La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 marzo 2016

Passività e rivoluzione

di Emanuele Clarizio
Non molti anni fa, ma in un tempo ormai lontano, è esistito un movimento intellettuale che, coniugando una grande originalità teorica con una volontà di riscatto politico del meridione, è divenuto noto con il nome di école barisienne. Nata nel seno del PCI e con l’aspirazione di rinnovarne le forme – stirando la verticalità politica con una dose di orizzontalità civica – l’école si distingueva per una certa rilettura di Marx in chiave gramsciana. Purtroppo (o per fortuna – secondo i punti di vista) la configurazione istituzionale di allora si è sfaldata, la luce di quel vecchio Partito non illumina più i corridoi delle università (ma al massimo qualche isolata scrivania qua e là) e persino parlare di scuole, in un clima di crescente dismissione dell’Università, sembra del tutto fuori luogo.
Ma poiché, come si sa, non tutti i mali vengono per nuocere, è capitato che un giovane (e precario, ça va sans dire) ricercatore barese, Alfredo Ferrara, abbia organizzato un convegno su Gramsci e il presente, raccogliendo altri giovani (e precari) ricercatori italiani con l’intento spudorato di leggere Gramsci nel presente, e viceversa il presente con Gramsci, liberi da ogni autorità politica o accademica che decidesse in anticipo la legittimità delle loro scelte teoriche.
Ne è risultato un agile e frizzante volume, “Prospettiva Gramsci”, pubblicato meritoriamente da una casa editrice barese indipendente ed emergente, Caratteri Mobili, che si è accollata il merito e la responsabilità di ospitare le riflessioni di questi giovani apolidi della sociologia e della teoria politica.
Tutte queste considerazioni contestuali non sono anodine, se si pensa al carattere politico da cui il libro parte e al quale mira: si tratta di riflessioni di giovani studiosi e militanti (come si evince dalle biografie in coda), per i quali l’elaborazione teorica non è separata dalla prassi politica e il cui intento è appunto quello di dotarsi di strumenti di discussione e di lettura del presente in una prospettiva politica, in tempi di latitanza del politico. Il movimento è in un certo senso opposto a quello tentato dall’école barisienne: non si tratta più di fluidificare l’eccessivamente solido, ma di gettare delle ancore nell’irrimediabilmente liquido. Prospettiva Gramsci è, infatti, il titolo del volume collettivo, metafora di una pluralità di voci unite da uno sguardo strategico, che usando il pensiero gramsciano come una leva mobile, cerca il punto da cui attaccare la realtà.
Se le esigenze di una simile operazione sono evidenti, più difficile è cogliere l’opportunità di farlo dialogando con Gramsci e proprio con Gramsci. Io credo che in un momento storico teso fra dinamiche populiste da un lato, e discorsi individualizzanti e tendenzialmente nichilistici dall’altro, l’esercizio, cui Gramsci ci invita, di andata e ritorno fra la realtà e la teoria, di equilibrio fra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, sia quanto mai necessario e virtualmente carico di efficacia. Non sempre, forse, tale equilibrio è stato raggiunto da ciascuno dei saggi presenti nel volume, ed è forse questo l’unico limite di un libro che per altro merita di essere letto e soprattutto discusso (cosa che rende quel limite più trascurabile), il cui destino non è tanto quello di finire relegato in uno scaffale di biblioteca, quanto quello di circolare di mano in mano nelle assemblee d’istituto, nelle aule occupate delle università o nelle sedi delle organizzazioni politiche.
L’interesse dei singoli interventi, per di più, non è tanto nel contribuire a un dibattito accademico (nonostante alcuni saggi posseggano un notevole spessore epistemologico), quanto nel fornire al lettore problematizzazioni inedite di questioni brucianti (siano esse schiettamente teoriche, oppure sociali e politiche) attraverso il grimaldello delle categorie o delle teorie gramsciane.
