La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 5 marzo 2016

Gestazione per Altri: per un dibattito a sinistra fuori dalle trincee

di Elena Monticelli, Alice Graziano, Ludovica Ioppolo e Diana Armento
In quest’ultima settimana i giornali e le trasmissioni televisive si sono riempite di un dibattito al limite dell’inverosimile intorno alla cosiddetta GPA (gestazione per altri), chiamata anche maternità surrogata o utero in affitto, un sequel ancora peggiore del dibattito sulla stepchild adoption e le unioni civili.  Sullo squallore e la volgarità del dibattito a destra, soprattutto dopo l’annuncio della nascita del figlio di Nichi Vendola proprio grazie ad una GPA in California (dove tale pratica è legale e regolamentata), non ci sembra opportuno spendere ulteriori parole.
Ci ha colpito di più, invece, il dibattito in mondi che sentiamo più vicini: quello della sinistra e quello di alcune associazioni di donne. Nel primo caso abbiamo assistito ad un dibattito che avremmo voluto più ponderato, meno opinionista e meno maschile, il cui obiettivo per una volta non fosse quello di affibbiare etichette e costruire posizionamenti.
Nel secondo abbiamo assistito stupite ad una guerra di trincea, senza possibilità di costruire spazi, metodi e forme di riflessione che non fossero dei botta e risposta polarizzati. In particolare, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a forme di anticapitalismo e pseudofemminismo di stampo conservatore: dietro tanti proclami in difesa delle povere donne sfruttate, c’è spesso in gioco una morale che pretende di sovradeterminare i corpi delle donne e degli uomini.
Per questo motivo, senza l’intenzione di “elargire verità”, abbiamo deciso di scrivere qualche appunto per stimolare la discussione e il dibattito a sinistra, in forma meno dogmatica e più “laica” possibile.
Sfruttamento capitalista o regolamentazione?
Il primo tema che è giusto affrontare è quello che riguarda il rapporto tra la pratica della GPA e lo sfruttamento del corpo della donna da parte del sistema capitalista.
Il dibattito ruota attorno a due considerazioni: da un lato lo stato di bisogno che può spingere una donna ad accettare di mettere a disposizione la sua capacità generativa in cambio di un compenso monetario, dall’altra il profitto che ne trarrebbe chiunque volesse mettere in piedi un’attività che organizzi la GPA.
Molte voci “a sinistra” hanno liquidato la GPA come sfruttamento verso soggetti deboli o come mercificazione del corpo della donna. Ci sembra un approccio che non tiene conto della complessità della vicenda. Ammesso e non concesso (ci torneremo dopo) che tutte le surroganti siano spinte a farlo dal bisogno economico, se da un lato si può mettere in dubbio che un soggetto (in questo caso una donna) in grave difficoltà economica possa essere limitato dal bisogno nella sua libertà di scelta, dall’altro il problema alla radice di questo ragionamento è il persistere delle disuguaglianze in un sistema economico che strutturalmente si basa su di esse, e che sfrutta i più poveri in tutte le forme di estrazione di plusvalore possibile.
In altre parole: ad alimentare lo sfruttamento delle donne più povere in un sistema capitalista è il desiderio di una coppia o di un singolo di avere un figlio o piuttosto è il fatto che qualcuno persista in una situazione di bisogno generata dal sistema capitalista e che alimenta il sistema capitalista stesso?
Provocatoriamente ci viene da domandare: si porrebbe fine allo sfruttamento delle donne in condizioni di povertà se tutti i paesi proibissero la GPA? Certamente no, perché persisterebbe la condizione di bisogno alla base di qualunque ricatto per chi non ha nessuna forma di sostegno al reddito e questa spingerebbe, come già avviene, a prestare il proprio corpo per qualsiasi mansione e qualsiasi condizione di lavoro.
Si risolve lo sfruttamento dello stato di bisogno delle donne più povere vietando una pratica?
La storia ci insegna il contrario: la regolamentazione di una pratica (l’aborto è certamente l’esempio più efficace) favorisce, almeno nel paese in cui essa avviene, un drastico calo di pratiche illegali, dannose ed in mano ad organizzazioni criminali e il conseguente miglioramento delle condizioni di chi si trova a dover offrire determinate prestazioni.
