La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 dicembre 2015

Gli anziani sono la cassaforte degli italiani

di Maurizio Sgroi
Mi son trovato a un incontro assai interessante in Banca d’Italia dove si illustravano i risultati dell’ultima indagine campionaria (ossia svolta sulla base di interviste) sulla ricchezza delle famiglie italiane, l’appuntamento dicembrino con il quale la nostra banca centrale ci augura un buon Natale e un felice anno nuovo. Quale miglior modo per chiudere l’anno che presentare una rilevazione su come e quanto siano cambiati i redditi e la ricchezza di noi tutti?
Queste notizie, com’è noto, scatenano insieme curiosità da voyeur e sensi di colpa. Ci compiaciamo se la ricchezza è cresciuta e ci compiaciamo altrettanto se invece è diminuita, perché ciò stimola la nostra propensione al piagnisteo. Vibriamo di sdegno quando scopriamo che la concentrazione della ricchezza è aumentata, ma solo se non siamo ricchi, e ci rattristiamo per quella quota a rischio povertà che ormai supera stabilmente il 20%, con differenze di qualche punto fra una rilevazione e l’altra, ben lieti al tempo stesso di non starci dentro.
Di questo sentire da classe media la rilevazione di Banca d’Italia mi sembra impregnata. E non per intenzione degli autori, che sono rispettabilissimi economisti e statistici, ma per l’occhio stesso di chi la guarda, questa rilevazione, come mi confermano le tante domande degli altri osservatori che sento risuonare attorno a me. Noi italiani ci percepiamo come classe media. Peccato che ormai si stia liquefacendo, questa classe, condannandoci a un’estinzione culturale, prima ancora che sostanziale.
Cerco tracce di questo processo, che mi sembra ineludibile, fra grafici e tabelle, ma trovo solo cose che sapevo già: l’iniquità distributiva fra vecchi e giovani, il grande peso relativo del mattone sulla ricchezza, la sperequazione anche sui redditi, il grande cambiamento della demografia.
Il tema della ricchezza però, com’è ovvio, è quello che attira l’attenzione. E’ qui che il confronto fra vecchi e giovani diventa impietoso. I primi, quelli che la statistica classifica come over 65, dal 1995 hanno visto crescere la loro ricchezza netta del 60%, con un indice a 160 nel 2015, dalla base 100 di quell’anno, e i secondi, i 18-34enni, che invece l’hanno vista diminuire del 60%.
E non c’è solo questo. I più ricchi, dopo gli over 65, sono i 55-64enni, che fino al 2009 avevano guadagno un 40% di ricchezza netta, sempre dal 1995, ma poi hanno visto crollare il loro indice che quotava 140 di nuovo a 100. In pratica questa classe d’età è tornata indietro di vent’anni.
Le altre classi stanno peggio. I 35-44enni hanno un indice inferiore ad 80, i 45-54enni intorno a 90. A dirla tutta, anche gli over 65 hanno perso qualcosa, ma solo perché il loro indice aveva superato 190 proprio mentre quello dei giovani scendeva a 50. Chissà perché mi viene in mente Crono che mangiava i suoi figli.
Se guardiamo al reddito, ossia al flusso, piuttosto che allo stock, e in particolare al reddito equivalente, un indicatore costruito per misurare il benessere economico di un individuo, il discorso cambia poco. Gli over 65 l’anno visto crescere, sempre dal ’95, di circa il 15%, in calo dopo il picco del 2009 quando l’indice quotava circa 122. I giovani, invece, sono inchiodati intorno a 87, poco peggio delle altre classi d’età. D’altronde non c’è da stupirsi: il reddito reale dal 2006 è crollato di oltre il 15%, quindi il reddito equivalente di conseguenza. Ma per gli over65 quest’ultimo è caduto di meno e in maniera più controllata, a differenza di quanto è accaduto per altre classi di età. E soprattutto stanno al top della classifica.
In parte ciò si spiega anche con la circostanza che la ricchezza genera un flusso di reddito. Ad esempio se ho una seconda casa e l’affitto aumento le mie entrate, e quindi chi è più ricco ha un vantaggio reddituale rispetto a chi non lo è. I soldi fanno soldi, dicevano gli antichi, ed è statisticamente più probabile che la ricchezza si concentri nelle fasce d’età più elevata per la semplice circostanza che hanno avuto più tempo per cumularla.
Peraltro il peso delle rendite su questa ricchezza sul totale del reddito non è poca cosa: oltre il 20%. Se lo sommiamo a un ulteriore 27,5% che arriva al reddito dai trasferimenti pubblici, quindi in gran parte le pensioni, viene fuori che circa la metà del reddito annuale italiano è composto sostanzialmente da rendite. Il reddito che arriva dal lavoro dipendente è poco più del 40%. Insomma: chi lavora sta peggio dei rentier.
Tale situazione è visibile da un’altra tabella che mostra che il reddito equivalente, ossia il benessere economico, dei pensionati, è superiore a quello dei lavoro dipendente. E che quello degli ultra 64enni è di poco inferiore a quello dei 55-64 anni e superiore a quello di tutti gli altri. Insomma, l’Italia si conferma un paese per vecchi.
Di fronte a una sperequazione distributiva così evidente, sarebbe saggio che un qualunque governo facesse delle riflessioni e decidere se intervenire o no. In caso contrario, se cioé si decide di lasciare le cose come stanno, l’unica considerazione che si può fare è che gli anziani di fatto sono la cassaforte nelle quali i più giovani stanno conservando la loro ricchezza futura.
Finora è stato così. Una delle slide presentate rileva che “un terzo della ricchezza è ricevuto in eredità. Parliamo, a valori 2014, di 52 mila euro di media che sono diventati 75 mila nel 2002 e 72 mila nel 2014”.
Gli anziani, insomma, sono la riserva di valore dei più giovani. Che intanto però devono stringere la cinghia.
Non so perché, ma tutto ciò finisce col rattristarmi.

Fonte: The Walking Debt

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