La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 29 aprile 2017

La volontà di negare: norme di genere e stereotipi di genere

di Federico Zappino e Deborah Ardilli 
«È una verità universalmente riconosciuta che un uomo scapolo e ricco debba essere in cerca di una moglie», recita con ironica magniloquenza la voce narrante di Orgoglio e pregiudizio. Si tratta di un enunciato che sintetizza in modo fedele ed efficace la norma che lo svolgimento del romanzo si incarica poi di confermare – Mr. Darcy trova in effetti Elizabeth Bennet, e la sposa. Eppure, la provocatoria pertinenza sociale esemplificata dall’incipit austeniano avrebbe oggi scarse possibilità di sopravvivere allo zelo censorio a cui la denuncia degli stereotipi di genere ci ha ormai abituate.
«Non è vero che tutti gli scapoli ricchi sono in cerca di una moglie! Esistono gli scapoli che sono in cerca di un marito, ad esempio, gli scapoli poliamoristi, gli scapoli asessuali, e in ogni caso è pieno di scapoli poveri, e che non hanno alcuna intenzione di sposarsi!»: questa l’obiezione che possiamo attenderci da chi, scambiando per descrittive proposizioni il cui obiettivo mira invece a essere normativo, ne rigetta il contenuto in nome di registrazioni più accurate della varietà del reale. Simili obiezioni, tuttavia, mancano puntualmente il bersaglio. Se la lotta agli stereotipi di genere, intesi come rappresentazioni caricaturali, distorte o riduttive di ciò che nella “realtà” è più complesso, plurale o articolato, sostituisce una lotta più radicale contro le norme di genere spesso fedelmente riprodotte da ciò che viene definito “stereotipo”, allora la lotta agli stereotipi diventa ancillare al consolidamento delle norme di genere stesse. L’obiettivo di questo articolo consiste nella critica della lotta agli stereotipi di genere: consideriamo questa “lotta” un serio ostacolo a una più ampia e precisa lotta contro le norme di genere e la matrice da cui tali norme dipendono, che è la matrice eterosessuale.
Un buon esempio dei limiti della lotta contro gli stereotipi ci è offerto dalla recente diffusione delle immagini promozionali per il vertice G7 di Taormina. Tra queste, una ha suscitato particolare indignazione: si tratta dell’immagine inserita nell’applicazione mobile destinata ai giornalisti stranieri che associa senza mediazione la Sicilia allo sguardo predatorio di un ragazzo con la coppola e con la sigaretta tra le labbra indirizzato a una ragazza che, col sorriso malizioso e la coda dell’occhio rivolta al pretendente, si rifugia sotto un parasole. Se c’è uno stereotipo che questa rappresentazione di corteggiamento alla luce del sole (in senso letterale e figurato) tra un uomo e una donna cisgenere veicola, è che la norma eterosessuale sia una peculiarità di Taormina. Altri stereotipi ci sembra, francamente, di non vederne. Certo: non tutte le ragazze e non tutti i ragazzi cisgenere ed eterosessuali indossano cappelli, o fumano, o si corteggiano in mezzo alla strada – ad esempio, talvolta capita che le persone eterocis non dimostrino in pubblico i propri sentimenti, per una precisa scelta di rifiutare il privilegio loro accordato dall’organizzazione eteronormata dello spazio pubblico. D’altronde, potrebbero mai le persone eterocis rinunciare liberamente al proprio “diritto di apparizione” se la facoltà di esercitare quel diritto non fosse loro preliminarmente garantita dalle norme differenziali che regolano l’accesso allo spazio equivocamente definito “pubblico” (cfr. Judith Butler, L’alleanza dei corpi, 2017)? Il fatto che alcune persone eterocis scelgano di non ostentare i propri sentimenti in pubblico, non costituisce forse l’indicatore più eloquente dell’esistenza delle norme di discrezione e delle misure di prudenza imposte a chi non può mostrarsi pubblicamente senza incorrere in una qualche forma di sanzione – più o meno interiorizzata, più o meno grave, e spesso molto grave? Di solito, nessun militare interviene a interrompere un uomo e una donna eterocis che si baciano all’angolo di una piazza, com’è successo invece qualche giorno fa a due ragazze di Napoli – ed è solo l’ultimo caso di una lunghissima serie. Con ciò non intendiamo affatto negare che l’intento iper-rappresentativo dell’immagine promozionale del G7 di Taormina non fallisca, se valutato in base a criteri di stretta quantificazione numerica. Quello che ci preme sottolineare, piuttosto, è che la ricognizione della realtà sociale del genere effettuata in base a criteri di stretta quantificazione numerica pecca di astrazione: questi desideri di censimento restano infatti ciechi alla differenza tra maggioranze egemoni e minoranze subalterne, nonché alla differenza che esiste tra la “norma” e la “totalità”. Si può forse sensatamente sostenere che la raffigurazione del desiderio di essere riconosciuti come veri uomini e vere donne, gli uni destinati alle altre, sia stereotipata? Si può forse sensatamente sostenere che si tratti di uno stereotipo che falsifica la norma sociale, o che pregiudica l’intelligenza del suo funzionamento? 
