La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 19 gennaio 2016

Le “Buone Scuole”: vent’anni di tagli e di riforme sbagliate

di Domenico De Marco
La riforma Berlinguer 
Il quadro normativo della scuola italiana nell’ultimo ventennio ha visto il susseguirsi di tentativi di riforma della struttura dell’intero sistema: tentativi che, come vedremo, da una parte hanno delineato fortemente volontà ideologiche, dall’altra si sono ispirati alla mera volontà di contenimento della spesa pubblica. In questo contributo si cercherà di esaminare il quadro storico-istituzionale in una fase che ha segnato inesorabilmente il cambio di rotta dell’istruzione italiana: dalla riforma del ministro Berlinguer, con la legge n. 30 del 10 febbraio 2000, poi abrogata dalla legge delega n. 53 del 28 marzo 2003 coi successivi decreti attuativi1, meglio nota come riforma Moratti, alla riforma Gelmini, che ha modificato l’ordinamento dei licei e degli istituti professionali e tecnici attraverso il D.P.R. n.89, n.87 e n.88 del 15 marzo 2010, per giungere infine alla legge 13 luglio 2015, n. 107, promossa dal ministro in carica Giannini, e giornalisticamente definita la “ Buona scuola”.
Al di là delle caratteristiche politiche e delle divergenze ideologiche, i provvedimenti elencati rispondono ad un comune orizzonte di intenti che la scuola italiana ha inteso raggiungere dotandosi di una normativa derivante dallo scenario europeo. Questa impostazione delinea una esigenza di investimento sul capitale umano, in conformità “all’adeguamento dei sistemi di istruzione e di formazione professionale“2, al fine di valorizzare la formazione lungo l’intero arco della vita. Facendo riferimento al tema dell’occupazione e della competitività, la Commissione Europea palesa l’esigenza per i cittadini di disporre di una formazione specializzata in continuo arricchimento. È proprio questo principio il riferimento da cui si è partiti per l’attuazione di un rinnovamento in seno ai paesi dell’Unione relativo al settore dell’istruzione. Agli inizi del nuovo millennio si inaugura la svolta per le politiche comunitarie in tema di formazione, quando il nuovo fermento riformatore prende forma nel Consiglio Europeo di Lisbona3 in cui si ribadisce il principio della sussidiarietà, della cooperazione internazionale e del rispetto delle peculiarità delle singole Nazioni. È proprio in questo passaggio che si rafforza l’attenzione sulla formazione e sulla conoscenza lungo tutto l’arco della vita. È questa istanza più delle altre a determinare il ripensamento dei sistemi di formazione, ripensamento che non ha riguardato ivece direttamente i contenuti curricolari della didattica, espressione questa del tessuto identitario e culturale di ciascun Paese.
Le strategie innovative, che hanno come perno l’adeguamento degli apprendimenti adeguati ai soggetti nelle diverse fasi della vita, includono anche le nuove competenze4 offerte da centri territoriali, inseriti in una rete ampia, a dimensione europea, attraverso l’uso delle nuove tecnologie.
Negli anni 1975-1995 le azioni di riforma avevano riguardato in particolare il ciclo della scuola primaria, senza apportare grandi cambiamenti all’intero impianto strutturale. Infatti è stato questo il periodo delle sperimentazioni portate avanti dalle amministrazioni scolastiche, sperimentazioni che non appartenevano ad un sistema di riforma complessivo e quindi prive di obiettivi comuni e poco rispondenti alle reali esigenze che il comparto richiedeva.
La prima e forse più ardita azione riformatrice in Italia è stata quella proposta dall’allora ministro Luigi Berlinguer, che ha cercato di dare concretezza al progetto di ammodernamento dei sistemi di istruzione e di formazione professionale in discontinuità rispetto ai timidi e spezzettati interventi dei precedenti governi, proponendo di superare le istanze gentiliane5 per incontrare quelle europeiste. La riforma Berlinguer presentava una struttura complessiva, attuata attraverso la strategia da lui stesso definita “a mosaico”: un insieme organico di interventi normativi capaci di delineare un nuovo percorso di studi a partire dalla scuola dell’infanzia (dai 3 ai 6 anni) sostanzialmente inalterata, ma sottoposta ad un monitoraggio di competenze da parte del Servizio Nazionale per la Qualità, con relativa certificazione di crediti di frequenza; scuola di base (dai 6 ai 13 anni), strettamente collegata alla secondaria di I grado, ed articolata in due bienni ed un anno conclusivo che si sarebbe dovuto raccordare, attraverso la progettazione condivisa dei piani di studio tra il coordinatore della classe V e il consiglio di classe della prima media, allo scopo di costituire un altro biennio di preparazione all’anno conclusivo della scuola dell’obbligo, per arrivare fino alla secondaria di secondo grado, e che includeva anche la fase del post-diploma, dell’educazione degli adulti e dell’università. È proprio l’inclusione dell’educazione degli adulti, benché non rispecchi il passaggio più rappresentativo di questo percorso normativo, a rappresentare l’istanza innovativa e inclusiva di quegli aspetti europeisti prima analizzati.
