La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 dicembre 2015

Buona Scuola: benvenuto referendum! Per cambiare le scuole e il paese

di Danilo Lampis
Benvenuto, è proprio il caso di dirlo. A chi? Al referendum contro la legge 107/15, contro La Buona Scuola della precarietà. Il 29 novembre un'affollata assemblea nazionale indetta dai comitati Lip ha definitivamente avviato il percorso per proporre al Paese un'alternativa alla scuola disegnata dall'associazione Treellle, da Confindustria e dai tecnici di Viale Trastevere. L'obiettivo è arrivare al 2017 con una proposta radicale e maggioritaria allo stesso tempo, sacrificando corporativismi e timidezze di sorta. La situazione, però, non è per nulla facile. L'anno di lotte definitivamente conclusosi il 9 ottobre, giornata di mobilitazione nazionale studentesca, ci lascia alcuni dati politici da metabolizzare.
La riforma della scuola può in qualche modo costituire uno specchio complessivo dell'azione del Governo, all'interno di una generale crisi della democrazia rappresentativa liberale a livello continentale, sacrificata dalle lobby che detengono il potere.
Nuovi autoritarismi si stanno facendo spazio dopo la fine definitiva del compromesso novecentesco tra capitale e lavoro, lo smascheramento della socialdemocrazia alfiera delle peggiori politiche neoliberiste e neoliberali. La contraddizione insanabile è quella apertasi tra i processi democratici e gli interessi dei poteri forti che occupano e innervano l'azione statale ed europea. Viviamo una fase di crisi della governance neoliberale, incapace di assorbire i conflitti derivanti dalle incredibili disuguaglianze e ingiustizie che essa stessa ha prodotto, mantenere salda l'egemonia politica mediante gli apparati di creazione del consenso, garantire i processi di accumulazione ed espropriazione del lavoro vivo e della riproduzione sociale senza produrre shock.
I “tecnici” al governo dell'Europa stanno mostrando in questi ultimi mesi il loro vero volto, erigendo frontiere, sottomettendo interi popoli ai diktat della finanza, inasprendo la repressione utilizzando da ultimo la scusante del terrorismo, imponendo politiche sul lavoro volte a smantellare le residuali briciole di diritto del lavoro. In questo quadro il Governo Renzi rappresenta la certificazione plastica della “crisi” dell'era del compromesso. La riforme del Governo hanno reso evidente il carattere neo-autoritario e liberticida della sua azione. Il PD ha certificato la crisi della democrazia rappresentativa rispondendo con i patti dei piani alti, ossessionati dalla governabilità e dalla salvaguardia dei loro interessi. Il Partito della Nazione o la Grosse Koalition in salsa italiana, dissanguato dall'emorragia di iscritti, esprime la perfetta integrazione tra mercato e potere politico. Un utile strumento in mano a pochi potenti per costruire lo Stato-impresa teorizzato dall'ideologia neoliberale. La distinzione novecentesca tra politico e sociale è stata superata proprio dall'alto: oggi Renzi rappresenta esclusivamente un'oligarchia di poteri forti che va da Confindustria a un pezzo di dirigenti cresciuti nelle stanze chiuse del partito di maggioranza. Una casta economico-politica o meglio un blocco sociale che accumula potere, attacca le organizzazioni sociali e sindacali e coniuga abilmente frenesia riformatrice e uso della forza.
La frenesia e il fare rappresentano la cifra dell'instabilità del Governo stesso, impegnato costantemente a costruire consenso; la forza e la repressione sono invece la soluzione sempre più frequente per quietare i conflitti sociali sempre più diffusi e irrisolvibili con le classiche soluzioni. Perché? Perché tali conflitti sono l'altro volto delle innumerevoli crisi, da quella ambientale a quella istituzionale. E le crisi esprimono incapacità. La reazione, dunque, non può che essere morbosa e furente. L'egemonia neoliberale non si riesce più ad esercitare esclusivamente sul piano politico, ma c'è bisogno della violenza e del ricorso all'illegalità per soffocare le istanze sociali. Così si spiega il rafforzamento dell'esecutivo che però riconosce la necessità di tessere un “populismo dall’alto” o “istituzionale”, al fine di instaurare un rapporto diretto tra governanti e governati, tentanto di instaurare una dinamica plebiscitaria a vantaggio degli interessi dell'alto che di volta in volta assumono un utile travestimento per il pubblico di elettori, come la cancellazione delle tasse sulla prima casa, il superamento del bicameralismo perfetto in favore della velocità, la scuola che si connette al mercato del lavoro per rispondere alla disoccupazione giovanile, la retorica securitaria eurocentrica in risposta al terrorismo.
