
di Elena Gerebizza
Azerbaigian, Nigeria, Kazakistan, Angola. Tutti paesi che dipendono pesantemente dall’esportazione di petrolio e gas, che genera almeno la metà delle loro entrate. Tutti paesi portati ad esempio dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, nei primi anni del nuovo secolo, per come il petrolio garantisca loro ricchezza, aiutando a sconfiggere la povertà. Proprio l’FMI ha definito le regole per la creazione di fondi statali in cui siano convogliati i proventi dell’oro nero, in modo da ridurre la corruzione e garantire investimenti in infrastrutture di base e nella diversificazione dell’economia.
Oltre la retorica, oggi rimane poco dello scenario disegnato dagli economisti di Washington. La diversificazione non c’è stata, così come non si sono svolti i processi democratici, mentre la lotta alla corruzione continua a essere una nota dolente. I soldi del petrolio finiscono spesso nelle tasche della ristretta cerchia delle élite al potere, che gestiscono la ricchezza del petrolio in maniera personalistica. Il resto della popolazione vive tra la povertà e l’indigenza più estrema. E oggi questi paesi sono pesantemente in crisi.
Al recente World Economic Forum di Davos l’ottimismo sulla ripresa è svanito come neve al sole. Gli analisti parlano di “prezzi del petrolio sempre più bassi e per un periodo sempre più lungo”. Niente ripresa, prezzo del petrolio sui 30 dollari al barile per tutto il 2016, e niente “peak oil” o fine del petrolio a buon mercato. Al contrario: troppo petrolio in circolazione. La stampa finanziaria sta finalmente riconoscendo che le oscillazioni del prezzo hanno poco a che fare con domanda e offerta, ma che dietro c’è lo zampino dell’immancabile speculazione finanziaria.
Da Davos ci dicono che i nuovi investimenti nel petrolio (e nel gas) sono fermi, e lo saranno per alcuni anni. Per il direttore esecutivo dell’Agenzia mondiale per l’energia Fatih Birol, “molte società stanno tagliando gli investimenti in nuovi progetti”. Un ulteriore calo del 16% nei nuovi investimenti è atteso per il 2016, ossia “qualcosa che non abbiamo mai visto nella storia del petrolio”. Tutto ciò si accompagna a una significativa perdita di posti di lavoro.
Il crollo del prezzo dell’oro nero, l’arretramento degli investimenti, ma anche la riduzione del valore delle riserve di petrolio e delle entrate previste sia dalle aziende che dai paesi esportatori sta avendo un effetto anche sul rating di questi ultimi. I titoli, prima considerati “sicuri”, ora non lo sono più. Moody ha annunciato il possibile downgrading di 175 compagnie petrolifere e minerarie a livello globale, incluse majors come Shell, BP, ENI ma anche i colossi minerari Rio Tinto e Alcoa.
Standard&Poor invece ha “svalutato” i titoli di stato dell’Azerbaigian, ora paragonati a titoli “spazzatura”.
Nel frattempo l’Unione europea sta puntando proprio sull’Azerbaigian per realizzare un collegamento diretto con i giacimenti di gas nel Caspio, bypassando la Russia, con un investimento di 45 miliardi di euro nel Corridoio Sud del gas. È legittimo chiedersi quindi quale sia la situazione reale in questi paesi, specie dove la repressione della stampa libera e della società civile organizzata ha decimato le fonti di informazione non controllate dai governi. Qual è la capacità di quei governi di garantire investimenti decennali in nuove infrastrutture faraoniche (come il Corridoio Sud del gas)? Ma, soprattutto, quali sono le responsabilità delle istituzioni europee, come la Banca europea degli investimenti, ma anche della stessa Commissione europea, nel sostenere finanziariamente e politicamente dei progetti che rispondono a esigenze del Vecchio Continente? Esigenze che peraltro contrastano con i principi “democratici” che la stessa Unione europea riconosce come propri, incluso il rispetto dei diritti umani e il diritto delle popolazioni di decidere come utilizzare le proprie risorse.
Azerbaigian e Nigeria sono i primi due paesi ad essersi rivolti alla Banca Mondiale e al Fondo monetario per fare fronte a un enorme buco di bilancio, chiedendo prestiti rispettivamente di 3,5 e 4 miliardi di dollari. Non per risolvere la vita agli oltre 90 milioni di nigeriani che vivono sotto la soglia di povertà, ci mancherebbe. Forse solo per garantire che il petrolio (e il gas) continuino a scorrere, e che l’ingranaggio del sistema economico e finanziario internazionale non si inceppi. Ma queste domande a Davos o a Bruxelles non se le è poste nessuno.
Fonte: recommon.org
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