di Manuela Gandini
«Per esempio, vedo un cane che piscia a un lampione, non è quello che devo rappresentare, ma quello che passa per la testa del cane in quel momento», dice Renato Ranaldi (Firenze 1941) a Bruno Corà nella monografia Bilico e Fuoriquadro senza sconti (Mudima ed.) pubblicata per la sua personale, trasversale e incomoda, in corso alla Fondazione Mudima di Milano. Rappresentare il pensiero del cane è operazione fallimentare. «Mi resi conto – continua l’artista – che per essere considerato, avrei dovuto mettere in pericolo quello che facevo. Non si trattava di un pericolo che ti fa abbandonare un seminato linguistico per invaderne un altro, ma una vera e propria precarietà fisica […] prendevo una piccola scultura di creta e la mettevo in bilico sul pomello di una sedia, allora tutti la guardavano».
L’immersione nell’universo dell’artista toscano – con assonanze new dada, poveriste e fluxus – è un’esperienza di spiazzamento e rallegramento. Le installazioni a parete delineano percorsi a vuoto tracciati da bastoni da passeggio che diventano rami e incrociano oggetti metallici ritornando su se stessi a creare paradossi. Tubi idraulici, cucchiaini, legnetti, gesso, formano, uno dopo l’altro, i tracciati incomprensibili dell’artista perché «una cosa è una cosa ma anche un’altra cosa». Due enormi tele bianche accostate, che si toccano nella parte inferiore e si divaricano in quella superiore, unite soltanto da un impasto secco di colore, sono intitolateContenzioso. Il lavoro è come un koan, una storiella zen di quelle insolubili che i maestri somministrano ai discepoli per cercare il vuoto. Ranaldi, dominato da un caustico sense of humour, gioca sul linguaggio contorcendolo e solletica la semantica in relazione alla forma. Sbeffeggia i concetti che adopera e lavora sulla materia primaria dell’arte: il telaio, la tela, il colore, la struttura mentale dell’artista e l’impossibilità di una meta. Ranaldi non rappresenta, evoca e gioca; gioca all’infinito nella noia che da sempre lo accompagna, quella che avverte camminando: la Noia Madredel luogo, generatrice del suo spleen.
«Sogno barboni che coi soldi si nettano il sedere, e ragazze a Roma che la sollazzano e poi se leccano le deta». Crisi permanente, precarietà, pericolo sono gli elementi della sua copiosissima produzione creativa atta a contaminare le forme di vita ordinarie del quotidiano. Ogni opera – come la bottiglia di vetro sullo spigolo della sedia o la catena della bicicletta incrostata di pece – contiene le dinamiche fisiche dell’instabilità della vita sul pianeta. «Vorrei capire quello che l’opera d’arte mi tace», dice. Da qui nascono i «Fuoriquadro»: tele bianche con colori secchi attaccati ai bordi che tentano di entrare o uscire dalla centralità dell’opera.
È chiaro che l’arte è irrappresentabile, non è altro che il surrogato di un’idea, la maschera, il vestito dell’indicibile. La grammatica ranaldiana è fatta di sbordature. Il lavoro è aniconico, contempla il vuoto e la monotonia del ciclo vita-morte-vita. Sperimentatore, autore di film come Senilix (1968), Ranaldi ha fatto parte del gruppo Teatro Musicale Integrale (1967-69) con Giuseppe Chiari, Adolfo Natalini, Ketty La Rocca, Eugenio Miccini, Gianni Pettena, Roberto Barni e Sandro Chia. Ha vissuto, con un po’ di distacco, il sogno utopico degli anni Settanta di comuni e conventicole tendenti al Nirvana. È stato parte attiva della scena interdisciplinare sperimentale ma, a differenza di altri, non è penetrato nell’ufficialità del mercato. Non si è mai sclerotizzato nella ripetitività di uno stile, pagandone le conseguenze. Musica, teatro, video, performance, sbronze, installazioni, racconti, impastati a materiali quali zinco, ottone, rame, legni, costruiscono il mondo di questo impenitente artista toscano e della sua generazione.
C’è un’opera del 2015 che s’intitola Qual è il Fuoriquadro. Una grande tela bianca è affiancata a una tela più piccola dipinta da Ottone Rosai che rappresenta un quartierino. Entrambe sono legate da un filo di rame. Questa è la sintesi di una poesia estrema.
Fonte: Alfabeta2
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