La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 20 gennaio 2016

Come vivono i giovani la società moderna

di Francesco Paolo Cazzorla 
Più studio e più verrò pagato meno. Più mi specializzo e più contribuisco a confinarmi dentro una roba che capiranno solamente quei due o tre. Più faccio il bravo e l’onesto, e più le conseguenze delle mie azioni mi remeranno contro. Più sono innocente e innocuo e più c’è il rischio che venga ucciso. Più sono libero – godendo di diritti inalienabili – e più di fatto non lo sono. Più credo di elaborare dei pensieri miei intimi e personali, e più questi saranno il risultato di un incessante rumore di fondo, che ha fatto di infinite immagini scorrevoli il suo disturbo più assordante.
Più cerco il mio silenzio, e più mi ritrovo in mano il suo artefatto. Più credo di essere un cittadino consapevole e più divento un consumatore del nulla, un nulla che assomiglia inequivocabilmente a me stesso. Più mi dicono che – un domani – tutto potrà cambiare, e più questa affermazione nasconderà il suo più sicuro non-cambiamento. Più penso di aver individuato dei colpevoli a tutto questo, e più mi accanisco inutilmente su marionette pagate per farlo. Più mi vedo accerchiato da tutte queste contraddizioni, e più mi rendo conto che devo necessariamente imparare a conviverci.
E allora mi cerco, ma non mi trovo. Cerco da qualche parte un’uscita, e mi rendo mobile, mi sradico, proiettandomi ovunque sia, il posto non m’importa, pur di trovare una spicciola possibilità di lavoro che – dove sono al momento – si è dileguata: se c’è è riservata a quei pochi, ed è (anche) per questo che non mi viene assolutamente offerta. E quindi dovrò iniziare tutto daccapo, mi azzero, che importa, in un contesto che non è il mio, ed inizierò nuovamente a muovermi, piano piano, prima a piccoli passi, poi nuovamente con la mia testa, risvegliando minuziosamente tutte quelle mie singole percezioni che per troppo tempo ho permesso rimanessero assopite. Sì, troppo tempo: è questo il lastrico di vita in cui mi sono lasciato cullare dalla depressione, dove tra un’altalena e l’altra costantemente mi colpevolizzavo, ce l’avevo con me, e dove per tutto questo tempo ho pensato seriamente di non essere all’altezza, di non essere in grado di esperire ciò che le mie sensibilità volevano comunicare al mondo.
Quando finalmente ci riesci, riesci cioè a trovare quel tuo lavoretto semi-serio, che ti dura almeno quell’arco di tempo costituito da quei 3 mesi al massimo “di prova”, in cui sei quasi in grado (forse per miracolo) di pagare l’affitto di casa con i soli tuoi sforzi, senza beneficiare del welfare personale chiamato “mamma e papà”, allora significa che per un po’ puoi stare al caldo, e puoi tranquillamente espellere un po’ di quella robaccia che avevi iniziato ad accumulare su per la tua testa, (inconsapevolmente), in un angolo malriposto della tua mente, e che stava cominciando a crescere talmente tanto da cambiarti letteralmente i connotati: ti stava rendendo una persona che, assolutamente, non vuoi e non ti senti in alcun modo di essere. Ma non si può stare tranquilli. Quella robaccia cresciuta in testa rimane vivida, resta allerta, e a volte si incrosta così cocciutamente che devi fare doppia fatica per rimuoverla.
Quando potrai dire di averla forse eliminata del tutto, quella brutta robaccia, allora sarà proprio in quel preciso momento che dovrai riattivarti, perché quel contratto di lavoro che avevi così sudato sarà bello che scaduto, e tu dovrai necessariamente (se pensi di voler ancora sopravvivere) incominciare tutto daccapo. Perché le cose cambiano, ed è così che vanno le cose; non puoi farci nulla. Dicono, che se non sei al passo con i tempi, in questo vortice di cambiamento continuo (cambiamento di che? A me sembra sempre tutto uguale), verrai espulso, in un batter d’occhio, senza pensarci, e a nessuno importerà se hai alle spalle quell’esperienza oppure quell’altra, se sai fluentemente questa lingua straniera piuttosto che quell’altra, etc., etc.: devi essere “il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, e quindi devi rendere te stesso una prestazione vivente, devi diventare una persona-prestazione; in una parola: devi essere malleabile, flessibile, pronto a tutto.