A dettare il passo verso questo “comune sentire”, che doveva passare anche attraverso l’armonizzazione dei sistemi formativi, visto che i sistemi economici si erano incontrati proprio nella moneta unica, è stata l’euforia europeista.
Uno dei concetti che forse più di tutti riesce a caratterizzare la riforma innovativa di Berlinguer è quello di “pluralismo”: un sistema che nasce dalla concertazione di diversi punti di vista a cui era doveroso indirizzare questa veste innovatrice. Da qualunque piano la si voglia analizzare infatti, la 30/2000 “legge quadro in materia di riordino dei cicli scolastici” mostra un comune denominatore che trova nell’assetto pluralista la sua concretezza. Questa direzione è ad esempio evidente nell’allargamento dell’offerta formativa, non più legata al conservatorismo, ma aperta, rispondente alle nuove esigenze che la scuola europea richiedeva in un quadro di riorganizzazione dei sistemi di formazione culturale.
Altra direttrice fondamentale della legge riforma 30/2000 è rappresentata dall’autonomia scolastica. Infatti l’intero piano della riforma si attua attraverso l’autonomia delle istituzioni scolastiche, inserita nel disegno più generale di riforma della Pubblica amministrazione, delineata dalla legge delega n. 59/97 promossa dal ministro della Funzione pubblica Bassanini, che aveva come obiettivo il decentramento amministrativo e il trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali. E’ in questo contesto normativo che va considerato l’articolo 21, che istituisce proprio l’autonomia scolastica. Alle scuole, attraverso il regolamento della autonomia (dpr 275/99), vengono da un lato affidati una serie di poteri in materia di organizzazione della didattica, di ricerca e di sperimentazione, funzionali alla progettazione e alla realizzazione dell’offerta formativa, dall’altro lato le istituzioni scolastiche diventano l’elemento centrale del sistema di governance territoriale basato sul rapporto con gli enti locali.
Se la riforma della scuola di Berlinguer fosse entrata in vigore a pieno regime avremmo avuto una struttura organizzativa cosi delineata: la scuola primaria raccordata a quella media di primo grado sarebbe durata 7 anni in totale con l’eliminazione dell’ultima classe delle medie. Per completare l’iter (dai 13 ai 15 anni), sarebbe seguito poi un biennio di liceo con insegnamenti comuni, in uno dei 40 indirizzi attivati ed articolati secondo l’area classico-umanistica, scientifica, tecnico-tecnologica, artistica e musicale. La formazione dell’adolescente (15-18 anni), nel caso mancasse il desiderio di proseguire gli studi presso uno dei licei sopra indicati, poteva essere completata presso Enti Regionali deputati alla formazione professionale obbligatoria. Nel mosaico riformatore prendeva forma l’idea di un sistema di istruzione integrato con il sistema formativo, resa possibile con l’art. 68 della legge 144/98 che prevedeva che uno studente venisse considerato in obbligo formativo sino al compimento dei 18 anni. Si può evincere un cambiamento di rotta rispetto all’obbligo scolastico, inteso come obbligo di seguire una didattica tout court: secondo la 30/2000 viene abbassato da 18 a 15 anni, ma nei tre anni scontati i ragazzi che avessero scelto di non continuare avrebbero comunque avuto un altro obbligo, quello formativo: ovvero imparare un mestiere. L’obbligo formativo avrebbe rappresentato un trampolino di lancio nel mondo del lavoro, avrebbe fornito agli studenti un percorso, un orientamento di indirizzo per poter capire cosa sarebbe stato del proprio futuro. Ritroveremo infatti questo concetto di obbligo formativo nella scuola di Renzi-Giannini, ma con una diversa accezione lessicale: si parla di “alternanza scuola-lavoro”, ma il concetto resta pressoché immutato. L’obbligo formativo di Berlinguer, allo stesso modo dell’alternanza scuola-lavoro di Stefania Giannini, rappresentano di fatto un collegamento con il mondo del lavoro da attuarsi mediante una formazione che oltre ai contenuti didattici possa fornire reali competenze. Tale sistema dovrebbe aiutare i ragazzi a superare quella voragine tra il mondo della scuola e quello del lavoro, spesso mancanti di raccordi e di orientamenti comuni.
Un aspetto assolutamente interessante della 30/2000 appare sicuramente la “licealizzazione” dell’istruzione di secondo grado, che di fatto ha svilito la specificità della formazione tecnica e professionale. È proprio questo il punto più criticato dell’intera riforma: l’istruzione tecnica e professionale, fiore all’occhiello del Paese fino ad allora, subisce una battuta d’arresto proprio perché vengono istituiti degli indirizzi liceali anche per le specializzazioni tecniche e professionali. La molteplicità di facies della scuola secondaria (40 tipi di licei) non nobilita l’istruzione e non amplia i curricoli.