Un altro esempio, al riguardo, può essere eloquente. Alcuni giorni fa, la candidata alle elezioni bavaresi del 2018, Ilse Aigner, si è lamentata, dalle colonne del quotidiano tedesco “Spiegel”, del pregiudizio stigmatizzante di cui sono vittime le donne single: «È stata messa in giro la voce che io sia lesbica, il che è completamente assurdo e mi fa arrabbiare. Non lo sono!». Nell’ordine discorsivo dominante, il pregiudizio opera in modo simile allo stereotipo. Anche in questo caso si tratta di una rappresentazione sommaria, non suffragata fattualmente, o addirittura scientificamente, e potenzialmente offensiva. Se l’esempio in questione è eloquente, è perché mostra in modo efficace che la lotta ai pregiudizi non necessariamente prevede la rimozione, e nemmeno la relativizzazione, della norma egemonica dal campo delle rappresentazioni socialmente appropriate. Al contrario: la norma deve essere esplicitamente evocata per scongiurare il rischio che una modalità non del tutto conforme a essa di impersonare il genere (essere donne candidate alle elezioni e senza marito da presentare, eventualmente, agli altri capi di stato e di governo e loro consorti) venga fraintesa con un’infrazione giudicata, neanche troppo velatamente, disonorevole – per quanto siamo anche pronte a scommettere che la candidata in questione si dichiari anti-omolesbotransfobica, come molti altri leader politici, da Theresa May ad Angela Merkel a Matteo Renzi. Ciò significa dunque che la lotta al pregiudizio mira a contrastare il senso comune (“tutte le donne single non possono che essere lesbiche”) attraverso l’affermazione di una verità fattuale che necessita di agganciarsi proprio al senso comune per potersi affermare (“dire che tutte le donne single non possono che essere lesbiche è un insulto”). È l’insulto alla verità di fatto custodita dal caso particolare o il rischio di passare attraverso un’identificazione comunemente ritenuta proibita a suscitare inquietudine, o panico, e a motivare la necessità di “denunciare lo stereotipo”? Se la seconda ipotesi ci sembra cogliere nel segno, è perché non cessiamo di verificarne la consistenza ogniqualvolta la lotta agli stereotipi, o ai pregiudizi, prende a oggetto il mondo dell’infanzia – e, più in generale, il terreno della riproduzione sociale, dell’educazione, della socializzazione. Quante volte siamo state testimoni di un’illuminata disponibilità a una versione da rotocalco del gender trouble, consistente nel concedere ai maschi di giocare con le bambole e alle bambine di travestirsi da Zorro, a carnevale, con la giustificazione che nessuno di questi sconfinamenti potrebbe, o dovrebbe, seriamente compromettere la destinazione eterosessuale e l’acquisizione della giusta identità sociale, ossia dell’identità cisgenere? E che dire, sempre a proposito di versioni banalizzate del gender trouble, di quella riabilitazione strategica della vulnerabilità affidata alla valorizzazione delle «lacrime sacre del maschio eterosessuale»? Resta sempre poco chiaro, in effetti, in che senso la legittimazione di «livelli straordinariamente alti di autocommiserazione eterosessuale maschile» — opportunamente sottolineati a suo tempo da Eve Kosofsky Sedgwick, in Stanze private (2011; ed. or. 1990) — dovrebbe costituire un assalto mortale alla norma. Ci è perfettamente chiara, in compenso, la clamorosa mistificazione legata alla decostruzione dello stereotipo maschile: essa contribuisce infatti ad alimentare la falsa impressione di un posizionamento simmetrico rispetto alle norme di genere. Se, come suggeriscono i tanti appelli alla “maschilità fragile”, le costrizioni di genere pesano indistintamente su tutt*, se ne nessuno beneficia di oggettive posizioni di privilegio, che senso avrebbe continuare a far riferimento alla divisione tra dominanti e dominat*, tra egemoni e subaltern*? Che senso avrebbe politicizzare quella divisione inscritta nella struttura dei rapporti sociali? O forse la lotta agli stereotipi serve precisamente a spoliticizzarla e, di conseguenza, a rafforzarne la necessità?
