La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 aprile 2017

Il Papa e i campi

di Edoardo Greblo
Tornando ancora una volta sulla tragedia dei migranti, Papa Francesco ha recentemente paragonato “i campi di rifugiati” ai “campi di concentramento”, stigmatizzando il fatto che gli accordi internazionali sembrino avere maggiore importanza di quella riconosciuta ai diritti umani. Sono parole che Bergoglio ha pronunciato in occasione della liturgia per i “nuovi martiri” a San Bartolomeo all’Isola Tiberina di fronte a moltissimi fedeli e che testimoniano di un’attenzione e di una sensibilità di cui sembrano invece drammaticamente privi tanti commentatori, opinionisti e uomini politici In tutto il mondo, infatti, il numero dei rifugiati è in costante crescita. E, con loro, cresce il numero dei campi destinati ad accoglierli.
Quale che sia la rete dei dispositivi che li organizza – istituzioni sociali, organizzazioni intergovernative e non governative, agenzie umanitarie, ma anche strutture spaziali, misure amministrative, decisioni regolamentari – i campi hanno mutato, nel corso del tempo, la loro funzione. Invece di essere dei luoghi destinati ad accogliere persone in fuga per un arco limitato di tempo, si sono trasformati in spazi di stoccaggio semipermanenti. Il principale campo profughi del mondo, Dadaab in Kenya, ha ormai vent’anni e ospita circa 420 mila rifugiati. I campi che nel Libano meridionale accolgono i rifugiati palestinesi esistono dal 1948 o dal 1968. I profughi accolti in questi (e in altri) campi, e che in alcuni casi vi hanno trascorso tutta la vita, vengono definiti PRS, ovvero in “condizione di rifugiati protratti”. Questi numeri stanno drammaticamente a indicare come il rifugiato, il richiedente asilo e l’apolide de facto siano divenuti metafore e al contempo sintomi di un malessere strutturale della politica della modernità. E spiegano anche perché si sia giunti a quella forma di disillusione che ha spinto intellettuali e attivisti a sostituire la «critica della ragione umanitaria» alla lotta per il «diritto di avere diritti». Sebbene comprensibile, questa forma di disincanto è però difficilmente sostenibile. Forse, invece, sarebbe più opportuno ripensare al problema dei rifugiati come a un’occasione per ridefinire una concezione post-statuale di sovranità nell’era post-westfaliana, così fa evitare che l’attenzione si concentri quasi esclusivamente sulla gestione e il controllo dei confini nazionali.
Focalizzare unilateralmente l’attenzione sul problema della difesa dei confini rischia infatti di alimentare una prospettiva miope e limitativa. Ovvero, di prestare un’attenzione specifica ai soli rifugiati ritenuti de jure, le persone che hanno titolo a fare ingresso sul territorio nazionale, e di lasciare in ombra le undocumented persons costrette a vivere, talvolta per l’intero arco della loro esistenza, in quelle «zone definitivamente temporanee» che, nel linguaggio delle agenzie umanitarie vengono definite, di volta in volta, emergency temporary locations, temporary protected areas, zones d’attente,centri di permanenza/accoglienza temporanea. L’interesse pressoché esclusivo per le condizioni di ingresso rende normativamente invisibili gli apolidi de facto, ossia tutti gli individui resi tali, per esempio, dalle barriere all’ingresso, come l’imposizione di visti e le sanzioni inflitte alle compagnie di trasporto, l’internazionalizzazione di porti e aeroporti e la creazione di barriere fisiche, oppure dalle restrizioni procedurali volte a limitare il numero complessivo di domande d’asilo, come le scadenze per le presentazioni delle domande d’asilo, così brevi, talvolta, da renderle praticamente impossibili. Perciò, se si vuole comprendere i nostri obblighi morali nei confronti dei migranti forzati, si tratti di rifugiati de jure oppure di individui resi apolidi de facto, occorre riconcettualizzare la violazione dei diritti umani provocata dalla condizione di rifugiato o di stateless – un fenomeno che riguarda persone senza una nazionalità comprovata, o perché lo Stato dal quale provengono è ‘fallito’ a causa di guerre civili, o perché hanno dovuto nascondere la loro identità per non essere perseguitate a causa della propria fede religiosa.
