La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 6 ottobre 2016

L'Europa non è riformabile con la Renzinomics

di Guglielmo Forges Davanzati 
Il recente vertice di Bratislava sul futuro assetto dell’Unione europea sembrerebbe, dato l’esito molto negativo del risultato, dar ragione agli euroscettici e, in particolare, ai sostenitori della fuoriuscita unilaterale dell’Italia dall’area euro. Si tratta di un’ipotesi coltivata, negli ultimi anni, da non pochi economisti, che torna in auge in ogni momento di riacutizzazione dei problemi interni all’Unione e sulla quale occorre sgombrare il campo da alcune ipotesi assai discutibili sulla quale si basa. Andiamo per ordine.
1.Si sostiene che il recupero della sovranità monetaria consentirebbe l’attuazione di politiche fiscali espansive, impedite dagli accordi europei sui vincoli all’espansione del deficit e del debito pubblico. Falso. L’Italia ha perso la sua sovranità monetaria con il c.d. divorzio fra Tesoro e banca d’Italia del 1981, voluto da Nino Andreatta e da Carlo Azeglio Ciampi. Da quell’anno, del tutto indipendentemente dai vincoli europei, non è consentito alla Banca d’Italia l’acquisito di titoli del debito pubblico (la c.d. monetizzazione del debito) e, dunque, la spesa pubblica può essere finanziata via tassazione o emissione di titoli di Stato sui mercati azionari, non più “stampando moneta”. 
2.Si sostiene che la fuoriuscita unilaterale dall’euro consentirebbe all’Italia di recuperare un percorso di crescita trainato dalle esportazioni mediante la svalutazione della lira. Falso, anche in questo caso. Le svalutazioni, nel caso italiano, hanno sempre generato effetti perversi. In primo luogo, perché hanno consentito alle nostre imprese di far profitti non innovando. Ed è questo uno dei principali fattori che hanno determinato il drammatico calo del tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia, da almeno un ventennio. In secondo luogo, in un’economia dualistica nella quale le imprese esportatrici sono quasi esclusivamente localizzate nel Nord del Paese, le svalutazioni hanno significativamente contribuito ad accentuare i divari regionali. A ciò si può aggiungere che l’exit italiano non potrebbe che associarsi all’adozione di misure protezionistiche e che queste sarebbero estremamente dannose per le nostre imprese in un contesto nel quale le c.d. catene internazionali del valore rivestono un ruolo sempre più importante per la crescita economica (si tratta in sostanza di forme di delocalizzazione di piccole unità produttive specializzate nella produzione di beni intermedi che circolano nello spazio europeo e che sono acquistate dalle imprese produttrici di beni finali). La gran parte delle imprese italiane sopravvive grazie a rapporti di subfornitura di prodotti intermedi alle imprese localizzate nel centro del continente. Eventuali misure protezionistiche ne decreterebbero il fallimento. 
3. Si sostiene infine che l’Europa è irriformabile e che, su questa premessa, i benefici dell’uscita sarebbero certamente superiori ai costi della permanenza. Falso o comunque tutto da dimostrare. In primo luogo, l’Unione europea ha subìto, nel corso della crisi, numerosi e importanti cambiamenti. Rilevante in tal senso il programma di acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari voluto dalla BCE di Draghi: il cosiddetto quantitative easing, assolutamente inimmaginabile da quando l’Unione Monetaria è stata costituita. In secondo luogo, non è mai esistita una unione monetaria delle dimensioni di quella attualmente esistente in Europa e di norma le ‘piccole’ unioni monetarie del passato si sono dissolte tramite accordo fra i Paesi membri: mai con abbandoni unilaterali.
Infine, i sostenitori dell’abbandono dell’euro incorrono in un cortocircuito logico, quando provano a motivare politicamente questa scelta. Il loro argomento, tipico di una certa sinistra politica italiana, è che poiché le politiche europee sono di destra, le politiche nazionali post-euro sarebbero necessariamente di sinistra. Qui siamo nella sfera delle speranze o delle utopie. Come è noto, escluse alcune ambiguità del Movimento 5stelle sul tema, la sola forza politica che esplicitamente vuole l’abbandono dell’euro è la Lega Nord. Si può realisticamente immaginare che la gestione dell’exit da parte dell’Italia si associ a non meglio definite politiche ‘di sinistra’ laddove a gestire l’eventuale transizione sarebbe il partito più a Destra nell’attuale schieramento politico? 
Sia chiaro che il progetto di unificazione europea è a dir poco imperfetto e che ben pochi sarebbero disposti a difenderlo per come si è venuto configurando. L’Unione europea è tutt’altro che un’area monetaria ottimale e resta un puzzle capire come non sia ancora implosa. Ciò detto, ci sembra di poter condividere la tesi, o profezia, di George Soros, uno dei massimi speculatori sulla scena internazionale, per la quale se l’Unione morirà lo dovrà alla Germania. Quando l’economia tedesca non avrà più bisogno, come mercato di sbocco, del resto dell’Unione è probabile che troverà conveniente decretare la fine dell’esperimento. In tal senso, non ci sembra che l’insistenza del nostro Presidente del Consiglio sulla maggiore flessibilità nella gestione dei conti pubblici – tema ‘caldo’ nel recente vertice di Bratislava – sia risolutivo: il potere politico dell’Italia nel continente è ancora ai minimi termini e, in queste condizioni, fare la “voce grossa” nella migliore delle ipotesi è inutile; nella peggiore delle ipotesi può generare il sospetto che le risorse addizionali (di cui, beninteso, l’Italia avrebbe bisogno) verranno destinate a elargire mance: il provvedimento sugli 80 euro in busta paga e lo spreco degli sgravi fiscali del Jobs Act – senza alcuna ricaduta su occupazione e crescita – alimentano questo timore.

Articolo pubblicato sul Nuovo Quotidiano di Puglia il 6 ottobre 2016

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