Per come la osserviamo, la fallacia insita nella diffusa disponibilità a considerare la denuncia degli stereotipi la via maestra della critica delle norme di genere si articola in due momenti: la mancata denaturalizzazione della norma eterosessuale e il misconoscimento della funzione oggettivamente svolta dall’ideologia. Come abbiamo visto, se c’è qualcosa da imputare alla circolazione degli stereotipi di genere, non si tratta della riproduzione arbitraria di credenze cognitivamente “errate”, o moralmente “biasimabili”, o storicamente “residuali”. Tutto ciò, infatti, impedisce di cogliere la funzione di razionalizzazione e legittimazione che gli stereotipi svolgono al servizio dei rapporti materiali normali di dominio.
La nostra posizione è che occorra soffermarsi con più precisione sulle ipoteche idealistiche e naturalistiche – le prime figlie delle seconde – che gravano sulla lotta agli stereotipi. In primo luogo, per questa “lotta” è fondamentale (continuare a) dissociare sesso e genere. Di conseguenza, resta del tutto sorda ai passi compiuti dal pensiero femminista e da quello queer, spesso in modi convergenti, per pensare l’intelligibilità della materialità sessualmente qualificata dei corpi come risultato dell’organizzazione sociale; a quelli per intendere il genere come rapporto sociale antagonistico tra un polo subalterno e un polo egemone; e a quelli per nominare, di conseguenza, il versante “sacrificale”, come l’abbiamo definito altrove, della norma eterosessuale, che distribuisce in maniera differenziale privilegi e costi della soggettivazione di genere.
La lotta contro gli stereotipi necessita di prendere le mosse dalla ripartizione del “quadrante” umano tra una sfera materiale a dominante biologica, circoscritta discorsivamente (senza che ci si avveda della contraddizione in atto) come luogo pre-sociale della divisione binaria e complementare maschio/femmina, e una sfera a dominante culturale entro cui si svolge il processo sociale di acquisizione dell’identità e di codificazione normativa dei ruoli sessuali. Da tale schema discende che alla “differenza sessuale” spettano i tratti di costanza e inemendabilità associati alla “natura”, mentre al “genere” competono quelli di variabilità e flessibilità associati alla “cultura”. In quest’ottica, il genere come “cultura” viene a configurarsi come lo spazio ideale degli “infiniti” modi di interpretare la mascolinità e la femminilità. Il genere come “cultura” diventa dunque la sovrastruttura di nessuna struttura sociale, bensì di una differenza sessuale tirata fuori dalla storia e dalla politica, lasciandosi alla spalle la materialità dei rapporti di dominio determinati proprio dalla storia e dalla politica della differenza sessuale. Che cosa significa, dopotutto, ascrivere la materialità del sesso all’ordine pre-sociale della differenza biologica, se non tenere in vita il presupposto di una sessualità naturalmente eterosessuale e naturalmente riproduttiva? E che cosa significa attribuire alla cultura il compito di separare ciò che si presume naturalmente unito, se non cancellare la politica necessaria a costruire quella differenza gerarchica e complementare, e a consolidarne l’apparente naturalezza? Non per caso, Gayle Rubin o Adrienne Rich hanno parlato di “eterosessualità obbligatoria” e Monique Wittig dell’eterosessualità come di un “regime politico”. Soltanto in seno a questa scissione tra sesso e genere, il genere come “cultura” può indurci a pensare che donne e uomini esistano come libere fluttuazioni antropologiche, come “percezioni individuali” e “identità”, indipendentemente dalla gerarchia sociale – regolata dalla matrice eterosessuale – che subordina il primo gruppo al secondo e mette fuori gioco, o include in modo condizionale e diseguale, le soggettività non cisgenere e non eterosessuali. 
