La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 aprile 2017

Paradosso Gramsci, più apprezzato all'estero che in Italia

di Francesco Marchianò
Il 27 aprile di ottant'anni fa moriva Antonio Gramsci, uno dei più grandi pensatori del Novecento italiano. Nato ad Ales, in Sardegna, nel 1891, si era trasferito a Torino per gli studi, avvicinandosi al movimento socialista. Dopo la Rivoluzione russa, aderisce al programma di Lenin e con il gruppo di compagni della rivista l'Ordine nuovo, fonda nel 1921 a Livorno il Partito comunista italiano divenendone uno dei dirigenti principali. Nel 1926 viene arrestato dal regime fascista e rinchiuso in carcere dove scriverà la Lettere e i Quaderni e dal quale uscirà, gravemente provato dalla malattia, solo per morire pochi giorni dopo, nel 1937.
A ottant'anni dalla morte, Gramsci vive ancora oggi un terribile paradosso: pur essendo stato uno dei più acuti e critici osservatori della politica, della storia, della cultura e della letteratura del nostro Paese, risulta più apprezzato all'estero che in Italia dove sembra che la sua opera e la sua figura siano avvolte da un alone di pregiudizio, come tale ottuso, che non ne favorisce lo studio e la diffusione.
Per ricordarlo, sono da segnalare un libro da poco uscito e un convegno in programma per oggi. Il libro si intitola Gramsci chi? Dicono di lui, edito da Bordeaux, curato da Lelio La Porta, studioso appassionato di Gramsci. Si tratta di un volume utile per tutti, soprattutto per quanti incontrano Gramsci per la prima volta, ma non solo.
Dopo una sintetica introduzione alla vita e alle opere, con opportuni riferimenti bibliografici essenziali, La Porta raccoglie scritti di artisti, giornalisti, politici e studiosi, non tutti gramsciani, che parlano di Gramsci, da Piero Gobetti a Dario Fo, passando per Giuseppe Fiori, Emilio Lussu, Giuseppe Prestipino, Camilla Ravera, Paolo Spriano, Aldo Tortorella.
Tra i vari contributi, ci sono alcuni che vale la pena di segnalare. Per esempio quello di Benedetto Croce che nel 1947, recensendo le Lettere dal carcere , nei "Quaderni della critica", ricordava come esse appartenessero non al Partito comunista, ma anche "a chi è di altro od opposto partito" e ciò, secondo Croce, per una duplice ragione:
"per la reverenza e l'affetto che si provano per tutti coloro che tennero alta la dignità dell'uomo e accettarono pericoli e persecuzioni e sofferenze per un ideale, che è ciò che Antonio Gramsci fece con fortezza, serenità e semplicità, talché queste sue lettere dal carcere suscitano orrore e interiore rivolta contro il regime odioso che lo oppresse e soppresse."
Belli anche i testi di Togliatti che definisce Gramsci come "la coscienza critica di un secolo di storia del nostro paese", e di Enrico Berlinguer per il quale
"Gramsci parla ancora oggi a tutti gli intellettuali, a tutti i democratici, a tutte le forze di progresso che emergono e si affermano nella società. L'esempio di Gramsci ci esorta tutti a combattere, a non disarmare, a costruire il nuovo."
Un grande convegno nazionale si è tenuto durante la giornata di ieri, invece, a Roma nella Sala Gonzaga dei Musei Capitolini dal titolo Egemonia.
L'auspicio è che queste e altre iniziative contribuiscano a togliere Gramsci dal paradosso del quale si diceva all'inizio. Si può, a tal proposito, concordare con la parole di Lelio La Porta:
"è necessario portare Gramsci fuori dai luoghi di discussione specialistica, introdurlo nelle aule delle scuole medie e medie superiori italiane, farlo conoscere ai nostri giovani e a quanti di lui hanno scarsa conoscenza o in quanto lo ritengono quasi un reperto archeologico riconducibile a chissà quale era geologica, utilizzando nei suoi confronti un pregiudizio ideologico che, francamente, non ha più ragione di essere o in quanto pensano, appunto, che soltanto pochi addetti ai lavori siano in grado di comprendere ciò che ha scritto."

Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore 

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