La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 3 dicembre 2015

Turchia, l’Akp di Erdogan dal ‘pluralismo’ all’unanimismo autoritario

di Lea Nocera 
La Turchia non smette di avere gli occhi puntati addosso. È uno sguardo interrogativo, esplorativo, in cui si confonde un misto di paure e pregiudizi, angosce e remote speranze. In un perenne gioco di distanze elastiche, agli occhi dell’Europa la Turchia appare, come sempre, un paese vicino e lontano. Passa da essere un affidabile interlocutore politico ed economico – e qui la distanza si riduce al minimo – a un paese musulmano, attraversato da gravi tensioni interne, e proteso in quel Medio Oriente dilaniato dai conflitti, che i cittadini europei respingono nel loro immaginario in un territorio ben lontano, nel tentativo ultimo di salvaguardare la propria tranquilla ordinarietà. 
Negli ultimi mesi, l’urgenza degli eventi non ha fatto che intensificare questa costante, e contrastante, percezione della Turchia: con la crisi dei rifugiati e, più in generale, dei migranti, che altro non è che una crisi delle frontiere europee, il dialogo europeo, la cooperazione tra Ue e governo turco ha preso nuovo slancio; allo stesso tempo, dopo gli attentati di Parigi e le misure antiterrorismo prese in Francia e negli altri paesi europei, la paura della guerra che arriva in casa e il rigurgito razzista e xenofobo contro l’islam e i musulmani in generale – non molto diverso da quello che seguì gli attentati dell’11 settembre – la Turchia non potrebbe essere più lontana dall’Europa, per la sua popolazione musulmana, per i trascorsi ambigui con l’Is, per il confine che brucia. 
Sono trascorsi giusto tredici anni da quando Recep Tayyip Erdoğan è salito al potere. Quando il partito da lui fondato, insieme a Abdullah Gül, presidente della Repubblica tra il 2007 e il 2014, vinceva le elezioni nel novembre 2002, l’Europa fu attraversata da un brivido per il timore che fosse il segnale di una radicalizzazione in senso religioso del paese. Bastarono pochi anni perché invece la Turchia venisse considerata un modello per la regione, affermandosi come sintesi riuscita tra democrazia e islam. Senza dubbio, i primi anni Duemila sono stati decisivi per il rilancio del paese sullo scenario internazionale. Forte di una ripresa economica, che di lì a poco sarà ineguagliabile, e di una relativa distensione nel paese che segue a una serie di riforme politiche e giuridiche, il governo dell’Akp getta in quegli anni le basi di un successo che nel corso di oltre dieci anni sarà però sempre più criticato e messo in discussione. 
Negli affari esteri, la tanto declamata politica di «zero problemi con i vicini», che appariva come la carta vincente della nuova linea turca nelle relazioni internazionali, ha dovuto fare i conti con una situazione divenuta via via critica su più fronti. La Siria, primo tra tutti. Allo stesso tempo l’incapacità di mantenere la neutralità che doveva essere alla base di quell’approccio, come nel caso degli sviluppi in Egitto, ha mutato per un periodo la condizione del paese in una «preziosa solitudine», come l’aveva astutamente definita un paio di anni fa il consigliere capo per gli Affari esteri di Erdoğan. Eppure in questi anni, grazie a una strategia di penetrazione economica sostenuta da un insieme di strumenti utili ai fini di esercitare un’egemonia culturale e politica, la Turchia è riuscita nel frattempo ad accrescere la propria influenza e a veicolare un’idea di sé attraente. 
Le politiche culturali, l’uso dei media e, in particolare, dei canali satellitari, quindi le soap opera, ma anche le organizzazioni umanitarie e gli aiuti allo sviluppo, le scuole e le associazioni religiose hanno contribuito a rafforzare un’immagine solida e strutturata del paese fuori dai confini nazionali, nei Balcani, nella regione del Caucaso e in molti paesi arabi. Si è parlato molto di neo-ottomanismo: l’uso politico di una riscoperta del passato imperiale per promuovere una visione odierna di supremazia. Il termine non è mai stato rivendicato dai dirigenti del partito al governo, ma è evidente come oggi si stia riscrivendo una narrativa di quella storia con la quale Mustafa Kemal, in nome della modernizzazione, aveva stabilito una cesura netta. 