In relazione agli aspetti innovativi della struttura universitaria possiamo ben dire che il modello organizzativo della riforma Berlinguer si poneva come obiettivo quello di rispondere alle esigenze di adeguamento che l’Europa chiedeva relativamente ai saperi specializzati. Infatti la legislazione (ancora in vigore) relativa alle università nella 30/2000 pare intercettare la necessità di equiparare i titoli ed i periodi di studio italiani di alta formazione con quelli europei, distinguendo tra lauree triennali e specialistiche biennali.
Emerge invece dalla Riforma Berlinguer il persistere di un certo centralismo, mantenuto in piedi dalla dipendenza delle istituzioni scolastiche dal Ministero, parzialmente ammorbidito dalle maglie flessibili della ormai collaudata autonomia scolastica (legge 59/1997). La logica della riforma dei cicli, tuttavia, manifesta una forte incoerenza strutturale con le trasformazioni giuridiche del Titolo V della Costituzione (Legge n. 3 del 18 ottobre 2001)6, che definisce sotto una luce diversa il ruolo delle Regioni come titolari del potere di legiferare in materia di istruzione e formazione professionale, con piena sovranità, fatte salve le norme generali dell’istruzione. Per quanto riguarda la gestione, l’organizzazione e la regolamentazione delle scuole, gli Enti Regionali vengono così investiti della facoltà di legiferare in maniera concorrente a quella dello Stato, nel rispetto dell’autonomia scolastica. Il cambio di rotta tra i due provvedimenti (riforma Berlinguer, che interessava solo scuola e Ministero, e riforma della Costituzione, che trasforma il rapporto tra Regioni ed Istituti professionali) è dato dalla legge di modifica costituzionale il cui scopo persegue l’attuazione del maggiore coinvolgimento degli Enti Locali, la devolution (bocciata tuttavia dal referendum confermativo del 25/06/2006), e del federalismo. La contraddizione tra la legge 30/2000 ed il nuovo Titolo V del 2001 lascia in sospeso la responsabilità regionale in materia di formazione. La legge Berlinguer, infatti, non poteva assumere la modifica Costituzionale semplicemente per una discrasia temporale, essendo anteriore alla modifica del Titolo V. La confusione normativa, ancora una volta, pone la scuola ostaggio di una distinzione vetusta tra obbligo scolastico, diritto-dovere alla cultura ed alla promozione della persona, e obbligo formativo come una sorta di apprendistato strumentale.

1 Per la lettura della “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull‟istruzione e dei livelli professionali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale” che raccoglie i decreti legislativi emanati dal 2004 al 2005, si può consultare il sito http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/030531d.htm.

2 COM (93) 457, settembre 1993. Successivamente questo documento viene integrato daIstruzione-Formazione-Ricerca. Gli ostacoli alla mobilità transnazionale, COM (96) 462 ottobre 1996. In materia di istruzione e formazione giovanile la Commissione elabora un altro documento, Per un’Europa della conoscenza, (COM 97 /563, del novembre 1997), che sintetizza i risultati ottenuti dai programmi “Socrates” “Leonardo da Vinci” e “Gioventù per l‟Europa”, si veda infra.

3 Il Consiglio Europeo si riunisce nella capitale portoghese nei giorni 23-24 Marzo 2000: dal dibattito emergono alcune improrogabili priorità, come quella di conciliare occupazione, riforme economiche, giustizia e coesione sociale. Per un quadro delle conclusioni del Consiglio è possibile consultare il sito: http:/www.europa.eu.int/comm/lisbon_strategy/index_en.html.

4 Sulla definizione delle competenze il dibattito è di interesse transnazionale. A titolo esemplificativo un inquadramento generale sulla questione è dato da PURICELLI E., La certificazione delle competenze. Un nodo epistemologico, in “Nuova Secondaria”, 8, 15 aprile 2010, pp. 22-24 Egli definisce le competenze come una categoria di apprendimenti, che mettono in relazione la persona con il mondo, ed in quanto tali incompatibili con una misurazione oggettiva. Questo filone di pensiero, elaborato dal CQIA di Bergamo, a cui aderisce l‟autore, parte dall‟analisi fattoriale dei gesti esibiti dal soggetto, per tracciare la “morfologia personale della competenza”, attraverso un sistema di indici (reazione personale distinta da quella tipica; background culturale; relazione col compito in situazione). La questione appare cruciale sia per quanto riguarda la sua incidenza sugli obiettivi del sistema scolastico ed universitario che per quanto riguarda le prospettive degli studi sull‟intercultura.

5 M. Moretti, Scuola e università nei documenti parlamentari gentiliani, in Giovanni Gentile, filosofo italiano: 17 giugno 2004, Roma, Sala Zuccai, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004

6 Per una lettura di carattere generale della Riforma dell’articolo 117, si veda BARBERIO CORSETTI L., La riforma del Titolo V della Costituzione, in “Nuova Secondaria”, 4, dicembre 2001, pp. 9-13.

