La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 dicembre 2015

Perché noi quarantenni non ci siamo ribellati

di Laura Eduati
Tito Boeri, presidente dell'Inps, avverte che i trentenni dovranno lavorare molto a lungo - fino ai 75 anni - per poi prendere una pensione del 25% più bassa di coloro che sono già anziani nel 2015. Probabilmente si è levato un coro poco udibile: "Magari". Perché tra periodi di disoccupazione, lavori precari, contratti poco generosi e stipendi ridicoli, è molto probabile che una buona parte dei giovani italiani arriverà a un assegno mensile molto più esiguo, al limite della miseria.
Il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha risposto a Boeri dicendo che i trentenni devono "cominciare a versare contributi" (sic) mentre il governo tenta di stabilizzare i contratti precari. Uno sforzo che finora non sembra aver dato frutti: i dati Istat di questa settimana rivelano che sono soprattutto gli over50 ad alzare l'asticella dell'occupazione italiana.
Dati a parte, spesso ai giovani (categoria alla quale ormai non appartengo, avendo 40 anni) viene rimproverato di lamentarsi molto e di ribellarsi poco. In effetti l'intervista di Zerocalcare sul tema è rivelatrice: il disegnatore, trentenne anche lui, sembra ripiegarsi su se stesso quando riassume che la sua generazione è perduta, dimenticata, invisibile. E' un pensiero che tocca spesso anche i quarantenni. Ma perché?
Non so mai cosa rispondere quando un sessantenne o un settantenne cerca di intavolare un discorso intorno alla questione generazionale, e quasi sempre dietro il tentativo di discussione scorgo un pensiero inespresso: "Noi sì che siamo stati bravi".
Sono stati bravi, i sessantenni e i settantenni che hanno vissuto la trasformazione del '68 e poi la ricchezza degli anni '80? Probabilmente sì. Hanno vissuto epoche più agiate e agitate dai venti del progresso. Oggi i ragazzi che scendono in piazza occasionalmente per far sentire la propria voce vengono stigmatizzati, come se fossero stupidi imitatori di un tempo passato.
Oggi il vero tabù sembra essere la mobilitazione collettiva. L'attivismo, il percorrere strade opposte, la ribellione allo stato delle cose sono visti come indegni, stupidi, antichi specialmente in una Italia che preferisce ampiamente la conservazione piuttosto che la trasformazione.
Pratiche analoghe compiute in altri luoghi, in altre latitudini, possono non trovare il plauso delle autorità ma aiutano a trovare una soluzione a problemi molto concreti e la mobilitazione imponente, come nel caso di "Black lives matter" in America contro il razzismo della polizia, arriva a scuotere le coscienze di una intera nazione. Non in Italia, dove per esempio l'attivismo per il reddito di cittadinanza o il reddito minimo sono viste dalla maggioranza che conta come buffonate e nei media passa continuamente il messaggio che i giovani dovrebbero accontentarsi, fare la gavetta, uscire di casa, accettare tutto quello che passa, anche stipendi vergognosi.
Può darsi che molte delle rivolte italiane siano ancora troppo ancorate aimeccanismi degli anni '70: scontri di piazza, lacrimogeni, dàgli al celerino, occupazioni. Molto nostalgico, in effetti. E dunque bisognerebbe discutere anche del come ribellarsi.
E' comunque interessante notare che quelle rivolte "classiche" di piazza siano le uniche senza padri e madri: non è più come al G8 di Genova dove esistevano organizzatori e alimentatori riconoscibili con nome e cognome. Oggi chi si ribella con una rabbia spesso cieca ha almeno compiuto il passo di non delegare la rappresentanza a nessuno.
Il fatto è che nella generazione di chi è nato negli anni '70 non è mai passato per la testa di potersi ribellare contro i propri padri, contro il '68, contro coloro che dopo aver indossato l'eskimo e letto Pasolini hanno infilato la giacca, annodato la cravatta e continuato un discorso di ribellismo pur aderendo, come un adesivo, ai propri interessi particolari.
Ma soprattutto non è mai stato preso in considerazione di detronizzare una volta per tutte anche i genitori "buoni", quelli che sono rimasti fedeli all'idea di un cambiamento progressista della società: detronizzarli non tanto per le idee che portano, quanto per la loro straordinaria inefficienza. Le idee possono essere rivoluzionarie, ma occorrono ottime gambe. E non basta aver ragione.
In questo senso colpiscono, anche se non è certo una ribellione generazionale, le critiche che Franco La Torre ha rivolto a don Luigi Ciotti all'interno di Libera. Don Ciotti ha liquidato La Torre, uno dei simboli dell'antimafia in Italia, con un messaggio che per il momento non ammette repliche. "Mi è sembrata la rabbia di un padre contro un figlio", ha detto La Torre in una intervista all'HuffPost. Un figlio che tenta nuove strade e cerca di confrontarsi con un padre buono, portatore di ideali condivisibili, ma che trova la strada sbarrata: è questa la storia della nostra generazione?
Non è necessario fare nomi, ma nel tempio c'è una lunga lista di padri e madri (non biologici naturalmente) che nessuno di noi ventenni e trentenni ha mai osato mettere in discussione. Perché avevano scritto ottimi libri, perché si sono dannati l'esistenza per un mondo migliore, perché sono animati da lodevoli intenzioni, perché non l'hanno mai fatto per una ambizione personale, o solo in parte.
E così noi giovani (dico: noi quando lo eravamo e cioè fino a una decina di anni fa) abbiamo continuato a seguire con affetto e quasi idolatria persone che ci rappresentavano idealmente ma che nella concretezza dell'agire politico si sono rivelate in parte fallimentari. Dovevamo prendere il loro posto, ma non l'abbiamo fatto perché solo il pensiero ci riempiva di senso di colpa e temevamo pure uno sganassone.
Abbiamo preferito rimanere nelle tracce di quei genitori idealizzati, anche quando vedevamo che ripetendo le stesse azioni (proteste, lotte, referendum, mobilitazioni, dibattiti, convegni, partiti, rifondazione di partiti, dibattiti, tavole rotonde, democrazia partecipata, riunioni, occupazioni, salire sui tetti, tirare sampietrini, bloccare la tangenziale, girotondi, bandiere in piazza, bella ciao) il risultato non cambiava.
E chi se ne accorgeva è rimasto in disparte, muto, lasciando che l'ortodossia rimanesse inalterata.
Al ricambio generazionale per rinnovare spirito, idee e strumenti abbiamo preferito lotte lontane e ontologicamente contrapposte: la finanza globale, il governo, Berlusconi, la polizia, il conflitto israelo-palestinese, i curdi del Rojava, i baschi, la Grecia di Tsipras e Varoufakis e via discorrendo.
Abbiamo scelto forse non proprio consapevolmente di rimanere figli ubbidienti di genitori che poco a poco si sono rivelati incapaci. E ora ne sopportiamo le conseguenze.

Fonte: Huffingtonpost.it - blog dell'Autore 

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