Una riscrittura che avviene soprattutto per colpi ad effetto ed anche letteralmente scenografici, come quando nella recente visita della cancelliera Angela Merkel in Turchia, il presidente della Repubblica Erdoğan l’ha invitata a sedersi al suo fianco su un trono dorato in stile imperiale. Oppure quando, in occasione dell’incontro con il presidente palestinese Mahmud Abbas nella gigantesca residenza presidenziale di Ankara, la loro stretta di mano è avvenuta sotto lo sguardo di una schiera di sedici guerrieri in costume, a rappresentare gli imperi turchi precedenti la conquista dell’Anatolia. Di questi eventi piuttosto scenografici arrivano eco anche da noi in Italia, dove di frequente viene ripreso il termine «sultano» un po’ per criticare le derive autoritarie della politica di Erdoğan, un po’ perché è accattivante nella costruzione mediatica di una differenza e di una lontananza e probabilmente, nell’insistere sul carattere ridicolo, anche di una nostra supposta superiorità. 
Il ricorso alla storia, ai simboli del passato, per quanto talvolta caricato di toni nostalgici, appare però parte di una politica molto più complessa e articolata, che sta definendo il quadro ideologico di un nazionalismo turco riformulato. Perché alla riscoperta dell’impero ottomano si accompagna anche una riappropriazione dei simboli e dei motivi repubblicani. Così, se funzionale alla propaganda del partito Akp nella recente campagna elettorale è stata la cerimonia in pompa magna organizzata dal governo per l’anniversario della presa di Costantinopoli (la «conquista di Istanbul» in turco), alla quale in relazione ai propri ruoli istituzionali hanno partecipato i maggiori esponenti del partito, strumentale è apparsa anche la scelta di organizzare, alla vigilia dell’anniversario della cosiddetta guerra d’indipendenza, un importante comizio elettorale proprio a Samsun, città in cui Mustafa Kemal sbarcò nel 1919 per dare inizio a quella stessa guerra d’indipendenza, costitutiva del mito fondatore della repubblica. 
La rivalutazione del passato ottomano non si propone quindi in alternativa alla storia nazionale repubblicana, ma appare più che altro motivo di una grandeur da affermare sia nei confronti degli altri paesi nella regione, sia nei confronti dell’Europa. Per questo motivo la contrapposizione spicciola tra laici o kemalisti da una parte e islamisti dall’altro, a cui si ricorre spesso in Italia per spiegare gli sviluppi politici del paese o manifestazioni di protesta appare riduttiva e semplicistica. Alcuni analisti critici nei confronti dell’Akp e di Erdoğan, come Mustafa Akyol, sottolineano anzi come di fatto l’attitudine del governo non si discosti molto dall’autoritarismo di Atatürk. L’analogia è favorita da una forte personalizzazione della politica, ancora molto accentuata, che vede nella figura di Erdoğan l’uomo forte che deve portare a termine una missione nazionale, attraverso una trasformazione di costumi e modi e una ridefinizione della storia e della lingua del paese (in tal senso è interessante la proposta di introdurre l’ottomano nelle scuole). 
Non è un caso che, al di là delle singole campagne elettorali, il progetto politico complessivo dell’Akp ruoti attorno a «Obiettivo 2023»: una lunga serie di risultati ambiziosi in diversi campi – economia, esteri, energia, trasporti, occupazione, sanità, turismo solo per citarne alcuni – che il governo vorrebbe ottenere entro il centenario della repubblica. Un programma di lungo periodo lanciato per le politiche del 2011 che non solo già allora esplicitava l’intenzione del partito di governare il paese ben oltre il periodo di una legislatura, ma che ancora oggi mostra la sua visione di trasformazione generale del paese. La cosiddetta «Nuova Turchia», per la quale è già pronto un inno, che dovrebbe sorgere proprio al compimento dei cento anni della repubblica, nel 2023 appunto. 
In realtà negli ultimi anni questo progetto a vasto raggio ha incontrato non pochi ostacoli. Le proteste sindacali, le manifestazioni di piazza, le critiche che giungono dagli ambienti intellettuali sono solo alcuni dei segnali. Dal punto di vista politico il partito Akp ha anche registrato un calo di voti, sebbene in parte recuperato all’ultima tornata elettorale. Le critiche si muovono contro un modello che sembra sintetizzare uno sfrenato neoliberismo e una deriva autoritaria. Le accuse contro il governo di reprimere la libertà di stampa e di espressione, di aggravare le disparità sociali, di frammentare la società turca accentuando e radicalizzando le differenze sono oramai all’ordine del giorno. 