Le riforme Moratti e Gelmini 
La linea politica del nuovo governo di centrodestra, con Letizia Moratti come Ministro dell’Istruzione, fu chiaramente indicata negli Stati Generali sull’istruzione che si svolsero a Roma nel dicembre 2001, dove apparve evidente l’inversione di rotta rispetto al governo di centrosinistra. Le idee di fondo dei progetti del centrodestra (iniziati dalla Moratti e completati dalla Gelmini) si possono sintetizzare nella volontà di ridimensionare gli interventi dello Stato nelle politiche sulla formazione in nome della libertà di scelta delle famiglie e della libera concorrenza tra scuola pubblica e scuola privata. Per il centrodestra la scuola ha un costo eccessivo, ci sono troppi insegnanti, ci sono troppi sprechi e, soprattutto, le ore di scuola settimanali sono troppe: da qui la necessità di semplificare e riordinare l’intero sistema dell’istruzione riducendo progressivamente le risorse finanziarie da destinare ai progetti più innovativi, al tempo prolungato e al tempo pieno.
Al fine di superare l’inaccettabile dualismo, che aveva dequalificato i percorsi professionali, a pochissimi anni di distanza dalla riforma Berlinguer, ecco apparire un’altra riforma che trae nutrimento dagli stessi paradigmi di senso attraverso cui si era mossa la scuola in precedenza, cioè dal modello “domandista” (basato sulle attese del mondo del lavoro), a quello interattivo (fondato sulla capacità di apprendere), fino al modello “personalista” che pone le istituzioni scolastiche al servizio della persona. Secondo tali direttrici di orientamento la specificità del sistema scolastico italiano si è dovuta armonizzare con gli obiettivi comuni dei sistemi di formazione europei.
Approda quindi nel panorama dei sistemi riformatori della pubblica istruzione la legge 53/2003, meglio nota come riforma Moratti, che abrogherà la 30/2000. Nella fattispecie, la riforma avrebbe adattato la sua struttura alle attese del mondo del lavoro, la didattica si sarebbe fondata sulle capacità cognitive per giungere infine al modello personalista riconoscendo alla persona un ruolo centrale, ponendo le istituzioni scolastiche al suo servizio.
La legge 53/2003 rinnova strutturalmente il segmento istituzionale scolastico, lo riforma dalle sue radici presentando un modello alternativo a quello già esistente e sicuramente meglio confezionato. Ma ripropone di fatto l’idea di creare un sistema “duale”, perché l’istruzione tecnica, insieme con la formazione professionale, passavano di fatto alle Regioni, mentre il sistema dei licei rimaneva di competenze dello Stato: attraverso il D.Lgs n. 226 emanato nel 2005, che di fatto ridisegnava l’intero sistema della secondaria di secondo grado, infatti, il sistema della formazione professionale diventa di competenza esclusiva delle Regioni e non più dello Stato come sancito dal titolo V della Costituzione.
Il decreto legge disegnava un sistema della secondaria superiore imperniato sui licei, prevedendo il liceo artistico, classico, economico, linguistico, musicale coreutico, scientifico, tecnologico e delle scienze umane. Questa proposta, oltre alla difficoltà di essere concretamente realizzata per l’evidente debolezza istituzionale delle Regioni, era in palese contraddizione con i principi costituzionali, e inoltre trovò una forte opposizione della Confindustria che vedeva marginalizzata l’istruzione tecnica e professionale, considerate un volano dello sviluppo economico del paese.
La legge 53/2003 cercava di costruire un unico sistema educativo articolato in licei ed istituti di istruzione e formazione professionale di pari dignità; percorsi ovviamente differenti, per curricola e metodi, ma convergenti nel fine di assicurare allo studente l’apprendimento continuo e senza limiti. Una norma che rispecchia questi indirizzi è quella relativa all’innalzamento dell’obbligo formativo a 18 anni, norma di carattere strutturale e che risponde all’esigenza ormai conclamata di garantire una istruzione quanto più lunga possibile, promuovendo così una cultura dell’apprendimento. Questa esigenza viene indicata a chiare lettere nell’agenda di Lisbona 2000, dove possiamo trovare tra gli obiettivi quello di dimezzare entro il 2010 il numero dei giovani (tra 18 e 24 anni) che avessero conseguito un livello base di formazione senza proseguire gli studi, trasformare le scuole in centri di formazione collegati in rete, elaborare un quadro di competenze lungo tutto l’arco della vita, promuovere la mobilità degli studenti ed elaborare un modello europeo dicurriculum vitae.
