La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 marzo 2016

Lo Stato e la giurisdizione. Il caso Alfano e gli altri

di Giuseppe Panissidi 
“Un avviso di garanzia non è una condanna”. Mamma ha fatto gli gnocchi. E l’aria è fritta. 
Questo monotono refrain accompagna e scandisce le liete giornate di un popolo in attesa di comprendere se, realmente, una sottospecie di primo ministro, tale Renzi, possa avere ragione. Proviamo a tradurre in italiano la solenne asserzione che l’uomo di palazzo Chigi rivolge alle constituencies del Belpaese agonico. 
Sotto la lente d’ingrandimento dell’analisi logico-linguistica, il significato della boutade appare inequivoco. Alfano non è stato raggiunto da alcuna condanna. Non ancora. E non è stato neppure posto in stato d’accusa. Anzi, non si trova nemmeno sottoposto a investigazioni formali. La relativa decisione, infatti, spetta al competente giudice dei ministri. Tutto vero. 
Ma, allora, in quale posizione si trova, esattamente, il nominato Alfano, degno rappresentante di una formazione largamente sub iudice (penale), nonché fulgida icona della vera anti-politica? Ma, nel Paese Vaticano, il vangelo non condanna più l’ipocrisia con disprezzo? Francesco è in vacanza? Oppure è impegnato in intimi conversari con qualche giornalaio compiacente e compiaciuto? Stranezze. 
Invero, la presunzione d'innocenza non è sancita nella Costituzione Italiana, nonostante alcuni autori credano di rinvenirla nell'articolo 27.2, che recita testualmente: “L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. L’imputato non è considerato colpevole sino a. La lingua merita unreligioso rispetto, anche nel Paese dell’80% di analfabetismo funzionale, di ritorno e di… andata. Se non che, non essere considerato qualsiasi cosa non implica di necessità il non essere quella determinata cosa! La norma, in sostanza, enuncia il divieto di “considerare” l’imputato colpevole. Tutto qui. E, dunque, essa non contempla presunzioni, né di innocenza, né, a fortiori, di colpevolezza. Il principio si limita a porre un giusto divieto di “presunzione di colpevolezza”. In breve: l’imputato non può essere presunto colpevole. Che, poi, debba essere considerato “innocente” è tesi cara alle bande criminali che infestano il Belpaese, dalla (pretesa) “politica”, ad ampi settori della società che immaginiamo civile. 
Tale la saggia conclusione cui pervennero i Padri Costituenti, quisquilie, all’esito di una lunga ed approfondita discussione, nel corso della quale emerse l’inopportunità, fuorviante, e vagamente ridicola, della “romantica” qualificazione di “innocenza” per l’imputato in attesa di giudizio. Usa, da due secoli, anche nel mondo anglofono. Inoltre, per dirla tutta e senza infingimenti, il nostro si può considerare tutto, meno che un Paese di… innocenti. Come dimostra la strameritata primazia continentale in scienza e prassi della corruttela. N
I padri della Costituzione repubblicana, ossia, decisero di ancorare la presunzione di non colpevolezza al passaggio in giudicato della sentenza, dal momento che il codice Rocco del 1930, allora ancora vigente, prevedeva il processo inquisitorio, con forti limitazioni del diritto di difesa. Un processo (quasi) completamente affidato alla fase “istruttoria”, nel cui segreto, infatti, la prova veniva raccolta, con l’inevitabile conseguenza che era pressoché impossibile, in giudizio, spostare la regiudicanda dai binari originari. Si chiama anche totalitarismo, con il dovuto rispetto per le distinzioni un po’ cavillose di Hannah Arendt, ancorché ormai superate sul piano dell’indagine storiografica. 
Dal 1764, or sono due secoli e mezzo, nel solco fecondo di civiltà delle opere capitali di Pietro Verri e Cesare Beccaria, la maturazione di questa idea profonda è stata lenta ma progressiva, diciamo pure inarrestabile. Com’è ampiamente noto, alla presunzione d’innocenza inerisce lo statuto di regola di giudizio fondante, storicamente sorta entro la tradizione anglosassone. Nel cui ambito, tuttavia, la libertà personale dell’imputato è stata sempre così ben tutelata, che la garanzia della presunzione di non colpevolezza è sembrata persino superflua, mentre, come regola di trattamento dell’imputato, essa appartiene all’esperienza europeo–continentale, risalente al pensiero illuminista e alla rivoluzione francese. 
E però, il punto vero ed essenziale della questione, a ben guardare, è un altro. 
Alti lai si levano a ogni piè sospinto intorno al valore sovrano della distinzione dei poteri. “Non siamo passacarte della magistratura”, rivendica il vangelo secondo Matteo. Più che giusto. Entro il concerto sinfonico – nella duplice accezione del lemma – dei poteri, a ciascuno di essi dev’essere riconosciuta piena indipendenza ed autonomia. Anche quando si giudica un ex cavaliere a Milano, evidentemente, dopo i patti nazareni. 
Ma se questo è vero, quale significato possiamo annettere alle parole renziane, se non quello, obbligato, che bisogna aspettare pronunce ed eventuali sanzioni penali per… provvedere? Ora, a prescindere dal fatto che anche “dopo” i giudizi si verificano intriganti stranezze, la detta posizione implica effetti grotteschi ed auto-contraddittori. Perché demanda alla giurisdizione ogni decisione in merito agli sviluppi “politici”! Ma la “politica” non è autonoma? E allora perché non provvede autonomamente, e senza mistificazioni, senza aspettare i carabinieri? Che “politica” è mai quella che ha bisogno dell’intervento della forza pubblica per capire come deve condursi?! 