Nel momento in cui il consenso nel paese si è rivelato molto meno unanime di quanto propagandato, si è cominciato a insistere sulla nazione. La retorica dell’unità nazionale, che deve essere compatta e forte, contro il terrorismo e gli attacchi esterni, è quindi entrata a far parte pienamente del discorso politico dell’Akp, dopo essere stata da sempre l’asse portante del nazionalismo kemalista, il motivo del ruolo forte dei militari, la ragione per contenere ogni spinta di autonomia e rivendicazione da parte delle minoranze. 
Ciò è accaduto in particolare a partire dal 2013, da quando il partito ha attraversato momenti critici, sia per le proteste di Gezi, sia per lo scandalo di corruzione, che oltre a costringere il governo a un rimpasto ha soprattutto minato la credibilità dei suoi dirigenti e ha scomposto equilibri e alleanze politiche. In un capovolgimento delle parti, ogni critica al governo si è trasformata in un tentativo di screditare il paese, di rallentare la crescita, di frenare lo sviluppo e il successo. Dietro ogni voce d’opposizione di fatto pareva celarsi un cospiratore. Il nemico interno non era quindi uno solo ma ha avuto, a seconda delle situazioni, il volto della sinistra e degli attivisti di Gezi, dei seguaci del movimento islamista di Fethullah Gülen, dei curdi. 
Di fronte alle supposte minacce contro la nazione l’Akp si è sempre proposto come unico rappresentante possibile dell’insieme del paese. Molto significativo in tal senso è stato uno spot preparato per la campagna elettorale delle amministrative del 2014, poi vietato dalla Commissione nazionale dei servizi elettorali turchi (Ysk) per uso improprio a fini politici della bandiera turca. Il video, della durata di tre minuti, era un breve filmato con riprese aeree ed effetti speciali, in cui la voce fuori campo di Erdoğan, riprendendo passi dell’inno repubblicano, chiamava la popolazione a una missione nazionale: tenere alta la bandiera, che un non meglio identificato uomo vestito di nero con i guanti di pelle, cercava di far ammainare rompendo un grosso ingranaggio posto alla base dell’asta gigantesca che la sorreggeva. Alla fine l’enorme drappo rosso con la mezzaluna e la stella sarebbe tornata a sventolare con l’appoggio di tutti, persone di tutte le età e appartenenza sociale. «La nazione non si piegherà, la Turchia non sarà sconfitta» era lo slogan di quello spot. In modo non molto diverso, per le ultime elezioni, Erdoğan e Davutoğlu sono tornati ad affermare: «Una sola nazione, una sola bandiera, una sola patria, un solo Stato», contro presunte accuse di separatismo. 
È possibile affermare che in concomitanza con l’ascesa politica del partito Hdp, una formazione che ha tanto una matrice originaria quanto una grossa base curda ma che ingloba anche istanze della sinistra progressista, il partito dell’Akp ha cominciato a porre sempre più l’accento sull’integrità territoriale. Certo si capisce come questo tema sia ritornato in auge con la minaccia dell’Is alle porte e la guerriglia curda che, dopo alcuni successi al confine, come a Kobânê, e gli attacchi dell’esercito, è tornata a combattere anche nel paese. 
Il nazionalismo dell’Akp, che sfodera tutto il repertorio classico del tema, è in contrasto con l’immagine che il partito si è costruito nel corso dei suoi primi anni e alla quale deve anche parte del suo iniziale successo. Quando vinse le sue prime elezioni politiche, il partito puntava molto sul riconoscimento dei diritti individuali e delle minoranze, della libertà di espressione; proponeva l’importanza di uno Stato di diritto e di una democrazia effettiva in contrapposizione a un regime democratico sotto perenne tutela dell’esercito. Aveva trasformato in realtà in programma politico un’esperienza difficile di marginalizzazione ed esclusione dall’arena politica. Due partiti che possono essere considerati gli antesignani dell’Akp, il Partito del benessere (Refah Partisi) e il Partito della virtù (Fazilet Partisi) erano stati messi al bando dalla Corte costituzionale in nome della laicità dello Stato. Lo stesso Recep Tayyip Erdoğan, che era stato già sindaco di Istanbul nel 1994, aveva trascorso un periodo in carcere e non aveva potuto ricoprire da subito la carica di primo ministro perché interdetto dagli incarichi politici. La sua e quella del partito era quindi la rivendicazione di una partecipazione politica che non di rado ha assunto i toni di una rivalsa, in particolare nei confronti dell’esercito, il cui ruolo politico veniva progressivamente ridimensionato e in parte neutralizzato. Nei primi tempi in realtà l’Akp intercettava un malcontento generale, una stanchezza nella popolazione desiderosa di cambiamento, dal punto di vista economico ma anche sociale, politico. Per quanto molti siano scettici, la vittoria di questo partito sembra comunque introdurre un elemento di discontinuità e aprire una possibilità di dibattito parlamentare. 