È innegabile la maestria del premier e dei suoi fedelissimi nella costruzione di una narrazione positiva volta a promuovere la “competitività” del Paese contro gli “irresponsabili” oppositori del progresso. Tra questi ultimi, ovviamente, sono stati inseriti fra le prime posizioni i sindacati, le forze sociali, l'associazionismo critico. Tanti di loro hanno fondato nella storia la propria azione sulla condivisione degli obiettivi del capitalismo nostrano, sulla crescita, sulle politiche di processo e prodotto incapaci di puntare sull'innovazione, la ricerca, la formazione. La scottatura decisiva rispetto ai sogni negati di una democrazia economica cogestionaria da realizzarsi comodamente sacrificando le piazze in favore dei tavoli di concertazione, oggi fa male. Il sindacato è stato espulso dai luoghi di lavoro: oggi anche le sue timide resistenze al processo regressivo sul piano dei diritti sono un problema per l'impresa e lo Stato-impresa. Si riconosce questo nelle parole di Confindustria o di Poletti: fate spazio alla fine del contratto collettivo nazionale, all'individualizzazione feroce dei compensi, alla fine dell'uguaglianza salariale, al lavoro sottopagato o gratuito, alla valutazione costante dei risultati. Sembrerebbe un incubo, ma è la dura realtà. Il regime dello sfruttamento non tollera più mediazioni. È duro ammettere questo in un Paese che, con il contraccolpo democratico dei '60 e '70, ha visto una stagione incredibile di conquiste sociali e sul lavoro. Che fare? Iniziamo da un punto: non è più il tempo della resistenza ma della resilienza. Nel suo etimo latino "resalio", ovvero l’iterativo di salio, significa saltare. L'immagine è chiara: risalire su una barca capovolta, mettendo alla prova la propria agilità e capacità di assorbire dei colpi sperimentando nuove strategie per raggiungere il risultato. Significa non affrontare le innumerevoli sconfitte cucendosele addosso, bensì praticare delle risposte alternative. Non siamo nati sconfitti, la guerra non l'hanno vinta.
Il quadro di cambiamenti, dei quali abbiamo provato a sottolinearne soltanto alcuni nelle righe precedenti, dev'essere affrontato come una opportunità. Lo stato d'eccezione in risposta alla crisi dell'ancient regime palesa, stracciando i veli residui, l'assoluta incapacità dell'alto nel dare delle risposte, nel garantire in qualche misura una tenuta sociale delle politiche imposte. Nel tempo del populismo di Governo senza popolo, nonostante si provi ad evocare l'ascolto e ad elargire bonus e premi (la carta del docente o i 500 euro per i diciotenni), ad un certo punto arriva la dura decisione, che di volta in volta dev'essere rattificata dall'istituzione svuotata, impotente, svilita. La pedagogia degli oppressori è la stessa sia che si parli del Governo, della Fiat di Marchionne o della Dirigente Scolastica del Salvemini di Bari. I simboli della ristrutturazione autoritaria decidono, valutano, utilizzano la tecnica come strumento di dominio, mettono in competizione, frammentano, vogliono la spoliticizzazione. Eppure sono deboli: strano a dirsi, ma è così. Loro si aspettano da tutti noi una strenua resistenza sfibrante, funzionale all'ennesima assunzione della sconfitta. Una sconfitta che plasma le biografie, lasciando l'amarezza e la rabbia per essere stati soffocati, ancora una volta. Questo si leggeva nei volti dei docenti, degli ATA e degli studenti in presidio a Montecitorio quando dalle altoparlanti si ascoltava il suono così distante, non per questo doloroso come uno schiaffo in faccia, dei risultati del voto finale. La Camera era vicina, a pochi metri dall'ennesimo presidio inascoltato. La Camera era lontana, espressione di un potere sempre più violento e incapace di intercettare i sentimenti e le idee della società. Nulla potrà più essere come prima, abbiamo bisogno di nuove risposte. Abbiamo bisogno di alimentare la speranza e la necessità di cambiamento, utilizzando tutto il pessimismo dell'intelligenza e l'ottimismo della volontà.