In effetti, uno dei tanti problemi dell’attuale lavoro associato alla “generazione ombra” – cioè quella generazione costantemente precaria e a cui è stato rubato ogni brandello di futuro – è che i giovani che le appartengono, e che si affacciano a questo-nuovo-mondo, devono costantemente dimostrare la loro più aperta disponibilità, la loro più “malleabile flessibilità elasticizzata”, senza riserve e a tutte le condizioni iper-immaginabili; devono in questo modo elargire la loro più grintosa ed “esilarante” voglia-di-voler-fare mai posseduta prima, fino all’abbattimento di ogni energia vitale, con disastrose ripercussioni emotive sia sul piano personale che sociale; insomma: devono aprirsi alla più completa predisposizione caratteriale, la quale deve necessariamente saper fare qualsiasi cosa (e anche la più specifica possibile) in breve tempo e in qualsiasi modo, – (in altri termini, devono “imparare a dare il culo”).
D’altra parte, invece, e cioè da parte di chi può dare un lavoro e non ha di questi problemi – assieme a tutta quella gente che, più fortunata, forse non conosce intimamente quelle conseguenze sociali e psicologiche che si celano dietro la prospettiva di un futuro inesistente – non vi è, dicevo, un minimo di apertura motivante, né una specie di minima comprensione empatica; c’è solo l’orrendo ed inequivocabile lascito che, perentoriamente, recita così: “Questo è. E se non ti sta bene tornatene pure a casa, tanto di altri come te ne trovo a palate: qui nessuno è indispensabile.” (Forse non proprio così, ma il concetto rimane quello e imperturbabile). È piuttosto facile rispondere a coloro che saranno già pronti a tacciare tali argomentazioni come “sconclusionatamente lamentevoli”: “la società è strutturalmente mutata in malo modo, e questo modo si è avviluppato soprattutto a causa vostra, e precisamente a seguito di quel vostro dannoso e maledetto pensiero unico”.
Viviamo nell’epoca del cambiamento forzato, di un qualcosa che è costantemente effimero e che non si lascia mai conoscere abbastanza. Anche se volessimo metterci d’impegno, il giorno dopo le nostre “acquisizioni” non varranno più: saranno già scadute (come i nostri innumerevoli contratti di lavoro – se si possono considerare tali). Viviamo in un tempo che è una specie di limbo, un crocevia trafficato a cui non gli è stato assegnato alcun nome. In questa specie di mondo sociale, virtuale e reale allo stesso tempo (non si riesce più a capire dove termina l’uno e inizia l’altro), il prematuro si spaccia per la verità, quella più in mostra, quella più visibile, quella con tanti like; le contraddizioni fanno a gara per essere accessibili a tutti, subito, immediatamente, in streaming: “La fiducia è un atto di fede che diventa obsoleto di fronte a informazioni facilmente disponibili. La società dell’informazione scredita ogni fede. La fiducia rende possibili relazioni con gli altri anche in mancanza di cognizioni precise su di essi: la possibilità di raccogliere in modo semplice e rapido le informazioni è nociva per la fiducia.” (Byung-Chul Han).
In questo modo, la generazione ombra impara a crescere nella disillusione: vive quest’epoca priva di illusioni positive, e comincia sin da subito a contare solo sulle proprie forze. È immersa quindi in un mondo in cui non è quasi più concepibile avere fiducia nel prossimo. Ecco perché avere fiducia in quelle istituzioni che dovrebbero avere il delicato compito di rappresentarla, di parlare per lei, di intervenire concretamente per promuovere e valorizzare il suo futuro (che è anche il futuro dell’intera società, tra parentesi) potrebbe essere poco più che un sogno.
Per risvegliarsi allora da questo torpore, intitolato “La nostra generazione è una generazione sfigata”, vi riporto brevemente un tratto della mia storia, del mio cammino, quello che mi sta succedendo da qualche mese a questa parte. È solo un’esperienza, e come tante altre può gettare luce su cose impreviste:
Vivo all’estero, da quasi un anno, e insegnando la lingua italiana ai miei studenti sto scoprendo tante cose nuove. Per esempio, quanto la nostra lingua sia allo stesso tempo comica, inamovibile, seria, completa, pura, mobile, scanzonata, immaginifica, sorprendente…
Ogni giorno, squarcio una sottile cortina data per scontata per addentrarmi in un mondo pieno zeppo di eccezioni, particolarità, regole smussate da singole situazioni irripetibili, che mi lasciano ogni volta sbigottito scolpendomi in viso un riso sordo; quel riso spontaneo e delicato che mi aiuta tutte le volte a comprendere meglio chi sono e da dove vengo. Un mondo, quello della lingua italiana, davvero allucinato, e che mi pare tanto un mix di personaggi a dir poco incredibili, tutti riuniti assieme per creare inconsapevolmente qualcosa di straordinario.