La scuola prevista dalla riforma Moratti presentava alcune caratteristiche particolari, con lo scopo di rivedere l’intera struttura del sistema scolastico. Rispetto alla scuola pre-Berlinguer, la struttura fondamentale resta la stessa, ma potremmo asserire che si rilevava nella struttura di riforma del centrodestra un “modello classista”, ritornando quindi al modello gentiliano, nel quale le strutture erano rigidamente organizzate tra di loro. Entrando nel dettaglio possiamo scorgere una struttura organizzativa che vede la scuola materna durare tre anni e a cui possono prendere parte i bambini che compiono tre anni entro il 30 di aprile dell’anno scolastico a cui si iscrivono. La scuola elementare dura cinque anni. Alla scuola elementare ci si iscrive al compimento dei sei anni di età entro il 31 agosto dell’anno scolastico. Per la didattica, la riforma presentava delle novità di grande rilevanza. Per quanto concerne le materie di studio, si introduceva l’insegnamento di una lingua straniera dell’Unione Europea fin dal primo anno e, inoltre, sempre dalla prima elementare, diventava obbligatorio l’uso del computer. La scuola media restava di tre anni e si introduceva la seconda lingua straniera per tutte le classi. I primi due anni costituivano un biennio, al termine del quale veniva inserita la valutazione seguita dall’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione (INValSI). Mentre al termine del terzo anno era previsto l’Esame di Stato, da cui l’alunno aveva una indicazione per poter scegliere la scuola superiore successiva.
L’istruzione superiore era divisa in due tipologie: il sistema dei licei e il sistema dell’istruzione professionale. Tra i due sistemi restava sempre possibile un passaggio con il metodo delle “passerelle”, cioè un insieme di lezioni aggiuntive a cura delle due scuole, quella di partenza e quella di arrivo, che forniva allo studente la preparazione necessaria al cambio di scuola.
La durata dei licei era di cinque anni: i primi due anni costituivano il primo biennio, il terzo e il quarto anno il secondo biennio. Seguiva un quinto anno al termine del quale era previsto l’Esame di Stato, necessario per accedere all’Università.
Il sistema dell’istruzione professionale prevedeva un percorso diverso in base alle scelte del singolo alunno, e la durata del percorso non era stabilita fin dall’inizio, ma graduata nel corso degli anni. Si stabiliva inoltre un sistema di alternanza scuola-lavoro, con la caratteristica di prevedere, dopo i quindici anni, delle esperienze per l’alunno da svolgere nel mondo del lavoro, programmati dalla scuola e valutati come un percorso didattico.
Al termine dei primi tre anni di istruzione professionale l’alunno avrebbe conseguito un diploma di qualifica. Se l’alunno non avesse avuto intenzione di proseguire gli studi universitari avrebbe potuto frequentare un quarto anno, conseguendo così la relativa qualifica quadriennale. Qualora, invece, volesse accedere all’Università, avrebbe potuto frequentare un quinto anno e sostenere l’Esame di Stato con lo stesso valore di quello del sistema dei licei.
Un’altra importante novità riguardava la struttura dell’intero ciclo elementare diviso in una prima classe seguita poi da due bienni, entrambi valutati nella loro complessità. Questa valutazione biennale era seguita dall’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione (INValSI), che rappresentava una novità non di poco conto. Ancora oggi in vigore (non solo nella scuola primaria ma anche nella secondaria di primo e secondo grado) è stata da sempre poco condivisa dai docenti e non solo per ragioni ideologiche. l’INValSI rappresenta un sistema di valutazione che si colloca all’interno di un quadro di riferimento europeo, che vede la valutazione nelle sue differenti declinazioni (dagli alunni agli insegnanti passando per l’istituzione scolastica) come uno degli strumenti necessari per il miglioramento del sistema scolastico. Test di valutazioni simili a quelli introdotti in Italia vengono effettuati anche nella maggior parte degli altri paesi europei, dove tuttavia esiste una cultura della valutazione storicamente e scientificamente determinata, supportata in larga parte da investimenti significativi.
Nel nostro paese, invece, i test fotografano una situazione e un quadro di disinvestimento pluriennale sulla scuola e sull’istruzione e soprattutto un quadro manchevole di una pratica valutativa significativa dal punto di vista culturale e scientifico, ancor meno economico. Si ha l’impressione che in Italia si pratichi così un’operazione di maquillage in chiave europeista.
Non meno importante è il fatto che queste prove non siano adeguate ai diversi livelli che si incontrano nelle varie parti del paese: troviamo l’eccellenza assoluta di Bolzano per poi incontrare risultati non proprio brillanti in molte aree del sud. Si pensa davvero che dei test omologati da Trento a Caltanissetta, da Potenza a Sondrio possano dar vita ad una scuola migliore? Don Milani a tal proposito avrebbe detto: ”Non c’è ingiustizia peggiore che fare parti uguali tra disuguali“. Il rischio, sottolineato dalla classe docente che osteggia tale valutazione, è proprio quello di creare, attraverso questi test INValSI, maggiori diseguaglianze tra studenti e istituti. Bisognerebbe quindi provvedere a riformare i contenuti, rendendoli pluralisti e aperti, e soprattutto bisognerebbe ristrutturare il sistema scolastico nell’ottica delle metodologie da adottare, riuscendo a garantire a tutti gli stessi strumenti della conoscenza attraverso l’eliminazione delle disuguaglianze da territorio a territorio.
