La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 29 aprile 2017

Il mondo ha fame di libertà e giustizia

di Shaden Ghazal
A casa mia il 25 Aprile si passava a leggere i racconti dei poeti della resistenza accompagnati dalle canzoni dei più politicizzati rapper palestinesi. La bellezza delle contaminazioni e dei contesti meticci. La verità è che studiare, analizzare, approfondire lo studio della resistenza passata non ha alcun valore se chiudiamo la finestra su quella parte di mondo che oggi continua a resistere contro i nuovi fascismi e le nuove dittature. La storia insegna solamente a chi ha realmente la capacità critica di analizzare il passato per comprendere il presente e contrastare le nuove discriminazioni, di qualunque natura esse siano. Senza questa presa di coscienza, la Storia, diciamocelo, serve a ben poco. 
Chi ha imparato dal passato, oggi ha scelto di continuare a resistere e di camminare assieme ai fratelli e alle sorelle che continuano a lottare per i propri diritti e per la propria autodeterminazione, perché dalla Palestina al Kurdistan, passando per il Messico e i nuovi ghetti sparsi per l’Europa, c’è chi continua a voler affermare il proprio diritto alla vita e all’autodeterminazione. 
Premessa che pare quasi inutile per quei movimenti e quelle realtà che hanno già scelto da che parte stare.
Inutile, se non fosse che proprio in una giornata come quella del 25 Aprile, la sezione milanese dell’Anpi ha scelto (a proposito di scelte!) di sfilare con la Brigata Ebraica e di respingere ogni contestazione allo Stato israeliano perché, a detta del presidente dell’Anpi Milano Roberto Cenati, «chi offende il simbolo della Brigata Ebraica ingiuria l’intero patrimonio storico della Resistenza italiana». 
La dichiarazione di Cenati è arrivata in seguito all’appello lanciato da attivisti ed attiviste del Bds, in cui si legge: «BDS Italia ribadisce ancora una volta l’adesione a quei principi di libertà, di giustizia e di uguaglianza che ispirarono la lotta di Liberazione e la Resistenza al nazifascismo. Per queste ragioni oggi BDS Italia sostiene la lotta di Resistenza e di Liberazione del popolo Palestinese che da decenni si oppone al colonialismo di insediamento ed a un’occupazione militare che non ha precedenti nella storia, chiedendo che sia ristabilito il diritto internazionale, ponendo fine all’occupazione, garantendo i pari diritti per i Palestinesi cittadini di Israele e riconoscendo il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Pertanto, BDS Italia parteciperà anche quest’anno alle manifestazioni del 25 Aprile, rifiutando qualsiasi tentativo di delegittimazione del movimento, e rivendicando il diritto, costituzionalmente garantito, alla libertà di parola ed espressione».
A tal proposito, non va dimenticato che tanto è stato detto sul tentativo di utilizzare la storia, spesso modificandola, per cercare di tirare acqua al proprio mulino, giustificando i massacri di ieri e quelli che ci saranno facendo leva sull’esperienza traumatica del passato: d’altra parte, la narrazione sionista ha sempre messo in ombra, con il beneplacito delle potenze mondiali che continuano a pulirsi la coscienza, la memoria della catastrofe palestinese.
Sarebbe veramente interessante capire se il buon Cenati, che di resistenza e fascismo si spera sappia qualcosa, prenda parola anche sui diritti dei prigionieri politici palestinesi attualmente in sciopero della fame da sette giorni. 
Perché mentre l’asse “Roma-Milano” si è interrogato per giorni su come difendere la Brigata Ebraica da possibili tensioni e la sinistra “istituzionale” continua a morire tra autocommiserazione e sterili momenti commemorativi, nelle carceri israeliane ci sono più di 1500 prigionieri palestinesi che sono entrati nella seconda settimana di sciopero della fame, lanciato dal leader di Al Fatah, Marwan Barghouti. Uno sciopero che mira a far riaccendere i riflettori sulla questione palestinese e sul trattamento riservato ai prigionieri. 
Secondo Addameer, associazione che supporta e tutela i diritti dei prigionieri palestinesi, nell’aprile 2017 il numero totale dei detenuti politici è di 6300, a cui vanno aggiunti 300 arresti di minori e 500 sotto regime amministrativo. 