Ed è questa particolarità esagerata che ci deve rendere orgogliosi. È questa musica sempre nuova, attiva, piena di sali e scendi, ripetuti e devianti, che ci deve rendere orgogliosi di quello che siamo. È questa comunione di alternative sempre possibili che ci deve dare manforte per superare quel buio inesorabile che, da troppo tempo, si è instillato dentro ciascuno di noi, e che non ci permette più di vedere quanto è fortunato, quanto è bello, essere italiani.
Questo per dire che anche nelle situazioni più ingessate, apparentemente più scontate (come appunto insegnare la propria lingua), è possibile cercare una nuova musica, un dettaglio insignificante che può svelare molteplici scenari mai visti, mai attraversati prima.
La nostra è una generazione che cambia spesso, anche forzatamente, ma che non ha alcun problema a farlo, perché ormai ci è abituata: abbiamo tutti i mezzi per gestire i cambiamenti più impensabili: ce li siamo costruiti da noi, volta per volta, attraverso le distanze liberatorie e strazianti, per mezzo di quei continui distacchi alle stazioni, grazie a quei lunghi abbracci condivisi negli aeroporti. In più sappiamo re-inventarci: sappiamo vestire diversi panni in luoghi differenti, mantenendo un’integrità e una consapevolezza di noi stessi che finisce ogni volta per arricchirsi. Ogni dannata volta.
Sappiamo come viaggiare leggeri: il viaggio come tema, come trasformazione, e come esperienza personale è diventato ormai parte integrante di una biografia in continuo movimento: lo spazio è diventato relativo e il tempo è un continuo riscoprire se stessi. In questo modo, ci prepariamo ad affrontare meglio le difficoltà che ci presenta la vita, che è diventata complessa e che ogni giorno ci presenta ostacoli “bizzarri” e “innovativi” (eufemismi, chiaro!).
La calma e la stabilità non le diamo mai per scontate, e questo è un gran vantaggio: la nostra unica certezza è l’incertezza, ecco perché riconduciamo tutto alla vita presente, e cerchiamo di dare il giusto senso ad ogni esperienza che viviamo, perché conosciamo perfettamente la loro volatilità, il loro essere delicato, che può rarefarsi senza dir nulla; che può sparire da un momento all’altro senza un perché. E allora viviamo intensamente, conoscendo tante persone preziose che magari un giorno diventeranno degli amici lontani, ma sempre presenti; amici che si connetteranno per te dietro uno schermo freddo, per quando non ce la fai, per quando ti senti solo, per quando hai bisogno di parlare con qualcuno.
Questo vissuto, ci porta a prendere più di petto le situazioni con cui abbiamo a che fare: ci permette di essere maggiormente schietti, sfrontati e sinceri, con noi stessi, e poi anche con gli altri. E in questo modo scopriamo le diversità, quelle che popolano il mondo, quelle che lo arricchiscono continuamente, anche se spesso è il mondo stesso a non rendersene conto, facendo di tutto per dividerle, per separarle da barriere. Abbiamo un modo di comunicare che sì, viene veicolato per la maggior parte del tempo dalle nuove tecnologie, ma è alternativo e sa come comportarsi con la diversità, cercando il modo migliore per interfacciarsi con essa. Se dovessimo un giorno avere dei figli sarebbero molto fortunati ad avere dei genitori come noi: mentalmente aperti a palla, pronti a tutto, e più curiosi dell’inaspettato apparentemente irrilevante.
Per concludere, penso che il tratto distintivo più importante che abbiamo in comune sia proprio quello di voler conoscere al meglio questa massa informe della diversità, di esserne curiosi, oltre che del concetto (facile per tutti) proprio di quella pratica “oscura” che la contraddistingue, e che di primo acchito ci intimorisce, ci spiazza, e ci suggestiona, ma che alla fine ci insegna a conoscere noi stessi dopo aver perfezionato la conoscenza degli altri.
Ecco perché, a lungo andare, sappiamo come coltivare la nostra imperfezione, che significa essenzialmente darsi dei limiti, sapere che non è importante valicarli, quanto invece lavorarci su. Perché non essere troppo rigidi con se stessi è un pregio, ed essere troppo calati nei nostri giudizi porta alla perdita e alla continua disattenzione di ciò che senza saperlo è prezioso, e ci passa accanto.

Fonte: il Conformista online 

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