La regolamentazione in Italia può eliminare lo sfruttamento in India o in altri paesi emergenti? No, al massimo può ridurre il numero di coppie italiane che non potendo accedere alla GPA in Italia si rivolgono a donne che la praticano in paesi in cui è legale ma poco regolamentata. Tutto ciò purtroppo è vero per ogni tutela garantita da uno stato: nemmeno il nostro Statuto dei Lavoratori (sotto attacco ogni giorno), riesce a difendere i lavoratori di altri paesi da condizioni di lavoro al limite dello sfruttamento imposte da aziende (anche italiane) che esternalizzano la produzione o è riuscito a sconfiggere il lavoro minorile.
Allora forse ci sentiamo di lanciare come spunto di riflessione che la lotta al capitalismo attuale e la costruzione di un altro modello di sviluppo dovrebbe passare anche e soprattutto da politiche che mettano al centro la liberazione dallo sfruttamento e dal ricatto, da forme di lavoro coercitive (qualunque esse siano) che costringono le persone a fare ciò che non vogliono.
In definitiva non possiamo che essere contente dell’attenzione che in questi giorni è data al nesso tra condizioni materiali e scelte personali e riproduttive, una sensibilità che spesso manca in un paese dove molte giovani donne rinunciano alla maternità proprio per questioni economiche e dove qualunque indicatore economico presenta un gender gap consistente.
Per questo aspettiamo la stessa sensibilità ed attenzione la prossima volta che si ragionerà di differenziali salariali o si porrà il tema che la disoccupazione in questo paese è ancora per molti versi un sostantivo femminile. Per questo ben vengano campagne per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, magari a livello globale, e campagne sul welfare per il reddito minimo.
E’ possibile che non sia solo sfruttamento?
Proviamo ora a domandarci: è così impossibile che esistano donne, fuori da una situazione di povertà economica, che decidano di prestare il proprio utero per una gravidanza per altri (etero ed omo)? Le statistiche e le storie che è possibile leggere anche su siti abbastanza autorevoli ci dicono che è possibile, che è una realtà.
Stiamo parlando di un accordo tra maggiorenni perfettamente coscienti e consenzienti in cui ciascuna delle parti è tutelata. Questa cosa è un abominio o possiamo invece indagare - addirittura comprendere - le motivazioni e i significati che entrano in gioco? Le donne percepiscono tutte nello stesso modo una gravidanza? La maternità è sempre e solo la categoria universale a cui ricondurre e ridurre tutto ciò che le donne fanno e sentono?
Non riconoscere quest'elemento e ridurre tutto ad una pratica costruita unicamente sul bisogno senza possibilità di scelta: un'operazione che offende decenni di dibatto femminista. E' il caso di riaffermare con forza alcuni punti - che pensavamo fossero fermi - da cui non si può prescindere: non tutte le donne vivono la gravidanza nello stesso modo, essere madri non è un destino ma una scelta, generare un figlio non significa automaticamente essere madri.
Gratuità o meno?
Se non stiamo parlando di coercizione ma di libera scelta, stiamo parlando anche di donne che accettano di prestare il proprio utero per generosità (magari per amore di parenti o amici) oppure anche in cambio di una prestazione in denaro.
Per quanto riguarda il primo caso è evidente che stiamo ragionando di un ambito di scelta intimo che può riguardare un semplice atto di generosità oppure può essere un modo diverso di strutturare i propri affetti oppure può basarsi su altre motivazioni. Su chi decide di portare a termine gratuitamente una gravidanza per una sorella/amica affetta da una patologia o per amici omosessuali che vuole contribuire a rendere felici, non crediamo ci sia nulla da discutere.
Molti trovano più complicato accettare che una donna possa decidere di “vendere” la propria capacità generatrice. E qui specifichiamo bene: ciò che si “vende” sul mercato non è il proprio utero (per fortuna nessuno torna a casa con l’utero della donna impiantato da qualche parte!), né il bambino (nei contratti non si parla di compenso per una vita umana), ciò che si vende è una disponibilità a prestare una propria capacità fisica. Esattamente come quando ciascuno di noi firma un contratto di lavoro in un call center, in una fabbrica, o un contratto di ricerca, a meno che qualcuno non voglia imporre a tutte/i teorie che considerano “sacra” la capacità generatrice delle donne e i loro organi.
Quanto è possibile accettare questa cosa in un paese che demonizza ogni giorno la prostituzione e in cui, nonostante essa sia legale, le prostitute sono sempre più sfruttate, denigrate e non tutelate nell’esercizio della loro attività?