Nel 2006 torna al Governo il centrosinistra e a capo del MIUR subentra Giuseppe Fioroni, il quale nel suo breve operato riesce a bloccare l’entrata in vigore della legge di riforma Moratti. Fioroni non propone una propria riforma ma presenta una serie di correttivi necessari per rendere più efficace e moderno il sistema di istruzione. Con la legge 296 del 2006 viene alzato l’obbligo scolastico a sedici anni e l’impianto della didattica viene allineato con le direttive dell’Unione Europea. Fioroni blocca il decreto legislativo 226/2005, rilanciando e ripristina, con la legge 40/2007, l’istruzione tecnica e professionale, deliberando chiaramente che allo Stato compete il rilascio dei diplomi, mentre le Regioni devono garantire le qualifiche triennali della formazione professionale. Infine, vengono varate le nuove indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo con l’obiettivo della continuità e incentrato su traguardi di competenze.
Con il ritorno nel 2008 del Governo di centrodestra si continua l’opera di ridimensionamento degli investimenti sulla scuola pubblica avviato dalla Moratti. È proprio con la legge 133/2008 che il ministro Tremonti e il ministro Gelmini avviano una vasta operazione di razionalizzazione del sistema di istruzione, tagliando in primis sul personale scolastico, riducendo il numero delle cattedre e diminuendo il “tempo scuola”. In sintesi, il ministro Gelmini ha operato da un lato sulla scuola primaria con una serie di interventi tesi soprattutto a ripristinare un modello di scuola obsoleto e tradizionale (reintroducendo la valutazione in voti numerici, abrogati nel 1977 con la legge 517, e ripristinando il maestro unico), dall’altro lato sulla secondaria di secondo grado, rispolverando la legge Moratti attraverso il D.lgs n. 226 sui licei.
La sfida per la scuola italiana rimane ancora quella di superare il modello gentiliano fondato su compartimenti stagni tra loro separati, che costituiscono un ostacolo per una più dinamica mobilità sociale e impediscono così la crescita culturale, civile ed economica del paese. Abbiamo un sistema di istruzione e di formazione classista, diviso tra il nord, il sud e le isole. La sfida per il nostro sistema di istruzione è quella di diventare (a centocinquanta anni dall’unità di Italia) un fattore capace di unificare culturalmente il nostro paese attorno ai valori di cittadinanza indicati nella Costituzione. Riuscire ad affrontare questo limite che caratterizza il sistema scolastico italiano significa affrontare principalmente il tema del reclutamento della classe docente. Gli insegnanti si sono trovati a dover gestire la propria condizione in un caos burocratico caratterizzato da problematiche sempre nuove e di difficile risoluzione. Ma la falla più grande sono i concorsi non organizzati in modo sistematico: l’ultimo concorso prima dell’avvento del nuovo sistema di reclutamento risale al 1999. Cerchiamo di approfondire l’argomento entrando nel vivo della questione, molto complicata, per cercare di comprenderne i cambiamenti che si sono susseguiti fino all’attuale legislazione, ovvero la 107/2015, meglio conosciuta con il nome di “Buona scuola”.

Verso la riforma di Renzi
Il sistema del reclutamento, rivisto dalla riforma Berlinguer, prevedeva il superamento di un concorso per poter accedere alla professione dell’insegnante. Oltre ai vincitori del concorso vi erano, come in tutti i concorsi, anche gli idonei: questi, avendo superato le prove, ottenevano il titolo abilitante (obbligatorio per poter poi avere il contratto a tempo indeterminato) e venivano inseriti in una graduatoria permanente. Queste graduatorie su base provinciale si riempivano sempre di più perché saturate anche dai cosiddetti “corsi speciali”, a cui accedevano insegnanti privi di abilitazione ma con più di 360 giorni di supplenza, e potevano accedere a questi corsi in seguito a decreti che venivano presentati a cadenza decennale. Grazie a questi corsi speciali e senza superare alcun concorso, tutti coloro che vi partecipavano ottenevano di diritto il titolo abilitante, entrando in quelle graduatorie permanenti sempre più gremite. Questo tassello del sistema scolastico, assolutamente fondamentale, subisce dal 2003 in poi numerose revisioni, tutte strutturali, che portano gli aspiranti docenti a dover essere pronti e aperti a continue novità, con cambiamenti delle regole in corso d’opera.
