta produttiva (tramite elargizioni, incentivi, defiscalizzazioni) che hanno come risultato il far perdurare tali vizi (vedi Economia italiana: le contraddizioni del 2015).
Se c’è speculazione (non per solo colpa dei lupi di Wall Street ma delle convenzioni finanziarie dominanti) , essa si innerva su un tessuto produttivo e creditizio assai decotto.
La regolamentazione europea del settore bancario: benzina sul fuoco
Parliamo dunque di un deficit strutturale delle nostre banche i cui nodi solo oggi sono venuti al pettine.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso (comunque già abbondantemente pieno) è stato l’accordo europeo Basilea 3, con l’intento di procedere alla costituzione dell’Unione Bancaria Europea, che, differentemente da quanto si potrebbe pensare, è lungi dall’essere un “unione”. Tale accordo si fonda su tre principi.
La vigilanza sulla banche europee
La vigilanza del settore creditizio viene assunta dalla BCE, che può quindi mandare ispettori e fare controlli sui bilanci delle banche. Ma non di tutte le banche. La Germania ha imposto che la vigilanza della Bce si applicasse solo a quegli istituti con un giro di affari superiore ai 3 miliardi di euro. Tale cifra non è causale: permette infatti che solo 1 (una!) delle oltre 240 Sparkasse tedesche (Casse di risparmio) , mediamente assai piccole ma che erogano circa un quarto dei prestiti tedeschi, non possano essere controllate dagli ispettori di Francoforte. Implicitamente, tale misura potrebbe favorire anche le banche italiane, visto la loro scarsa dimensione. Tuttavia, date le deficienze strutturali del mercato creditizio italiano e la scarsa efficienza (per ragioni politiche?) della vigilanza della Banca d’Italia (a differenza della Bundesbank) , c’è poco da stare allegri, come le recenti vicende borsistiche ci mostrano.
I parametri di ricapitalizzazione e gli stress test
Condizione per partecipare all’Unione Bancaria Europea (pena il crollo dei propri titoli azionari) è il superamento dei cd., stress test relativi agli indici patrimoniali e di ricapitalizzazione. In Italia, Spagna, Grecia e Portogallo – i paesi dell’area mediterranea più colpiti dalle politiche di austerity – molte banche non possiedono i requisiti richiesti. Inoltre, in Italia, la situazione è aggravata – come già ricordato – dall’elevata quota di crediti insolventi (e difficilmente esigibili). La recente lettera inviata da Draghi che mette sotto osservazione alcune banche (il Mps, il Banco Popolare, la Bpm, Bper, Carige e Unicredit e si parla di un allargamento alla Popolare di Sondrio, a Credem e pure San Paolo), oltre a suscitare l’irritazione del ministro Padoan e la ovvia conferma sulla solidità del sistema bancario italiano, mette il dito sulla piaga.
Rimangono solo due alternative: la creazione di una bad bank (ovvero di una banca che raccoglie tutte le sofferenze con la garanzia statale della Cassa Depositi e Prestiti) oppure procedere a fusioni tramite aumenti di capitale. La prima alternativa, nonostante le reiterate richieste di Renzi e Padoan alla BCE, è stata bocciata dalla Commissione Europea in quanto ritenuta un escamotage per dare aiuti di Stato (ora non più possibili, a differenza del passato: vedi oltre). Tale diniego (oltre alla volontà del governo italiano di non partecipare al finanziamento delle politica di gestione dei profughi da parte della Turchia) è all’origine delle recenti polemiche tra Italia e Europa. La seconda, l’unica possibile, favorirebbe un processo di concentrazione bancaria a favore dei poteri forti europei e italiani con il rischio di far saltare il delicato intreccio politico-affaristico tra banche locali e governo (ora leghista, ora renziano) del territorio.
Ci sarebbe una terza possibile alternativa: creare un fondo comune europeo che possa essere utilizzato proprio per potenziare la struttura patrimoniale delle banche più in difficoltà, anche perché operanti nei paesi maggiormente colpite dalla recessione post 2011 (Italia in testa).
Ma, per ora, l’unione bancaria non prevede alcun fondo europeo comune (tra diversi anni forse entrerà in vigore un esiguo fondo di 55 miliardi, pari allo 0,2 per cento del patrimonio complessivo delle banche europeo). Per volere tedesco, non si vuole rescindere il cordone ombelicale che lega i singoli Stati al destino dei loro sistemi bancari: anzi viene addirittura rinsaldato. Un’ulteriore conferma di come la retorica dell’unità europea in realtà nasconda la definizione di precise gerarchie geo-economiche e politiche.
Dal bail-out al bail-in
Il terzo principio riguarda la modifica delle forme di rifinanziamento delle banche in difficoltà, con il passaggio dal bail-out al bail-in.