Effettivamente, nei primi tempi la questione delle libertà individuali appare essere una priorità del governo. Le riforme stimolate dal processo di adeguamento richiesto dai parametri europei non fanno che accentuare un cambiamento nel paese. Nei primi anni Duemila si prova nel paese l’ebbrezza di una ventata di nuovo: le femministe ottengono la riforma del codice penale, viene abolita la pena di morte, si aprono i negoziati di adesione all’Ue, il Pkk dichiara il cessate-il-fuoco, è riconosciuta l’esistenza di una questione curda. La ripresa economica di questo periodo non fa che favorire il quadro generale. Molti sono i cambiamenti, ma proprio l’atteggiamento nei confronti dei curdi – la cosiddetta «apertura democratica» – si rivela di portata storica. Infatti, nonostante la legge antiterrorismo del 2006 e una serie di misure successive sembrano continuare ad avere di mira i media e le organizzazioni politiche curde, in questo periodo il discorso su un eventuale processo di pace entra a far parte del linguaggio politico. Molto peso viene dato dall’Akp in questi anni al pluralismo, si parla di multiculturalismo e, anche se avviene in modo retorico e spesso a ridosso degli appuntamenti alle urne, anche per accogliere e fare proprie delle richieste della società civile, ciò contribuisce a un mutamento delle categorie del lessico politico. 
In tutti questi anni anche la sinistra, una compagine molto eterogena di gruppi e individui che non si riconoscono, per niente o solo in parte, nell’opposizione kemalista, perché tradizionale e quindi refrattaria al cambiamento, affina i propri discorsi politici, elabora nuove alleanze trasversali e intergenerazionali. Quando scoppiano le proteste di Gezi, alla fine di maggio del 2013, ciò si manifesta in modo chiaro. In quell’occasione, che si distingue come uno spartiacque nella storia turca, una serie di gruppi si compatta nell’opposizione e la critica al governo di Erdoğan e dell’Akp. Per la prima volta le rivendicazioni di singole organizzazioni, associazioni confluiscono in un unico discorso. In molti capiscono che bisognava superare le frammentazioni e le battaglie specifiche per convogliare tutti gli sforzi in una sola opposizione e in un progetto condiviso per l’affermazione delle libertà di tutti. Anche la questione curda comincia così a essere considerata una questione collettiva, che non riguarda più soltanto i diritti di una parte della popolazione, ma il riconoscimento di una società plurale, aperta. 
Il partito Hdp è l’unica formazione che riesce in qualche modo a tradurre sul piano della politica gli sviluppi di Gezi, anche se a livello generale tutta la società turca resta da allora più politicizzata e più sensibile rispetto all’attualità e a questioni sociali. L’Hdp fa proprio il lessico politico che si è rielaborato molto in quei giorni di protesta, lascia intravedere a molte persone la possibilità politica di una terza via, oltre il kemalismo e il conservatorismo religioso. Proprio per la sua capacità di allargare la base dell’elettorato oltre ai curdi, l’Hdp riesce in un’impresa che è anche una sfida politica: il superamento dello sbarramento elettorale del 10 per cento. Le elezioni di giugno si concludono con un esito sorprendente: l’Akp registra un calo netto, l’Hdp entra con ben ottanta deputati e, soprattutto, è necessario formare un governo di coalizione. Il grande successo dell’Hdp viene festeggiato dalla sinistra, da sempre molto fiduciosa nel sistema parlamentare. È il successo di una campagna elettorale costruita dal basso, che si è basata tutta sui concetti di pluralismo, di pace, di partecipazione e in cui l’alleanza trasversale tra la sinistra e i curdi si dimostra forte e virtuosa. 