Questa scissione, che con un doppio movimento forclude e rinsalda la matrice eterosessuale, non potrebbe imporsi con successo se a sostenerla non intervenisse una diffusa riluttanza a leggere, nelle “differenze”, le “disuguaglianze” (cfr. Federico Zappino, Matrice eterosessuale e critica del discorso post-genere, in “Effimera”, 19 novembre 2016). Per quanto difficile possa essere, riteniamo che occorra abbandonare l’idea che pronunciare la parola “differenze” possa svolgere una funzione taumaturgica sulle gerarchie. Al contrario, si tratta di un eufemismo che, volontariamente o meno, costruisce un’apparente simmetria tra posizioni di genere gerarchiche, occultandole. E, ci permettiamo di aggiungere, dovremmo definitivamente riconoscere nei tanti propositi pedagogici di educazione alle differenze un afflato reazionario, forse inconsapevole, ma fatto tuttavia passare per rivoluzionario. A quali altre differenze dovremmo educarci, ci chiediamo? Non siamo già sufficientemente educati al regime binario ed eterosessuale dei generi? Quanto dobbiamo aspettare, ancora, per una dis-educazione alle differenze di genere? Evidentemente non è abbastanza chiaro che le diseguaglianze e le gerarchie di genere si devono proprio al lavoro di differenziazione incessantemente svolto dalla matrice eterosessuale. Ma è ora che questo diventi più chiaro: non c’è nulla di trasformativo in un’azione pedagogica che insegna a rispettare l’esistenza fenomenica di differenze di genere evitando rispettosamente di auspicare la sovversione di ciò che le produce, in modi che sono e restano indisgiungibili dalle diseguaglianze. Che cosa dovremmo trovare di desiderabile in un progetto che educa all’esistenza fenomenica di persone queer e trans, proprio nel luogo in cui quelle persone, di norma, non saranno mai le loro insegnanti? Con quale ingenuità – se di ingenuità si tratta – si può pensare che progetti formativi annunciati come rivoluzionari possano rientrare nei piani di offerta formativa delle istituzioni che attivamente ri-producono le gerarchie di genere (cfr. Marcella Farioli, A cosa servono le donne nella scuola italiana?, in “Nazione Indiana”, 14 febbraio 2016)? Quando per esempio leggiamo, in relazione al recente caso della docente trans e precaria allontanata da una scuola di Vicenza, che solo l’attuazione di politiche capaci di “tener conto delle differenze” può mettere fine alle discriminazioni, come può passare inosservato che l’allontanamento in questione è scattato non per un difetto, ma per un eccesso di attenzione a differenze ben determinate?
Il rischio sempre in agguato, ovviamente, è che le minoranze di genere e sessuali inizino a invocare come panacea di tutti i mali la cosiddetta “neutralità” dello stato di diritto liberaldemocratico, ossia quel principio per cui la legge dovrebbe essere “cieca” di fronte alle differenze, al fine di garantire imparzialità e giustizia. Principio giuridico condivisibile, idealmente, ma del tutto inutile, alla prova dei fatti, a modificare anche solo di una virgola i rapporti di forza di un ordine sociale – di cui la legge è sempre il prodotto – in cui le differenze sono in realtà gerarchie. Dobbiamo sforzarci di trovare, pertanto, un modo di risolvere questa aporia affinché la lotta contro le gerarchie e le diseguaglianze di genere indotte della matrice eterosessuale non si risolva né nella lotta contro gli stereotipi e nell’educazione alle differenze, né nella legittimazione dei presupposti venduti come infallibili e necessari – e in realtà conniventi con le gerarchie – dell’ideologia liberale e, di conseguenza, di quella neo-liberale. D’altronde, ci sarebbe da chiedersi quanto sia debitrice proprio di questa ideologia – per la quale il rapporto sociale è un contratto volontariamente stipulato tra soggetti presuntamente uguali e liberi – ciò che la critica della lotta agli stereotipi che abbiamo qui delineato ci autorizza a definire nei termini di “nominalismo radicale”: ossia, la polverizzazione dei processi materiali di categorizzazione e riproduzione delle gerarchie di genere e sessuali in una miriade di casi particolari, di “singolarità” ritenute per definizione inclassificabili in quanto esposte a un grado di “indeterminazione”, o “complessità”, sufficientemente ampio e flessibile – “whatever” – da permettere all’immediatezza delle interazioni personali di trionfare sulla corposa mediazione esercitata dalle matrici di produzione e riproduzione, non solo ideologica, dell’eterosessualità.