Stiamo dicendo che le gestatrici che lo fanno per soldi sono prostitute? Al contrario, stiamo provando a ribaltare la prospettiva da cui osserviamo le dinamiche di sfruttamento: stiamo dicendo che ogni volta che mettiamo le nostre capacità fisiche e psichiche - compresa la capacità di generare - a disposizione del mercato non siamo in una condizione molto diversa da quella di chi si prostituisce.
E’ possibile ragionare di questi temi senza il solito moralismo che spinge a condannare chi sceglie liberamente di disporre del proprio corpo?
Chiediamo nuovamente: il tema, in questo dibattito, è il mercato o il corpo delle donne? Se il lavoro gratis non ci piace perché dovremmo obbligare le donne a non farsi pagare per una GPA? Se invece di agenzie pronte a sfruttare e trarre profitto dalla GPA esistessero e si promuovessero cooperative di donne che si autorganizzano, il giudizio contrario alla GPA sarebbe lo stesso? Vale la pena discutere, magari partendo da esperienze interessanti come le “banche” di materiali riproduttivi gestite dalle associazioni LGBTQI in California (leggere sul tema il saggio di Laura Fantone contenuto in “L’amore ai tempi dello tsunami” di Giuliani, Galletto e Martucci, edito da Ombre Corte).
La GPA è sicura per le donne?
Nel 2016, anche nei paesi che possono vantare un sistema sanitario accessibile a tutti e di qualità, una gravidanza può essere a rischio, può avere conseguenze sulla salute della gestante e - in rari casi - nel 2016 di parto si può ancora morire. Questo rischio esiste per ogni gravidanza, quindi anche per le GPA, esattamente nello stesso modo.
Una regolamentazione della GPA consente di stabilire i doveri dei genitori promessi verso la gestante: analisi, visite mediche, ecc... Questo rapporto durante tutta la gestazione aiuta anche a stabilire un contatto umano tra surrogante e genitori promessi, anche quando questi non si conoscessero prima.
Medicina e biopotere: come si stabiliscono i limiti della scienza?
Le pagine dei giornali e dei blog si sono riempite della parola “natura”, fino a sembrare una parodia della celebre sigla dei Puffi. Tralasciando le parole sprecate nel concetto di famiglia naturale (un vero e proprio ossimoro), la GPA è stata descritta spesso come un abominio dell’età contemporanea, sintomo di un’umanità che ha perso i contatti con la natura da cui proviene, frutto di incapacità moderna di rassegnarsi ai limiti naturali.
Il dibattito sui limiti della scienza è estremamente complesso e merita una trattazione ben più estesa. Ci limitiamo a segnalare la strumentalità di queste argomentazioni, che emergono ogni volta che si tratta il tema dei diritti e delle pratiche riproduttive (vi ricorderete che rispetto all’eterologa è stato tirato in ballo il fantasma dell’eugenetica nazista). La GPA è frutto della modernità? Certamente le tecniche con cui si svolge ora sono frutto dello sviluppo tecnologico attuale, ma il bisogno a cui risponde è molto più antico. Il desiderio di avere figli, l’impossibilità di averli e le strategie per superare questi ostacoli sono ricorrenti nelle opere letterarie di tutte le epoche, così come ogni società ha adottato strumenti (adeguati alle possibilità tecnologiche dell’epoca) per rispondere a questi problemi.
La GPA, la fecondazione eterologa, la fecondazione assistita si basano su tecniche “naturali”? No, esattamente come la cura di un’appendicite, un parto cesareo, l’otturazione di un molare cariato.
Il dolore delle donne
Uno degli aspetti più fastidiosi di molte delle argomentazioni, oltre al tono paternalistico verso le povere donne incapaci di decidere sul proprio corpo, è stato l’insistere sul dolore delle surroganti che si vedono strappato il figlio portato in grembo per 9 mesi e del bambino che si vede sottratto alle braccia materne. Il dolore è un tema ricorrente ogni volta che si parla di donne che fanno scelte non convenzionali in materia di riproduzione e sessualità. In un Paese dove una donna su tre circa subisce almeno una volta nella vita un episodio di violenza, sembra invece che a soffrire siano le donne che abortiscono, che scelgono di non avere figli, che si separano o quelle potrebbero in futuro portare avanti una gestazione per altri. 
Non diciamo che una donna non possa desiderare di crescere il bambino al termine della gravidanza (infatti in molti paesi in cui la GPA è regolamentata spetta alla gestante l’ultima parola), così come non neghiamo che le situazioni citate sopra possano essere dolorose. Neghiamo però la narrazione universalizzante per cui tutte le donne che portano avanti una GPA vorrebbero essere madri del bambino, tutte le donne che abortiscono sono devastate dal dolore, tutte le donne che si separano soffrono, ecc...