Obiezione. Non può agire, la “politica”, finché non venga accertata la verità processuale. E la verità può acclarare solo il giudice penale. Una fallacia siffatta è indegna finanche della più ritardata e scellerata tra le cosche. Infatti, ottimo Kant, “ragionare è distinguere”. E, anche nel caso che occupa, è giocoforza distinguere. 
Se un imputato non può essere recluso, se non dopo una sentenza irrevocabile, altro è la “politica”. Essa, la “forma più alta dell’attività umana”, proprio in virtù della sua autonomia, deve garantire al popolo la conoscenza certa dell’asserita non-colpevolezza dell’imputato, non già la presunzione. In altri termini, il popolo sovrano – largo al nominalismo - è assistito dal diritto, costituzionalmente protetto, di sapere se Alfano sia colpevole o non colpevole. Fino ad allora, l’uomo – per usare una parola grossa - dovrebbe mettersi o essere lasciato da parte. Per l’appunto, fino a quando il popolo sovrano, i.e. il (nominale) superioredell’Angioletto non proprio da presepe, non saprà con certezza se esso lui sia un bandito o un galantuomo. Una tale incertezza può ammettersi nel processo penale, fino alla sua conclusione, non mai nell’agone politico-istituzionale della rappresentanza democratica. Il popolo sovrano, propriamente detto, e lo Stato costituzionale di diritto non possono restare in trepida attesa, come quando la nonna prepara gli gnocchi per le festività. Il faut savoir. 
Quanto poi a una fanciullina di belle speranze, la nubile grandi-riforme, non a caso materia fresca per le voglie di Tinto Brass, tale Boschi, le converrebbe riportare il suo bel visino inespressivo dentro un presepe, dove è stata di casa, per confessare a Gesù bambino che “i voti servono”. Anche gli escrementi di un galantuomo come Verdini, un formidabile… pastore. Di animucce luciferine? Signorina Maria Elena - quanti nomi regali - i voti servono? Indiscriminatamente? Anche quelli della mafia, in ipotesi, e senza alcun criterio etico-politico di demarcazione? No, di certo. 
Non occorrono, infatti, molti neuroni per capire che i voti, in assenza di criteri di igienica rilevanza democratica, possono anche sporcare. Se sono sporchi. Perché, de facto, noi non sappiamo ancora, neppure di questo signore, se sia realmente responsabile dei misfatti che la giurisdizione gli imputa, oppure se sia non colpevole. Sicché, in così drammatica, lancinante incertezza, il vangelo secondo Matteo, imbarcandolo alla cieca, finisce per rovesciarsi nel suo diretto opposto. Una perversa imprudenza/impudenza, se non un delitto. Di Stato. 
Potrà anche piacere, inter alios, a Giorgio Napolitano, ma non ai cittadini sovrani e, forse, realmente… emeriti. 
Se, poi, rispondesse al vero che compare Denis si è infognato nella maggioranza per ottenere “protezione giudiziaria”, come (inopinatamente) dichiara un giornalista di Huffington Post, allora sarebbe del tutto evidente che tra esecutivo e giurisdizione v’è una relazione incestuosa e vomitevole. Un autentico, perverso assassinio del primo principio democratico, cardine della moderna civiltà giuridica: l’articolazione funzionale dei poteri. Dobbiamo soltanto augurarci che non ci troviamo ancora in questo abisso di abiezione barbarica, e che si tratti soltanto di un’illazione, senza con questo nulla togliere alle eventuali, comprensibili speranze del nominato socio di Matteo. Ora si tratta di “fiducia”, infatti, non più del semplice appoggio, come nel caso di Letta. Ora, come la prostituta Circe a Odisseo, si è detto: “Vieni nel mio letto, proveremo la fiducia”. Senza, tuttavia, dimenticare che Verdini è noto per un’odissea assai meno gloriosa, quella giudiziaria, e che persino il direttore del Giornale evoca imprecisati “rapporti di scambio”. Per la serie: le unioni… incivili. Chi mai saranno i figliastri negati dalla legge, saprà il cielo. 
Pensare. La giustizia è “la stella centrale che governa la società, il polo intorno al quale ruota il mondo politico, il principio e la regola di tutte le transazioni. Nulla avviene fra gli uomini che non sia in nome del diritto, nulla senza invocare la giustizia”. Un sogno ad occhi aperti di P-J. Proudhon, oggi come non mai, dopo più di un secolo e mezzo, … inattuale. Del resto, se così non fosse, Albert Einstein non avrebbe neanche potuto immaginare che “ il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai delinquenti, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”. Una verità autoevidente, dalla E. M Cioran ha ricavato il conclusivo, benché scettico convincimento che “la giustizia è un’impossibilità materiale, un grandioso non senso, l’unico ideale di cui si possa affermare con certezza che non si realizzerà mai”. Con un’avvertenza di primo grado. Altrove, sarà anche un non senso. Chez nous, il senso profondo, perenne ed autentico dell’intero. 

Fonte: MicroMega online 

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