La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 aprile 2017

Lavorare meno serve allo sviluppo

di Roberto Romano 
Sebbene la discussione sugli orari di lavoro (medio annuo per lavoratore) sia caduta nel dimenticatoio del dibattitto politico ed economico, l’oggetto è di particolare interesse. Non solo perché storicamente si è sempre lavorato troppo, ma perché declina come la società nel suo insieme immagina se stessa. Il lavoro e il capitale sono fondativi del capitalismo e dell’accumulazione; Smith e Marx hanno scritto pagine importantissime sul tema. Solo per ricordare i passaggi più importanti, ricordo che Marx sosteneva che “non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro” (la citazione di Marx è tratta da Rosenberg 2001, p. 64.).
Quindi gli orari di lavoro non sono solo il tempo dedicato dagli uomini e dalle donne all’impresa produttiva per realizzare beni e servizi; rappresentano anche lo sviluppo economico correttamente inteso. Tanto più il salario di sussistenza poteva (può) essere estratto da un uso più contenuto del tempo di lavoro, tanto più la società evolveva e cambiava la sua struttura produttiva e la sua domanda (consumo). Senza questa sequenza sarebbe inconcepibile lo sviluppo capitalistico e la dinamica evolutiva del salario di sussistenza. Infatti, al variare del reddito non si consuma di più, ma si consumano beni diversi.
Sebbene il cambiamento quali-quantitativo dei consumi sia imputabile al cambiamento del reddito da lavoro, con il passare degli anni lo sviluppo economico dal lato dell’offerta e della domanda necessitava di qualcosa di più del solo (puro) incremento del reddito per sostenere il cambiamento della stessa domanda e produzione. I così detti beni secondari non solo hanno un contenuto tecnologico più alto e, intrinsecamente, un valore economico maggiore rispetto ai beni primari, ma configurano un coinvolgimento maggiore del consumatore. In altri termini, senza un adeguato tempo (attenzione) sarebbe inconcepibile l’acquisto di alcuni beni e servizi. La lotta per la riduzione degli orari di lavoro della sinistra e del sindacato, nel loro insieme, sono un passaggio fondamentale per alimentare e sostenere il processo produttivo. Da questo punto di vista la sinistra e il sindacato sono state istituzioni macro-economiche molto più lungimiranti dei capitalisti. Se il tempo è fondamentale per una impresa, non di meno è quello dei consumatori che devono pur utilizzare certi beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico e, quindi, a maggior contenuto di tempo per l’apprendimento.
Sostanzialmente il tempo dedicato al lavoro, in questo caso quello lavorativo, lasciando sullo sfondo quello ri-produttivo che interessa altre categorie, è un indicatore di ben-essere della società e del sistema economico in generale. In effetti, le società (Stati) capitalistiche che hanno contratto gli orari di lavoro più velocemente di altri, sono anche quelle che hanno registrato le migliori performance in termini di crescita di reddito (PIL) e di produttività. Il tempo liberato dal lavoro produttivo ha permesso di sostenere la crescita e il consumo di beni e servizi che altrimenti non avrebbero trovato una adeguata domanda per sostenerli.


La crisi intervenuta nel 2007 consegna alla società e alla sua classe dirigente una sfida inedita: ricostruire le nuove istituzioni del capitale e quindi della società nel suo insieme. Gli orari di lavoro sono un pezzo delle nuove istituzioni (informali e formali) del capitale. Si tratta di dare seguito a delle indicazioni e delle tendenze strutturate, ma che devono ancora diventare paradigma.
Quali sono le indicazioni e tendenze che emergono dalla comparazione di alcuni paesi circa gli orari di lavoro annuo per addetto? In qualche modo confermano l’idea di una società che cambia, indipendentemente dalla pubblicistica dominante.
Innanzitutto la storica riduzione dell’orario di lavoro non si è arrestata. Se in Germania si lavoravano 1.528 ore annue per addetto nel 1995, nel 2015 si lavorava in media non più di 1.371 ore. Lo stesso trend è osservabile per molti altri paesi: in Francia si passa da 1.605 a 1.482; in Spagna da 1.755 a 1.691; in Usa si passa da 1.844 a 1.790. Anche in Italia gli orari di lavoro medio annuo per lavoratore diminuiscono: si passa dalle 1.856 ore annue medie per lavoratore del 1995 a 1.725 del 2015. Quindi la corsa alla riduzione degli orari di lavoro non si è arrestata. La riflessione (domanda) che dobbiamo farci è legata alla velocità di implementazione: è stata sufficiente per compensare la produttività e per sostenere il diverso segno della domanda in termini di tempo e qualità?


Per alcuni Paesi potrebbe anche essere stata adeguata, ma per altri Stati il ritardo dell’adeguamento degli orari di lavoro sono un segno del ritardo della politica economica o, per altri versi, dell’assenza di una politica economica coerente con le trasformazioni quali-quantitative del capitalismo. Sostanzialmente gli orari di lavoro sono un altro indicatore della specializzazione produttiva e delle aspirazioni della società nel loro insieme.
La riduzione dell’orario di lavoro nel tempo di alcuni Paesi dà conto del peso specifico dell’Italia nel consesso europeo e internazionale. Tra i paesi presi in considerazione (Francia, Germania, Spagna, Stati Uniti e Italia), in Italia si lavora troppo e, evidentemente, male vista la produttività media per lavoratore. Tra il 1995 e il 2015, i lavoratori italiani occupano molto più tempo nell’attività produttiva rispetto al tempo di lavoro di altri Paesi. Solo nel 2015 lavoravamo 354 ore in più di un lavoratore tedesco, 243 ore di un lavoratore francese, 34 ore in più di un lavoratore spagnolo. Solo rispetto agli Stati Uniti abbiamo un piccolo vantaggio di 65 ore.


La riduzione dell’orario di lavoro deve essere assolutamente accompagnata da una buona politica economica e industriale in particolare, ma rimane di fondamentale importanza per sostenere lo sviluppo quali-quantitativo che ha un profilo significativamente diverso dal periodo che precede la crisi del 2007.

Fonte: Eguaglianza e Libertà 

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