Quanto c'entra l’omofobia con le critiche a Vendola?
La nostra non vuol essere la difesa di Nichi Vendola, ma ci sentiamo di dover dire alcune cose, dopo il dibattito impietoso di questi giorni. Decidere di far valere un proprio diritto (in questo caso il diritto alla genitorialità) negato dallo stato in cui vivi è sempre costoso: pensiamo a chi poteva permettersi di abortire negli anni ‘50 o chi ancora oggi è costretto a pagare anche per poter scegliere di morire dignitosamente, essendo l’eutanasia illegale. Quando esiste un divieto qualunque pratica è elitaria.
La GPA esiste da una trentina d’anni, le coppie che la utilizzano sono principalmente eterosessuali (tra l’altro nei paesi in cui la regolamentazione è meno tutelante per la surrogante spesso le coppie omosessuali non possono farvi ricorso). Quindi ci chiediamo: come mai in Italia si è iniziato a parlarne proprio proprio nel momento in cui si stava discutendo il DDL Cirinnà e si era aperto il dibattito sulla stepchild adoption? Come mai questo accanimento su una scelta privata e personale su un uomo politico omosessuale, in un paese che invece ha sempre dimostrato molta tolleranza verso comportamenti anche penalmente rilevanti di uomini pubblici eterosessuali?
Quanto queste offese oltre misura ci parlano di un paese che per denigrare un uomo politico utilizza strumentalmente il suo personale e le sue scelte di vita, nonché la sua sessualità? Il dibattito sarebbe arrivato a questi livelli se Vendola fosse stato un eterosessuale che avesse fatto la stessa identica scelta con la sua compagna donna?
La libertà di scelta è di sinistra?
Neanche questo tema evidentemente è semplice da affrontare: ci piacerebbe, invece, fosse al centro di un dibattito più ampio verso un nuovo soggetto di rappresentanza politica. Sicuramente non ci piace che sia ridotto a terreno su cui riaffermare vecchie divisioni.
La libertà del desiderio e dei corpi è una questione individuale o può incastrarsi in una visione collettiva di società? Nel caso specifico, il desiderio di un figlio, anche quando implica il ricorso alle nuove pratiche offerte dalla scienza, è un sentimento che può avere una sua cittadinanza in un progetto che miri ad una società ugualitaria?
Si può coniugare la necessità di tutelare sempre la libertà delle donne di poter decidere sul proprio corpo con quella di non legittimare nuovi spazi di sfruttamento? Se sì, come lo si fa, senza invocare nuove forme etiche e patriarcali di Stato? Esiste un modo per rendere queste questioni centrali e non orpelli di un progetto radicale di alternativa o dobbiamo continuare solo a dispensare a fasi alterne patenti di anticapitalismo o femminismo che non riescono a trovare una sintesi reale fra loro?
Senza pretese di ridurre la complessità del dibattito, crediamo che per liberarci dallo sfruttamento dobbiamo perseguire due strade. Da un lato, la lotta per liberare oppress* e sfruttat* dalla condizione di bisogno. Insomma, viva sempre la cara e vecchia rivoluzione e la battaglia per la redistribuzione della ricchezza e l’emancipazione dei subalterni! Siccome però non possiamo nasconderci che la rivoluzione tardi ad arrivare, non possiamo eludere la necessità di costruire nel frattempo soggettività sociale: coscienza di sé come oggetto di sfruttamento ma anche come soggetto consapevole, capace di riconoscere i condizionamenti sociali, economici e culturali che determinano o quantomeno influenzano le nostre possibilità ma anche le nostre scelte. Nel momento in cui riconosciamo le nostre condizioni di bisogno come profonda ingiustizia, il portato individualista della libertà diventa autodeterminazione. Se non c’è libertà senza uguaglianza, così non esiste giustizia sociale senza autodeterminazione dei soggetti.
Come persone che vivono quotidianamente sulla propria pelle sia la negazione di diritti individuali sia quella dei diritti sociali non possiamo vedere nessuna contraddizione tra di essi, perché nella nostra vita quotidiana non lo sono. Chiediamo a quelli che potrebbero essere i nostri compagni futuri e presenti se nella loro vita credono davvero che qualcosa venga prima o sia più importante.

Fonte: Il Corsaro 

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