Partiamo da questa banalità per tornare sulla scuola, sull'inedito movimento che ha attraversato il Paese lo scorso anno. Il movimento della scuola ha rappresentato una variabile imprevista nello stato d'eccezione imposto dall'alto, un inedito processo lento e costante di politicizzazione e sensibilizzazione, una possibilità per tutti coloro che oggi avrebbero da dire qualcosa e non soltanto per chi vive la scuola. Se siamo di fronte ad una crisi generalizzata delle democrazie liberali rappresentative, l'ultimo anno ci insegna che non ha senso inseguire vecchie soluzioni. Noi non vogliamo richiedere alle élites l'inclusione delle larghe maggioranze escluse dai processi decisionali; noi vogliamo irrompere nella scena pubblica come maggioranza esclusa che vuole decidere della propria vita e dei propri luoghi, riportando la politica nelle piazze e nelle strade. È questa la richezza di un processo costituente politico e sociale di ricomposizione nell'era della frammentazione, che considera le lotte come utile strumento per partire dal concreto della quotidianità e raggiungere il possibile negato, che rivendica e pratica l'uguaglianza nei luoghi che riproducono disuguaglianze, che metta in critica logiche autoritarie praticando un'altra scuola e un'altra società dal basso. È con questo spirito che si è animato il percorso della coalizione sociale con Landini. La democrazia negata e le disuguaglianze sono forse i due temi che riescono a sincronizzare i conflitti che si riproducono, da quelli sulla scuola a quelli sull'ambiente, da quelli contro le privatizzazioni a quelli contro la chiusura delle frontiere.
La definizione del perimetro di azione ci aiuta a delineare i contorni della futura tornata referendaria sempre più necessaria. Non è il momento di analizzare i referendum già proposti, quale quello contro le trivellazioni o quello per l'abrogazione dell'Italicum, o quelli in via definizione, come si spera si faccia per il jobs act. Ci si può limitare a constatare l'innegabile necessità di un grande movimento di popolo, in grado di produrre popolo. E le lotte? Le lotte sono il carburante indispensabile per ogni movimento di liberazione, è scontato. Oggi, a legge 107 approvata, le lotte senza il referendum rappresenterebbero la resistenza, mentre il referendum come unica prospettiva non avrebbe speranze. Se oggi si vuole uscire dall'impasse la soluzione è il melting pot di pratiche e di strumenti. Sarà necessario combinare la pressione delle piazze con quelle istituzionali, la logica orizzontale con la capacità esecutiva e deliberativa, l'operatività con la partecipazione. Dobbiamo educarci a vicenda su un punto: la democrazia non è un feticcio, non è il voto ogni 5 anni. La democrazia è presenza costante, affermazione della volontà collettiva in ogni Consiglio d'Istituto, in ogni assemblea, in ogni drammatico sgombero di occupazione abitativa, in ogni lotta contro la devastazione dei territorio e in tanto altro. La politica, invece, parafrasando Foa, non è soltanto governo della gente, ma aiutare la gente a governarsi da sè. Forse, nella tenacia delle occupazioni studentesche e nella mobilitazione dei docenti che hanno condotto allo sciopero generale, possiamo leggere in qualche modo una reazione positiva contro la riduzione a numero, lo svilimento della propria soggettività, il potere padronale che elargisce premi e punisce allo stesso tempo, il sapere acritico e quantificato da impartire e assumere come unico modo per far vincere sé stessi e la propria scuola, la centralizzazione feroce su tutti i livelli a discapito delle soluzioni collettive. Il movimento per la scuola pubblica ha svelato a tutto il Paese quanto dietro i commi della 107 non ci fosse alcun progetto di pedagogia progressista, piuttosto solamente una ristrutturazione organizzativa in chiave neoliberale. Giannini, Puglisi, Faraone, Renzi e tanti altri hanno accolto la riforma evocando il consolidamento del progetto dell'autonomia scolastica. La verità è tutt'altra: l'autonomia da loro imposta tende all'autocrazia, ad una forma di governo dove un singolo individuo detiene un potere incompatibile con i bisogni dei sottoposti. Il movimento per la scuola pubblica crediamo abbia dato in questo senso una vera lezione di autonomia come volontà di autogoverno dei processi, di rifiuto positivo all'idea di una scuola pubblica palestra di autoritarismo e competizione con al centro l'uomo solo al comando.