Ai tentativi da parte del presidente della Repubblica Erdoğan e dell’Akp di screditare il partito denunciando connessioni con la guerriglia armata e accusandolo di voler disseminare il terrore nel paese, l’Hdp, che ha non a caso due leader, un uomo e una donna, reagisce con scaltrezza, pacatezza e rinviando a un’immagine allegra e compatta, di grande solidarietà. Persino quando due giorni prima del voto un comizio del partito a Diyarbakır viene attaccato con un’esplosione e molti restano feriti, continua a rivendicare la pace come progetto e strategia politica. L’Akp perde molto con queste elezioni. Innanzitutto, la possibilità di introdurre il regime presidenziale, primo obiettivo della politica di Erdoğan. E poi un freno per le riforme e una disfatta in quello che era ed è descritto come un percorso inesorabile di trionfi e successi. 
La coalizione non si riesce a formare. La popolazione è richiamata al voto a novembre. I mesi che intercorrono, però, sono lunghi e durissimi, e andranno ad aggiungere nuove date alla lista nera degli eventi tragici e cupi che costellano la storia repubblicana. Due attentati sconvolgono il paese. Il primo avviene il 20 luglio a Suruç, vicino al confine siriano e colpisce un gruppo di giovani socialisti diretti a Kobânê per portare aiuti e materiali utili alla ricostruzione della città. Muoiono trentaquattro persone per un kamikaze che si fa esplodere tra i ragazzi; l’attentato è rivendicato dall’Isis. Quella sinistra allegra e combattiva che meno di un mese prima aveva festeggiato il risultato elettorale resta atterrita. Le accuse sono dirette al Palazzo, a Erdoğan. Molti denunciano le ambiguità del governo nei confronti dell’Is, su cui del resto molti giornalisti turchi si sono interrogati, subendo in seguito attacchi diretti e minacce. Dopo qualche giorno però la Turchia stringe un accordo con gli Stati Uniti e concede la base aerea di Incirlik, entrando a far parte a pieno titolo nella coalizione anti-Is. Le operazioni militari dell’aviazione turca si concentrano soprattutto però contro le basi del Pkk, anche nel Nord Iraq. In poco tempo si inasprisce lo scontro tra lo Stato turco e i guerriglieri curdi, viene messo il coprifuoco in alcune città del Sud-Est, la situazione si aggrava di giorno in giorno. 
In questo contesto viene organizzata una grossa manifestazione per la pace, nella capitale Ankara. Qui, il 10 ottobre, avviene un attentato gravissimo che lascia il paese sconvolto. Due kamikaze si fanno esplodere a distanza di pochi minuti nei pressi della stazione centrale, punto di partenza della manifestazione. Oltre cento i morti, centinaia i feriti. Anche in questo caso si parla di membri turchi dell’Is anche se l’organizzazione non rivendica l’operazione. È la prima volta che un attentato avviene nel cuore del paese, nel centro politico-amministrativo, e colpisce persone accomunate dall’appartenenza a quest’area ampia ed eterogenea della sinistra turca che si è andata formando negli ultimissimi anni. 
Il clima che precede le elezioni di novembre diventa tesissimo. La minaccia dell’Is a pochi chilometri dal confine, dopo gli attentati nel paese, trasforma la campagna elettorale dell’Akp in una campagna contro il terrorismo. Con la situazione che si aggrava nel Sud-Est, dove il coprifuoco blocca cittadine per settimane, per il governo il terrore però è anche quello del Pkk. La strategia contro il terrore legittima attacchi contro l’informazione e nei primi mesi autunnali si segnalano aggressioni a giornalisti, arresti, perquisizioni in diverse sedi televisive. 