I primi spiragli, seppur timidi, di cambiamento in relazione al tema del reclutamento della classe docente si iniziano a ravvisare proprio con l’istituzione delle scuole di specializzazione all’insegnamento, meglio conosciute con l’acronimo SSIS1 (Scuola di Specializzazione all’insegnamento Secondario). Come possiamo evincere dall’acronimo, queste scuole, di durata biennale, erano finalizzate alla formazione degli insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado (per la scuola dell’infanzia e primaria erano state istituite lauree abilitanti a cui si accedeva per concorso). Per molti le SSIS hanno rappresentato il principale canale di abilitazione, consentendo agli specializzati l’iscrizione alle graduatorie provinciali permanenti. Con la legge 27 dicembre del 2006 n. 296 (legge finanziaria per l’anno 2007) le cosiddette graduatorie permanenti vennero trasformate in graduatorie ad esaurimento (più notoriamente conosciute con l’acronimo GAE) e quindi effettivamente chiuse a nuovi ingressi. Nell’anno accademico 2011-2012 è stato avviato il Tirocinio Formativo Attivo, meglio conosciuto con l’acronimo TFA2, ancora esistente e che di fatto ha sostituito le vecchie SSIS. Anche il TFA, come le SSIS, prevede un accesso a numero chiuso, ma tra le due scuole vi sono delle differenze strutturali. La prima e forse più importante differenza è rappresentata dal fatto che il titolo abilitante rilasciato dal TFA non dà la possibilità di accedere alle graduatorie ad esaurimento e quindi nega la possibilità ai nuovi docenti abilitati di essere destinatari di un contratto a tempo indeterminato, ma solo di contratti a tempo determinato e l’inserimento nelle graduatorie d’istituto di seconda fascia3. La nuova scuola di specializzazione non è più biennale ma annuale. Inoltre il Ministro Profumo, nel 2013, ha attivato i cosiddetti PAS (percorsi abilitanti speciali): percorsi di formazione anch’essi volti al conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento, rivolti ai docenti della scuola con contratti a tempo determinato che hanno prestato servizio per almeno tre anni nelle istituzioni scolastiche statali e/o paritarie.
Nonostante questi cambiamenti nel reclutamento, le graduatorie ad esaurimento contavano ancora una miriade di insegnanti che da anni hanno superato un concorso oppure hanno avuto la possibilità di esservi inseriti ma che ancora non avevano un contratto a tempo indeterminato. La recente riforma Renzi-Giannini, con la legge 107/2016, ha cercato di sbrogliare questa matassa intricata: vi erano infatti alcune classi di concorso in alcune province assolutamente esaurite oppure con pochi candidati da stabilizzare, e quindi per gli incarichi annuali bisognava ricorrere sistematicamente agli abilitati di seconda fascia delle graduatorie d’istituto e a quelli di terza fascia. È il caso paradossale dei docenti di italiano e di matematica della scuola secondaria di primo grado, degli insegnati di sostegno, di spagnolo, degli insegnanti della scuola primaria. Vi erano invece nelle graduatorie ad esaurimento classi di concorso con molti candidati che non trovavano nessuna cattedra disponibile e i più fortunati di questi erano depositari di incarichi annuali sul sostegno.
La riforma della scuola, legge 107/2015, ha cercato di mettere fine a questa situazione provvedendo ad istituire un piano di assunzioni finalizzato al totale esaurimento delle GAE. Si è messo fine al ricorso sistematico a docenti incaricati non stabilizzati. L’azione del Governo quindi ha previsto un piano di assunzioni da GAE di circa 100 mila docenti, che però non ha risposto alle reali esigenze del mondo della scuola proprio a causa della situazione prima descritta. Scendendo nel dettaglio, il piano di assunzioni prevede quattro fasi (fase 0, fase A, fase B e fase C), dalla fase 0 alla fase B si è cercato di occupare le cattedre vacanti (pensionamenti in gran parte). La fase C è stata la novità di questa riforma: in pratica si è istituito il cosiddetto organico di potenziamento (circa 8% in più di docenti) formato da insegnanti che non hanno la cattedra ma che lavorano nelle scuole a specifici progetti oppure per supplire colleghi momentaneamente assenti. Peccato però che le scuole non hanno ricevuto i docenti richiesti in base alle loro esigenze, visto che i destinatari delle proposte di stabilizzazione sono stati coloro che appartenevano alle GAE e quindi docenti già in esubero prima di essere assunti. Infatti, nonostante tutte queste assunzioni, le scuole si sono trovate a dover incaricare altri “supplenti” per poter colmare quelle cattedre rimaste ancora vacanti. Sempre la 107/2015 prevede un maxi concorso per colmare quei vuoti rivolto agli esclusi del piano di assunzioni, ovvero agli abilitati di seconda fascia delle graduatorie d’istituto.