Ognuno meriterebbe di essere riassunto individualmente, e con ogni autore verrebbe voglia di accapigliarsi e discutere, ma mi limiterò a focalizzare solo alcuni punti: il libro si apre con un saggio di Giacomo Bottos, dedicato a Gramsci e i presupposti della politica, in cui si coglie la preoccupazione (quasi da establishment) di restituire ai partiti l’egemonia perduta, e prosegue passando attraverso articoli che cercano invece di attualizzare in maniera originale gli strumenti offerti da Gramsci, come quello di Federico Carbognani e Rossella Viola e quello di Enrico Consoli, rispettivamente dedicati allo studio del sistema di istruzione in termini di classe e alla categoria di cesarismo applicata ad alcune figure della recente politica italiana. Di carattere più sociologico il primo e più politologico il secondo, entrambi dimostrano la fecondità e l’originalità che il dialogo con Gramsci può ancora produrre.
I saggi di Alfredo Ferrara, curatore del volume, e di Giuseppe Montalbano, pur dedicati a temi diversi, trovano un punto di dialogo – e forse di divergenza – nell’interpretazione della rivoluzione passiva: laddove Ferrara propone una documentata e convincente lettura del neoliberismo in quanto «rivoluzione passiva» (facendo i conti con il portato antropologicamente tragico e politicamente aporetico di una simile idea), Montalbano al contrario, discutendo alcuni approcci neogramsciani al problema dell’egemonia, intende la «rivoluzione passiva» come un progetto egemonico dei dominanti, riponendo per contrasto una fiducia quasi incondizionata nella capacità dialettica dei subalterni di invertire la situazione storica, ma per ciò stesso sottovalutando il carattere tragico di questo processo. Mi sembra in altri termini che la sua ipotesi non faccia pienamente i conti con la passività evocata dall’espressione gramsciana e con il fatto che essa prevede un concorso dei subalterni, una loro (nostra!) certa voluttà nell’esser governati, nell’abdicare alla propria volontà politica in virtù dell’aderenza a un modello antropologico forse non più riconducibile alla dialettica hegeliana del servo e del padrone.
Insomma, confidare nella struttura dialettica del reale e affidarsi alla volontà di emancipazione dei subalterni significa senz’altro schierarsi dalla parte giusta della storia, ma significa nello stesso tempo credere alla linearità di questa storia e ridurre la complessità dei desideri dei soggetti che ne sono immersi. Se invece una rivoluzione passiva si compie fino in fondo, come mostra Ferrara, è perché quegli stessi soggetti hanno fatto del proprio giogo il proprio abito; che ciò sia avvenuto senza una precisa volontà politica – e dunque passivamente – nulla toglie all’effettività del processo, ed è anzi un elemento che dovrebbe costringere a raffinare gli strumenti del materialismo facendo i conti con questa inedita – per quanto straniante – solidarietà culturale e antropologica fra i governanti e i governati, che va compresa e analizzata prima ancora di essere moralizzata e stigmatizzata. Come si diceva, il pessimismo della ragione è esercizio ben più arduo dell’ottimismo della volontà, ma l’uno non può andare senza l’altro, pena il risolversi in cinismo fine a se stesso o, al contrario, velleitarismo naif. Il pezzo di Mariano Di Palma dedicato alla subalternità si muove pericolosamente lungo questo crinale e a volte scivola dal lato di un eccesso di ottimismo, laddove la postura analitica lascia ampio spazio a toni assertori, ma ha senz’altro il merito di puntare il dito sulle nuove frontiere della dominazione e, quindi, della possibile ricomposizione di classe.
Chiude il volume un saggio di Lorenzo Zamponi, dall’accattivante titolo “Gramsci a Tharir”, che discute il tema spinoso dello spontaneismo nelle azioni collettive dei movimenti sociali. L’impressione è che il discorso di Zamponi, per altro ben documentato, perda di rigore e viri verso l’autoreferenzialità nel momento in cui si risolve in una stoccata equivoca (perché ampiamente suggerita, ma non pienamente rivendicata) di un’anima dei movimenti italiani contro un’altra. Un dérapage, direbbero elegantemente i francesi, che distoglie il lettore da una discussione di per sé essenziale e nella quale la posta in gioco è niente di meno che l’organizzazione dei movimenti.
Prospettiva Gramsci è in conclusione un libro vivace e vivente, che non offre risposte alla crisi politica della nostra generazione, ma che non si limita nemmeno a metterla a tema, porgendo invece innumerevoli appigli a chi voglia ostinarsi a fare del futuro un’impresa collettiva.

Fonte: quattrocentoquattro.com

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