Infatti, la scommessa su margini di manovra e di autonomia individuale talmente ampi da indurre a rigettare con sospetto, e a liquidare come schematizzazione grossolana, ogni riferimento alla preminenza della mediazione della norma urta frontalmente contro alcuni dati di esperienza. Ad esempio, come spiegare il fatto che, a dispetto di una “evoluzione” delle norme culturali di genere tale da consentire una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro remunerato (tralasciamo qui a quali condizioni), il peso dei compiti di riproduzione in contesti di coabitazione eterosessuale pesi ancora sproporzionatamente sulle loro spalle e consenta di individuare nel gruppo sociale degli uomini il primo beneficiario di questa estorsione di lavoro (come sostiene tutt’oggi Christine Delphy, Pour une théorie générale de l’exploitation, 2015, in part. pp. 19-63)? Come spiegare il perdurare di questo differenziale di potere all’interno di una relazione che non ha l’apparenza della costrizione, ma che anzi si presenta e si legittima come accordo volontario tra persone libere e uguali? E, se volessimo fare altri esempi, come spiegare il fatto che lo stupro continui a essere tale in quanto esercitato dal gruppo sociale degli uomini contro quello delle donne, o che le persone queer o trans siano esposte a livelli spropositati di violenza esplicita ed epistemica, psichica e corporea, pubblica e privata? A tali domande, i militanti della lotta contro gli stereotipi risponderebbero forse facendo notare che esistono, e senz’altro esistono, casi di coabitazione eterosessuale in cui i compiti di riproduzione sono svolti interamente dagli uomini, o casi di molestia o violenza, non solo sessuale, agita dalle donne o dalle persone queer e trans a tutto danno degli uomini eterosessuali. E forse ci farebbero notare che esistono anche casi di violenza perpetrata dai neri sui bianchi, o dai poveri contro i ricchi. E che dire della violenza che vige all’interno delle coppie lesbiche, autentico trend del momento? E perché non menzionare quei casi in cui i detenuti manicomiali rincorrevano – con molta violenza, minacciando talvolta di ucciderli – gli psichiatri che volevano legarli ai letti con le cinghie di contenzione? La violenza è un fenomeno di questo mondo, certo. Tuttavia, essendo questo mondo, così com’è, strutturato da differenziali di potere ben specifici, che sono essi stessi violenti, non ci sorprende che le minoranze la riproducano, o che reagiscano con la violenza alla violenza esperita. Vi sono ottime argomentazioni filosofiche da avanzare contro la riproduzione della violenza da parte delle minoranze, e in favore della nonviolenza. Il fiato da dare a tali argomentazioni, tuttavia, dovrebbe essere quello che resta di quello speso per gridare senza mezzi termini la violenza quotidiana e normale differenzialmente subita dalle minoranze. In alternativa, si sta dando fiato alla tutela di uno status quo violento, al quale i destinatari della violenza dovrebbero reagire in maniera nonviolenta. Definiamo questa posizione “difesa del privilegio”.
Abbiamo illustrato le conseguenze contro-intuitive dovute alla propensione a descrivere e a squalificare come “distorsione” ogni forma di mera “rappresentazione” della norma. La radicalizzazione della denuncia dello stereotipo o del pregiudizio spinta fino al punto di definire “irrealtà” la spazializzazione dell’eteronormatività, a cui la rappresentazione si riferisce, segna forse il punto di massima condensazione idealistica di uno stile di indagine critica che nega l’esistenza di ciò che ne legittimerebbe l’esistenza, pur di tener ferma la più irrinunciabile delle sue premesse: la forza inerte del pregiudizio, dello stereotipo – del bias, dell’ignoranza, del retaggio, e potremmo continuare con altri quasi-sinonimi – come unica motivazione idonea a spiegare la mancata coincidenza tra l’idealità di ciò che si suppone che sia e la realtà di ciò che è.
Se non è difficile cogliere il vizio che anima la pretesa di assegnare allo stereotipo o al pregiudizio di genere funzioni esplicative più onerose di quelle che possa effettivamente sostenere, più raro, invece, è vedere l’attenzione generale soffermarsi sul dubbio privilegio di cui beneficia il genere, rispetto ad altri dispositivi di potere, in quanto oggetto di critica. In effetti, non abbiamo difficoltà a immaginare l’alone di ridicolo da cui saremmo comprensibilmente sommerse qualora sostenessimo che la subalternità economica e sociale dei lavoratori salariati – e a maggior ragione di quelli non salariati, nelle odierne forme di neoschiavismo – dipenda dalla persistenza di “stereotipi di classe” da sradicare con una rispettosa e stucchevole iniziativa pedagogica indirizzata all’attenzione di chi, magari addirittura inconsapevolmente, detiene le leve dello sfruttamento. In altre parole: non abbiamo difficoltà a immaginare che saremmo coperte di ridicolo qualora ci azzardassimo a dire che la relazione tra lo sfruttato e lo sfruttatore è naturale e necessaria, e che, di conseguenza, tutto ciò che possiamo sperare è che lo sfruttatore attenui la sorda e cieca brutalità della natura e della necessità con la gentilezza e l’empatia nei confronti dello sfruttato, e che trovi un modo alternativo o minoritario di essere un buon sfruttatore. Sappiamo bene che non esiste alcun correttivo a questa relazione al di fuori della sua sovversione. Quello che invece fatichiamo a capire è per quale motivo la stessa reazione non investa il discorso relativo agli stereotipi di genere, dal momento che si fonda sulla stessa, identica, fallacia.