Con il temine bail-out s’intende l’intervento di salvataggio attuato da un’istituzione pubblica, sia essa lo Stato o la Banca Centrale. Uno dei ruoli delle banche centrali europee è stato, sino a Maastricht, quello di prestatore di ultima stanza (“lender of last resort”). Dopo Maastricht (quindi solo nei paesi dell’euro, esclusi Usa e Regno Unito) , in nome della cd. autonomia (“politica”) della Banca Centrale Europea, tale funzione non è più possibile ed è quindi ricaduta sul bilancio degli Stati, favorendo in tal modo una redistribuzione di reddito che i movimenti di contestazione hanno denominato “from Main Street to Wall Street”: sono cioè le collettività nazionali che si assumono l’onere di salvare i banchieri.
Dal 2008 a oggi, tali salvataggi bail-out sono stati numerosi. Come ci ricorda Ugo Marani, a iniziare le danze sono le banche anglosassoni. LaNorthern Rock, a fine 2008, beneficia di una linea di finanziamento e di garanzia di circa 27 miliardi di sterline concessa congiuntamente dallaBank of England e dal Tesoro. La Royal Bank of Scotland, nel medesimo periodo, gode di due sottoscrizioni di capitale dal governo inglese: la prima di venti miliardi di sterline, con una partecipazione al capitale ordinario del 63%; la seconda di 13 miliardi. Dal bilancio del 2011 della banca si rileva che l’ammontare garantito dallo Stato è pari a 131,8 miliardi di sterline. Ancora in Gran Bretagna: il Lloyds Bank Group riceve dallo stato una sottoscrizione di capitale pari a circa venti miliardi di sterline, pari al 44% delle azioni ordinarie della nuova banca nata dalla fusione tra Lloyds e Halifax Bank of Scotland. I governi di Germania e Spagna, successivamente, non sono da meno dei colleghi britannici: gli aumenti di capitale sottoscritti con fondi pubblici, solo a ricordarne taluni, riguardano il Banco Fin. De Ahorros (23 mlrd), la Commerzbank(18.2), la Bayerische Landesbank (10.5), la Landesbanken Baden-Wurtenberg (5.0) e poi la Dexia in Belgio (10.5), l’ING Group (10.0) e la ABN AMRO Group (3.3), la BNP Paribas (7.6) e la Société Géneral (3.4) in Francia. Quando si tratta di salvare il sistema del credito, i governi europei riscontrano una unità di intenti che mai si era vista.
Secondo i dati R&S Mediobanca, 2015, l’Europa stanzia complessivamente un ammontare netto di interventi, sotto forma di (ri)capitalizzazione, di garanzie e di linee di credito e/o di oltre mille miliardi di euro. Di questi, oltre 253 erano stati destinati a banche spagnole, 156 a istituzioni britanniche, 110 a quelle irlandesi e oltre 80 a quelle tedesche e italiane. Un trasferimento finanziario che non ha riscontri con la storia del nostro continente: la Commissione Europea stima che dall’inizio della crisi i paesi comunitari siano intervenuti a favore di 112 istituzioni bancarie nazionali.
Questa la cronaca degli aiuti di Stato nei tempi del trionfo del liberismo e dell’austerity. Ogni commento è superfluo.
E arriviamo all’oggi
Ricapitolando. L’Europa del liberismo e dell’austerity ha permesso che gli Stati nazionali si accollassero i debiti delle banche per tutto il periodo della crisi, non potendo contare sul supporto della BCE (come è successo invece per gli Usa e la Gran Bretagna). Ora decide, in nome dell’Unione Bancaria Europea, che il risanamento in caso di crisi debba essere a carico degli azionisti e dei conto correnti con più 100.000 euro depositati.
La BCE, per bocca di Draghi, dichiara che, in ogni caso, potenzierà le politiche di Quantitative Easing a vantaggio delle stesse banche. Insomma, rientra dalla finestra quel che è uscito dalla porta. Ciò che rimane è, di fatto, l’incentivo a favorire scalate e concentrazioni bancarie, agevolate anche dal calo dei listini azionari.
Ed è su questa prospettiva che ripartirà un nuovo risiko bancario in Italia. Di questo ci occuperemo nella prossima puntata.

Questa è la prima parte di una mini-inchiesta sullo stato del sistema bancario italiano. In questo scritto ci limitiamo a descrivere il contesto macro e europeo in cui sono maturate le recenti dinamiche speculative che hanno investito alcune banche italiane. Non è un caso che ciò avvenga a inizio anno, dopo che il 1 gennaio 2016 è entrato in vigore il nuovo regolamento bancario denominato Basilea 3, ultimo step per la costituzione dell’Unione Bancaria Europea, più fittizia che reale (come vedremo).
Nella seconda parte, grazie all’analisi ora svolta, ci focalizzeremo più in particolare sul microcosmo italiano delle banche locali: un intreccio politico affaristico all’interno dei quali agiscono processi di espropriazione e di distribuzione che, pur differenti, non hanno nulla da invidiare a quelli più noti delle politiche di austerity a livello macro.

Fonte: commonware.org

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