La detenzione amministrativa, nonostante sia continuamente condannata dal diritto internazionale, viene utilizzata dal governo israeliano sin dall’inizio dell’occupazione nel 1967 e permette di trattenere anche i minori senza né accusa né processo e sulla base di prove riservate. Israele si avvale di questo strumento come vera e propria arma di persecuzione politica, per cercare di bloccare sul nascere le forme di resistenza portate avanti da attivisti e attiviste, da studenti e studentesse, politici e altri segmenti della società palestinese. 
Qualche giorno fa , a conferma di quanto appena scritto, Malak Soulaiman, 17enne di Gerusalemme arrestata nel Febbraio 2016, è stata condannata a dieci anni di detenzione per un presunto “attacco con un coltello” contro un soldato israeliano. 
Nell’aprile dell’anno scorso veniva scarcerata dopo quasi due mesi la dodicenne Dima Al Wawi, una delle più giovani bambine arrestate dall’esercito israeliano.
Addameer, nel corso degli anni, ha inoltre denunciato il trattamento riservato alle detenute palestinesi, che spesso soffrono di asma, diabete, disturbi ai reni o alle quali vengono diagnosticati tumori, senza che possano avere accesso alle cure adeguate. 
Un’altra preoccupazione delle associazioni e delle organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani riguarda la costante violazione di qualsiasi trattato internazionale rispetto alla vita dei detenuti in carcere: torture, abusi, spostamenti da una prigione a un’altra, mancanza di accuse reali, limitazioni nelle visite dei familiari e degli avvocati. 
Dal 1967, sono stati circa 800.000 i palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane: questo dato mostra in maniera fin troppo esaustiva la strada intrapresa dai vari governi che si sono susseguiti dall’inizio dell’occupazione a oggi, i quali hanno utilizzato le prigioni come gabbie dentro le quali rinchiudere chi provava a resistere. 
A risentire delle continue incarcerazioni, divenute ormai storie di ordinaria quotidianità, è lo stesso scenario politico palestinese, privato, nel corso degli anni, delle personalità politiche più carismatiche e in grado di mobilitare le masse contro soprusi e discriminazioni: Barghouti, che nonostante rimarrà in carcere a vita continua ad avere più legittimità politica rispetto ad Abu Mazen, è un esempio lampante di quanto appena scritto. 
Il governo israeliano, preso atto della potenza e della pericolosità di ciò che sta succedendo nelle prigioni sparse per il territorio, ha risposto con la solita politica del “pugno duro”, mettendo in isolamento diversi detenuti, tra cui Barghouti stesso, e obbligando alcune persone all’alimentazione forzata. 
Nella giornata di giovedì, lo sciopero ha coinvolto banche, scuole, università e istituzioni locali che hanno osservato uno sciopero generale in solidarietà con la protesta dei 1.500 detenuti. 
Se attingessimo al bagaglio culturale palestinese, troveremmo decine e decine di poesie e canzoni che denunciano questa situazione: si pensi alla famosissima “Asfour” di Marcel Khalifa e Omaima Khalili, dedicata a «tutti i detenuti e le detenute palestinesi nelle carceri israeliane e tutti i detenuti arabi nelle prigione arabe». Sono testi che tutti i palestinesi cantano, alzando la kufiya e sventolando la bandiera del proprio popolo (nonostante sia anche questo reato secondo il ministro della Giustizia Ayelet Sheked). Testi che fanno parte di un repertorio custodito gelosamente e tramandato di generazione in generazione, con la consapevolezza che il tentativo di pulizia etnica del popolo palestinese passi anche dalla demolizione della memoria letteraria collettiva. 
Nel frattempo, mentre alcuni coloni israeliani organizzano barbecue fuori dalle prigioni di Aruf, nei pressi di Ramallah, in tutta la West Bank sono migliaia i palestinesi scesi in strada per manifestare contro il regime di apartheid imposto dallo stato israeliano e per solidarizzare con i detenuti nelle carceri, le cui condizioni di salute iniziano pian piano ad aggravarsi. 
Proprio in quella che è stata definita l’ennesima “Giornata della Rabbia”, la Resistenza continua, al di là delle polemiche sul 25 aprile.
Nemmeno quelle imponenti sbarre riescono a frenare la sete di giustizia e libertà. 
Ancora una volta, non un passo indietro. 

Fonte: globalproject.info 

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