Si tratta di un problema molto serio, se pensato in chiave di alleanze e di intersezionalità delle lotte. Infatti, la rinuncia a pensare il genere come rapporto antagonistico di forza costituisce spesso la cifra di posizionamenti politico-economici anti-capitalistici in grado di contemplare la questione del genere esclusivamente in forza di un correttivo liberale (un paradossale comu-liberalismo), anziché di un posizionamento politico-economico anti-eteronormativo. E c’è una differenza tra le due cose. Per i posizionamenti comu-liberali, l’unico beneficiario dell’oppressione delle donne e delle soggettività non eterosessuali e non cisgenere – che si tratti di sfruttamento del lavoro riproduttivo, di inclusione differenziale e condizionale, o di esclusione violenta –, resta il capitalismo, in tutte le sue versioni più o meno contemporanee: nessuna contraddizione è percepita in seno al sistema eterosessuale del genere. Questo discorso permette dunque di dimenticare – o di aggirare – che il punto non è quello di far rientrare nella lotta anticapitalistica, e spesso con forti mal di pancia, la lotta per una generica libertà delle donne e delle persone non eterosessuali e non cisgenere “di essere ciò che vogliono e di fare ciò che vogliono”, o di essere “libere dalla violenza”, ma quello di sovvertire il sistema stesso di ri-produzione eterosessuale del genere che accorda ad alcuni il privilegio di scegliere se lottare o meno per la libertà altrui, a favore dell’inclusione altrui, o contro l’esposizione alla violenza altrui. È proprio da quel privilegio, infatti, che dipende l’abiezione altrui. Il privilegio è tale in quanto dipende dall’abiezione di altri, e fuori da questa dipendenza – che non è solo “relazionale”, ma è innanzitutto di una relazionalità “gerarchica” – non ci sarebbe alcun privilegio, né alcuna abiezione. Là dove il sistema eterosessuale del genere cessa di costituire un asse autonomo di produzione di privilegi e abiezioni, tanto culturali quanto materiali ed economici, la violenza di genere è declassata o a effetto collaterale di altri dispositivi di potere, in modalità che negano la specifica realtà dell’oppressione, o, appunto, a un insieme residuale di stereotipi e pregiudizi individuali, da combattere.
Come si spiega questa propensione a ridurre i conflitti “che contano” – quelli “veramente” degni di sollecitare tutto il nostro impegno intellettuale e militante – ad antagonismi sociali tra gruppi rivali di maschi eterosessuali? Sarà forse che di tutte le relazioni sociali contrassegnate dal dominio, dallo sfruttamento e dall’abiezione, quella regolata dalla norma eterosessuale è l’unica che, a dispetto di volenterose dichiarazioni di intenti, stenta a denaturalizzarsi? Sarà che a reggere le fila della denuncia degli stereotipi si trovano proprio quanti, per scongiurare il conflitto, preferiscono distogliere lo sguardo dal proprio coinvolgimento nella norma e nel privilegio eterosessuale? Quale che sia la risposta, non si tratta di un problema inedito se già alla fine degli anni Settanta Christine Delphy poteva osservare che l’incapacità di pensare il genere rimanda a «un insieme di rappresentazioni confuse che ruotano tutte intorno alla credenza nella necessità di relazioni ravvicinate e permanenti tra la maggior parte delle donne e la maggior parte degli uomini in ogni momento, cosa che rende un conflitto strutturale, semplicemente “disfunzionale”, e dunque impensabile» (cfr. Un féminisme matérialiste est possible, in Ead., L’ennemi principal 2. Penser le genre, 2001, trad. nostra).

Fonte: lavoroculturale.org

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