È l’attenzione unilaterale per il problema dei confini a spiegare perché, agli occhi di molti, i campi rappresentano una scelta priva di alternative – nel senso che non sembrano esistere altre collocazioni possibili per le masse anonime che fuggono da persecuzioni e guerre. È come se fossero pragmaticamente, politicamente ed economicamente necessari. Eppure, è difficile non rilevare come il campo non possa che avere uno statuto ambiguo per definizione. Non solo perché si costituisce nel punto di incrocio tra una logica umanitaria di protezione e una logica essenzialmente repressiva di deterrenza e contenimento, ma anche perché esclude radicalmente le persone dal mondo comune, ossia da ciò che rappresenta la condizione e l’orizzonte di azione della condizione umana.
Questa forma di esclusione dal mondo comune è una forma di abbandono nel senso suggerito da Agamben, secondo il quale dell’esiliato, del rifugiato o dell’apolide non è possibile dire se sia dentro o fuori l’ordinamento, poiché egli non è solo escluso dalla legge, ma questa si mantiene in relazione con lui abbandonandolo. Nella relazione di abbandono «ciò che è stato posto in bando è rimesso alla propria separatezza e, insieme, consegnato alla mercé di chi l’abbandona, insieme escluso e incluso, dimesso e, nello stesso tempo, catturato». La relazione di abbandono coincide con una struttura relazionale che include qualcosa o qualcuno attraverso la sua esclusione. Fonda lo statuto del rifugiato non semplicemente sull’estraneità rispetto all’ordinamento giuridico normale, ma sull’essere «preso fuori, incluso attraverso la sua stessa esclusione». La sua stessa identità e i suoi modi di esistenza sono definiti quasi interamente da questa relazione di abbandono, che Agamben definisce di esclusione inclusiva. Il prezzo dell’umanitario impolitico è la separazione della nuda vita dalla comunità politica, dall’ordinamento statuale che, nato per proteggere le vite poste ai margini dello Stato-nazione, si è trasformato nella disposizione potenziale a sacrificarle.
A cosa si deve, allora, la diffusione crescente di strutture per esseri umani in fuga che sembrano più di detenzione e confinamento che di accoglienza, in tutto il globo e non solo in Europa? La risposta, probabilmente, non ha a che fare con l’esigenza di creare un efficace strumento di contrasto della clandestinità e della criminalità, che gli schemi cognitivi di senso comune associano con allarmante e disarmante frequenza al diffondersi della condizione di irregolarità dei migranti. Il campo, piuttosto, ha un altissimo valore simbolico e retorico nella costruzione della figura del migrante quale nemico e fonte di pericolosità sociale. Nonostante la riduzione delle capacità dello Stato di controllare i propri confini e di dare corso alle procedure di espulsione, l’incremento delle misure di detenzione comunica un messaggio prevalentemente politico e simbolico – ossia che lo Stato non ha affatto perso la capacità, né la volontà, di difendersi da chiunque sembri rimettere in discussione i presupposti territoriali della politica moderna, ossia la sua capacità di proteggere le coordinate spaziali che hanno lo scopo di definire l’esistenza giuridica e politica dei cittadini e di alimentare fantasie di contenimento attraverso la creazione di immagini fittizie di autosufficienza nazionale. Anche i campi, come i muri, servono a difendere gli Stati da un “fuori” oscuro e minaccioso, e per questo rappresentano l’icona distorta di un immaginario nazionale minacciato da flussi migratori che sembrano destabilizzare l’ideale evanescente di un “noi” demarcato spazialmente.

Fonte: Mimesis-scenari.it 

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