Una reazione non scontata, soprattutto a fronte della complessità e dell'insidiosità del disegno proposto dal Governo. È utile riassumere - per completezza di analisi - cos'è la legge 107 a partire partendo dagli slogan renziani. L'autonomia tanto sbandierata e svilita del suo significato originario non è altro che un insieme di meccanismi utili alla centralizzazione centrale, come espresso nelle righe precedenti; l'organizzazione della scuola, con la chiamata diretta, il comitato di valutazione e la creazione dello staff del dirigente, è funzionale soltanto alla valutazione e alla messa in classifica dei soggetti che vivono la scuola e delle scuole stesse; il rapporto col lavoro è soltanto subordinazione agli interessi sul breve periodo delle imprese; il curriculum dello studente non è altro che il primo passo verso l'abolizione del valore legale del diploma; gli aiuti per coloro che frequentano le scuole paritarie rappresentano la volontà sempre più palese di far competere pubblico e privato; lo school bonus è il simbolo di una scuola-impresa che si deve immettere nel mercato per attirare finanziamenti, mandando in soffitta il suo carattere pubblico. La scuola “pubblica” sarà sempre più statale e sempre meno “pubblica”. Che significa? Significa che la scuola targata Renzi perde la libertà in favore dell'efficenza per la competizione col privato. In definitiva si vuole introiettare una gestione privatistica del pubblico. Una scuola che deve reggersi su se stessa e che, conseguentemente, richiede ai fruitori del “servizio” un lauto contributo. Il diritto al sapere è sempre più monetizzato e dunque privatizzato: per questo motivo continuare ad affermare la necessità del raggiungere la piena gratuità dell'istruzione assume una portata rivoluzionaria.
Per tornare alla reazione maturata nel corso dell'anno trascorso contro la riforma è utile citare Bartleby, lo scribano di Melville. Diceva "I would prefer not to", preferirei di no. È così che proprio da questa lezione di disobbedienza costruita pazientemente dagli studenti e dai docenti, si riesce a rintracciare il valore sociale dei saperi, per loro natura non misurabili, indomabili, indisponibili ad essere recintati, ma anche produttori di alterità ed emancipazione. Se dunque il referendum è una necessità, non lo è di meno il coltivare la tensione originaria del movimento, la sua propensione a rifiutare dal basso una legge ingiusta come quella de La Buona Scuola, costruendo di pari passo l'alterità. L'Unione degli Studenti, aproffondendo questa analisi, sta diffondendo da due mesi a questa parte il Manuale per una Scuola Ribelle, ossia un inedito corpus di buone pratiche, ordini del giorno, progetti, modelli di vertenza, per coniugare la contestazione alla creazione di un'Altra Scuola. Non basta mettere sabbia negli ingranaggi burocratici con i quali con fatica provano e proveranno ad imporre il disegno governativo: occorre attivarsi giorno dopo giorno per praticare l'alternativa, senza chiedere il permesso e senza delegare. È tempo di dismettere l'abito resistente e scontato del boicottaggio o del minoritarismo come unica alternativa: dobbiamo occupare tutti i posti residui, riempirli e inventarcene di nuovi. È il momento di costruire consenso attorno a proposte concrete e di commuovere, coinvolgere, colpire, agitare ricostruendo una tensione utopica. Non possiamo mica pensare di ricomporre una subalternità frammentata senza strumenti nuovi che sappiano far fronte al complesso sistema di controllo neoliberale, in particolare all'edificio mass-mediatico e alla sua produzione di soggettività, desideri e bisogni. L'ipotesi collettiva deve risultare appetibile di fronte alla realtà attuale individualista e consumista. Bisogna dimenticare il vecchio modo di fare politica, dismettendo ogni corporativismo. Se i tavoli son stati smantellati dall'alto, il conflitto che nel basso e dal basso va organizzato non può che essere di carattere politico e radicale.