La riforma della “buona scuola” di Renzi-Giannini è stata accolta con tante critiche anche perché si presenta appiattita sulle questioni relative all’organizzazione e all’amministrazione, dimenticando di affrontare i grandi temi che la società di oggi chiede. Ciò che gli addetti ai lavori si aspettavano era ad esempio sarebbe stata una profonda innovazione dei modelli didattici e dei programmi di studio, un grande vuoto che si avverte da ormai troppe riforme “burocratiche”. Questa legge elude il tema dell’innalzamento dell’obbligo scolastico fino al diciottesimo anno di età, tema su cui la maggior parte dei Paesi europei si stanno confrontando. È ovvio che più alti livelli d’istruzione equivalgono a più alti livelli d’inclusione nella società e nel mondo del lavoro. garantire una preparazione in linea con i grandi cambiamenti della società contemporanea significa mettere lo studente che sarà l’uomo del domani, in condizione di comprendere i grandi cambiamenti che si producono nel campo dell’economia e della comunicazione. Inoltre manca una discussione serie e concreta sulla piaga dell’abbandono scolastico e quindi della dispersione. Questo fenomeno è il frutto della povertà in aumento, di una crisi non solo economica ma anche dei valori, di un pessimismo di fondo che vede allargarsi la forbice sociale. Da un Governo almeno sulla carta di sinistra ci si aspettava una valutazione più attinente, una riflessione più ideologica, uno slancio meno propagandistico e più risolutivo dei reali problemi che il mondo della scuola deve affrontare. Riformare non significa solo cambiare le regole lasciando le strutture imperniate su conservatorismi chiusi e assolutamente anacronistici. Riformare significa mettere l’istituzione di riferimento nelle condizioni di poter rispondere ai tempi, di essere all’altezza delle esigenze richieste, dei problemi da affrontare. Riformare significa dare uno slancio di cambiamento privo di interessi politici, di propagande elettorali, di costrutti ormai vecchi e consunti che ritornano nonostante le rivoluzioni lessicali. In definitiva, cambiano i nomi, cambia la struttura organizzativa e amministrativa, cambia il sistema, cambiano i diritti ma resta sempre la stessa istituzione che non propone alcun cambiamento rispetto ai grandi temi, alle nuove esigenze formative, alle nuove istanze che il tempo richiede.
La 107/2015 sceglie di riorganizzare i poteri dei dirigenti scolastici, ai quali vengono dati maggiori responsabilità e capacità di governance. Ma tutto ciò a quale prezzo? Questa novità quali conseguenze comporterà? I docenti saranno ancora liberi di esprimersi, di scegliere, di opporsi, saranno liberi di attuare strategie in seno alla loro esperienza benché queste non siano condivise dalla dirigenza?
Altro capitolo fondamentale riguarda il bonus ai docenti meritevoli. Non tutti potranno accedere a questo privilegio, solo una piccola percentuale tra coloro ai quali saranno dati dei compiti extra. Se in una scuola tutti i docenti si rendessero disponibili ad avviare percorsi extra-didattici, chi e su quale base sceglierà i docenti da premiare?
In Italia da molti anni ormai ogni nuovo governo propone la sua riforma della scuola. Se provassimo ad osservare da vicino le interconnessioni e i nessi dei diversi progetti colpirebbe il fatto che una certa continuità degli obiettivi formativi prevalga sulla discontinuità delle diverse ispirazioni politiche. Nell’attuale tempo di crisi, la tenuta delle istituzioni appare sempre meno salda ed il ripensamento delle regole comuni passa attraverso la scelta di ammodernare strumenti ed apparati o continuare a coltivare l’immobilismo che ci allontana dall’Europa. Si è scelto di restare ancorati all’evoluzione, di non rimanere indietro, di stare al passo con un mondo che cambia e di cui vogliamo far parte.
L’invito da rivolgere agli studenti, agli insegnanti, ai dirigenti scolastici, alle famiglie e alle forze sociali sarà quindi quello di non mancare all’appuntamento, per troppo tempo ritardato, con l’innovazione, lo studio e l’autoaggiornamento continuo per fare in modo che tutti possano cogliere il significato partecipativo della cittadinanza europea.

1# L’istituzione delle SSIS fu stabilita con la legge 19 novembre 1990, n. 341. Il decreto del MURST del 26 maggio 1998 ne stabilì i criteri generali. Era organizzata in modalità interateneo a livello regionale, con accesso a numero chiuso (stabilito annualmente dal Ministero dell’Università e della Ricerca).

2# Introdotto dal decreto del MIUR n. 249 del 10 settembre 2010, emanato ai sensi della legge n. 244 del 24 dicembre 2007, e modificato dal decreto del MIUR n. 81 del 25 marzo 2013.

3# Le cosiddette graduatorie d’istituto hanno sostituito le vecchie graduatorie provinciali. Queste nuove graduatorie sono divise in tre fasce: prima, seconda e terza. Nella prima fascia sono presenti coloro che rientrano anche nelle graduatorie ad esaurimento. Nella seconda fascia vi sono gli abilitati che non hanno avuto accesso alle graduatorie ad esaurimento e in terza fascia troviamo gli aspiranti docenti che hanno solo il titolo di accesso alla professione ma non hanno il titolo abilitante.

Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.