Il voto di novembre, mentre molti ancora fanno pronostici su quale coalizione sia possibile, consegna di nuovo la maggioranza all’Akp. Un successo che si spiega con la promessa del partito di stabilità. L’Hdp perde voti, rischia di non superare la soglia, ma alla fine porta 59 deputati in parlamento, che è comunque un buon risultato. Se non fosse che a leggere bene lo scrutinio emergono alcuni dati. Intanto è chiaro come l’Hdp, rimasto intrappolato nella questione curda, abbia relativamente perso quel carattere innovativo che era stato capace di costruirsi ed è tornato a rappresentare principalmente la popolazione curda. Sull’altro fronte l’Akp ha ottenuto una vittoria promettendo stabilità e pugno duro, ribaltando completamente il discorso del pluralismo. La fratellanza promossa a tambur battente dagli esponenti dell’Akp, in realtà, è legata a una nazione coesa e omogenea dove gli elementi di alterità e differenza sono percepiti come fattori di disturbo, soggetti pericolosi, promotori di instabilità, incertezza, pericolo. Ecco, quindi, che dopo anni e cambiamenti la questione curda non solo continua a essere uno dei temi centrali della politica turca e un grande irrisolto del paese, ma ciò avviene anche con il recupero di vecchi discorsi e dicotomie il cui superamento non solo appariva e appare auspicabile, ma è anche necessario. 
I risultati delle politiche di novembre ha sorpreso tutti in Turchia, anche perché nessuna previsione era andata in tal senso. Alcuni sono persino arrivati a dire che sarebbe necessaria una riformulazione delle scienze sociali nel paese visto che non sono in grado di leggere i cambiamenti, il profilo della nazione, gli orientamenti politici della popolazione. Sta di fatto che nella sinistra l’esito ha lasciato non solo amarezza ma anche sgomento. La fiducia nell’istituto democratico che sembrava essere stata premiata con le elezioni di giugno, quando i risultati descrivevano un paese dalle diverse anime poste in condizione di dialogare, ha subìto un duro colpo. Non che a novembre il voto non sia avvenuto in modo legittimo, ma ha seguito una campagna elettorale basata sull’aggressività, la paura e la violenza. E molti hanno percepito che si trattasse di un pugno forte pronto a schiacciare il desiderio di cambiamento. 
In Turchia si vive in un clima di inquietudine, di circospezione, di sospetto. Eppure mai come in questo periodo sembra avere preso nuovo slancio il dialogo europeo. La situazione dei profughi siriani, circa due milioni in Turchia, ha portato la cancelliera Merkel a fare visita a Erdoğan, occasione per stabilire un accordo sulla migrazione. Un accordo che di fatto, come è stato sottolineato da alcuni giornalisti turchi, Cengiz Aktar (politologo e giornalista, esperto di politiche europee) primo tra tutti, non introduce nulla di nuovo nelle trattative già in corso tra Ue e Turchia e che, in sintesi, prevedono da parte turca un maggiore controllo delle frontiere e la riammissione dei migranti che provengono dal paese, in cambio di una legalizzazione dei visti, un grosso sostegno economico e la riapertura dei negoziati. Nulla di nuovo sul fronte europeo se non l’appoggio dato a Erdoğan e Davutoğlu in campagna elettorale, come è apparso a molti questo incontro. Tanto più che la pubblicazione del rapporto annuale sui progressi compiuti dal paese in vista di un’adesione all’Ue, annunciato per metà ottobre è stato più volte rimandato fino a essere reso pubblico solo un mese dopo, a risultati elettorali conclamati. 
Il rapporto sottolinea come ci sia stato negli ultimi anni un peggioramento nel rispetto delle libertà di espressione e di riunione mentre nessun miglioramento è stato registrato nell’implementazione dello Stato di diritto. Nella relazione l’Ue ritorna insistentemente su alcuni punti – quelli relativi alle libertà individuali e collettive e al rispetto dei diritti umani – che da sempre sono una condizione per l’adesione del paese. Eppure oggi non appaiono questi come temi sensibili e anzi la Turchia, negli scambi diplomatici che si susseguono per la questione dei rifugiati, alza la posta chiedendo una riapertura di molti capitoli dei negoziati, anche di quelli su cui Cipro ha posto il veto. 
È interessante come nel clima teso che oggi attraversa l’Europa, tra quella che è descritta come l’emergenza profughi da un lato e la terribile minaccia del terrorismo dall’altro, in una condizione in cui le esistenze e la quotidianità sembrano dover essere necessariamente contenute in politiche securitarie, la Turchia stabile e forte di Erdoğan ritorni ad avere un ruolo importante nello scenario internazionale e nelle relazioni con l’Europa; quella stessa Europa che per una buona parte della popolazione della Turchia ha rappresentato a lungo la possibilità di cambiamento in senso democratico del paese.

Fonte: MicroMega online 

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