Un esempio dal quale partire, sulla scuola, potrebbe essere l'idea di sviluppare forme di consiliarismo dal basso: coordinamenti della e per la scuola pubblica aperti a tutta la cittadinanza, funzionali a far uscire la scuola dalle quattro mura, dimostrando quanto la vera novità stia nell'idea di una scuola aperta alla città e al territorio, agorà e laboratorio di soluzioni comuni per cambiare i territori stessi, e non una scuola aperta alle esigenze dell'azienda della porta accanto che vuole soltanto lavoro gratuito just in time. Dunque è necessario, se si ambisce ad aprire una nuova stagione referendaria, riempire tutti gli organi collegiali, inventarne di nuovi, sperimentare nuove forme di didattica, valutazione e gestione radicalmente alternative a quelle proposte. La democrazia non vive di autorizzazioni, ma di scrittura collettiva di nuove forme di vita e di socialità. Mandiamo in soffitta la democrazia della solitudine a bassa intensità che si riduce nel click sul web per esprimere il gradimento o nel voto concesso a chi vive del voto stesso. Se il referendum contro La Buona Scuola sarà un'espressione positiva di democrazia ad alta intensità, lo sarà perché, proprio a partire dalle scuole, si sarà maturata l'esigenza della partecipazione attiva. L'assemblea tenutasi domenica 29, che segue a quella oceanica tenutasi a Bologna il 6 settembre, ha dato degli indirizzi precisi e da approfondire. Se tutto va bene dalla prossima primavera si partirà con la raccolta delle firme. I quesiti più gettonati sono i seguenti: per tutelare la libertà di insegnamento si propone di abrogare totalmente i commi 18, 79, 80, 81 della Legge 107, che introducono il potere del dirigente di scegliere discrezionalmente i docenti dall’organico dell’autonomia. L’abrogazione parziale del comma 82 fa in modo che il conferimento degli incarichi sia a carico dell’Ufficio scolastico regionale, che ovviamente dovrà operare tramite graduatoria; rispetto al mondo studentesco si propone invece di abrogare parzialmente il comma 33 eliminando l’obbligo di svolgere attività di lavoro di “almeno 400 ore negli Istituti tecnici e 200 ore nei Licei” al fine di riconsegnare alle istituzioni scolastiche la durata e le modalità di tali attività; infine si propone di eliminare il principale strumento di creazione delle disuguaglianze tra le scuole del sistema nazionale d'istruzione: la volontà è quella di abrogare nella legge la possibilità di erogazioni liberali private a favore di singole scuole pubbliche o private fino a 100.000 euro con detrazione del 65%. Nel corso dell'assemblea si sono discussi anche altri quesiti, ad esempio rispetto al comitato di valutazione e ai premi di merito. Il comitato promotore che si costituirà a gennaio, coadiuvato dai costituzionalisti che hanno già individuati i sopracitati quesiti, si occuperà di definire compiutamente quelli per i quali ci si dovrà impegnare per la raccolta delle firme.
Avviandoci alla conclusione della riflessione, è utile essere chiari su alcuni aspetti. Il referendum dovrà suscitare entusiasmo e ottimismo per una miriade di aspetti, ma non va travestito da strumento principe per la liberazione della scuola dalla tenaglia neoliberista, stretta ancor di più mediante la legge 107. Le potenzialità del referendum stanno principalmente nella sua capacità di intercettare il senso comune sull'idea di scuola e di democrazia, incentivare le lotte che continueranno a riprodursi, delegittimare l'azione di un Governo non votato da nessuno. Pertanto esso non potrà essere uno strumento di un pezzo di politica in un'ottica meramente antirenziana. Esso è lo strumento di una fetta di subalternità che vuole riprendere parola e potere dal "basso", contro un "alto" che decide da troppo tempo di scaricare sulle nostre spalle la sua crisi. Il percorso referendario, invece, dovrà essere ampio e plurale, in grado di mettere a sintesi le innumerevoli esigenze tentando di costruire una narrazione efficace, semplice e diretta, che punti ad aggregare sui bisogni e sull'idea democratica, gratuita e laica di scuola pubblica che continuare ad essere maggioritaria nel Paese. Non ci possiamo più permettere settarismi o corporativismi. Il movimento referendario non dovrà essere letto come un movimento di autoconservazione dell'esistente, ma dovrà raccontare e soprattutto essere costituente di un nuovo modo di fare scuola, fare società, fare politica. Dunque bando all'idea di utilizzare il referendum come lo strumento per abrogare tutte le parti della legge che attaccano la dignità del lavoro e la libertà d'insegnamento. Non è questo lo scopo che ci proponiamo: lo scopo è utilizzare il referendum come un ulteriore strumento per la riconquista della democrazia e la liberazione dei saperi. Per fare ciò è indispensabile immaginarsi un'alternativa da accompagnare alla campagna referendaria. Sempre dall'assemblea di Bologna, dalla giornata del 5 settembre, si è deciso di scrivere una nuova legge d'iniziativa popolare radicalmente alternativa per impianto culturale e riforma complessiva a quella del Governo. I campi d'intervento? Tra i tanti: diritto allo studio, riforma dei cicli scolastici, laicità, innalzamento dell'obbligo scolastico. L'obiettivo dichiarato è di sottoporre al Paese un'altra idea di scuola, magari prendendo spunto proprio dalle tante idee degli studenti contenute nel documento de l'Altra Scuola. Solo dopo la costruzione nella società si potrà utilizzare il Parlamento come strumento del sociale.
Lotte sui territori e dentro le scuole, scioperi, manifestazioni, referendum e legge d'iniziativa popolare parlano una stessa lingua, che è quella di un pezzo di subalternità, quella in formazione, che alzando la voce costruisce ponti con altre soggettività in movimento al fine di riconquistare la democrazia e la politica, restituendola alle persone. È chiaro: sperando che si riescano ad invertire i rapporti di forza, ci sarà anche il bisogno di fissare le vittorie sfruttando il terreno istituzionale. Non bisogna disdegnare, difatti, possibili vittorie parziali sulle deleghe della 107, in particolare quella sul diritto allo studio. Di sicuro però non ci si dovrà accontentare, ma utilizzare tutti i risultati per accumulare credibilità, restituendo fiducia e speranza in primis ai tanti che oggi stanno smettendo di resistere. Il referendum contro la Buona Scuola del Governo è soltanto un frammento del mosaico per costruire una politica radicale per tempi difficili, per tempi di crisi. Gramsci nel Quaderni del Carcere la descriveva così: "Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioé non è più <>, ma unicamente <>, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono straccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati (…)”.
La crisi democratica, ambientale, del modello di sviluppo e di welfare, nella loro drammaticità, sono occasioni per smascherare le contraddizioni dell'attuale sistema economico e politico. Il campo di lotta è ampio e ricco di pericoli, in primis se si pensa all'avanzata delle nuove destre come forza antisistemica che evoca preoccupanti scenari propri, storicamente, della fasi di crisi. Per questo è necessario inventare, sperimentare e organizzare mettendo a disposizione le migliori energie individuali e collettive al fine di non lasciare il percorso referendario agli addetti ai lavori, ma consegnarlo come una possibilità per cambiare il Paese sul lungo periodo. È rivoluzionario avere fiducia nelle persone, ci vuole tanto ottimismo e forza di volontà. Siamo una maggioranza gioiosa piena di potenzialità. Se sapremmo lasciare al campo avversario la paura riusciremo ad invertire il senso comune e a far esprimere una domanda generale di cambiamento, liberando i saperi, liberando le nostre vite. Bandiamo l'arrendevolezza, siamo un movimento resiliente!

Fonte: Il Corsaro

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