La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 marzo 2016

La messa in fallimento del ceto medio. Intervista a Christian Marazzi

Intervista a Christian Marazzi di Commonware
Partiamo innanzitutto da un aggiornamento del nostro diario della crisi. Negli ultimi mesi ti sei soffermato su quella che hai definito fine dell’impero, a partire dalla crisi dei Brics e dai cambiamenti dell’equilibrio tra Cina e Stati Uniti. Proprio in questi giorni, per esempio, è intervenuto il direttore della banca centrale cinese per rassicurare i mercati sulla tenuta della valuta nazionale. Come si approfondiscono dunque i processi di crisi del quadro geopolitico?
"Siamo in una situazione di quasi tempesta perfetta, nel senso che c’è una concomitanza di focolai di crisi distribuiti sull’intero pianeta per cui la crisi può esplodere da un momento all’altro, come può anche non esplodere subito e mantenersi su questo ghiaccio sottile ancora per un po’ di tempo. I focolai vanno dalla caduta dei prezzi delle materie prime, il petrolio ma non solo, all’accumulo di attivi in sofferenza nei bilanci delle banche, legati soprattutto alle banche americane e al settore petrolifero del fracking, ma in parte anche dovuti a questi anni di tassi di interesse molto bassi che hanno portato le banche a elargire crediti non sicuri e che si sono aggiunti a quelli che ancora giacciono nei bilanci a partire da prima del 2008.
Oltre a questi fattori, c’è la situazione cinese e dei paesi emergenti in generale. In Cina c’è un forte rallentamento dell’economia legato a una crisi che si può definire da bolla del settore immobiliare, che ha delle ripercussioni sul sistema bancario cinese. Il 60% dei prestiti delle banche cinesi è direttamente o indirettamente legato al settore immobiliare, che soffre manifestamente di una crisi da sovrapproduzione. Credo che questo sia un fattore estremamente importante che peserà nei prossimi mesi assai più di una situazione di tipo valutario per quello che riguarda il Renminbi. Il presidente della banca centrale cinese può rassicurare finché vuole i mercati, però il problema è assai più profondo e ha a che fare con la situazione del sistema bancario indotta dalla sovrapproduzione nel settore immobiliare, e anche con gli effetti sui prezzi delle materie prime. Evidentemente un ruolo importante nel crollo dei prezzi delle materie prime, petrolio incluso, è il rallentamento nel settore delle costruzioni e immobiliare. Tant’è vero che c’è un quasi perfetto parallelismo tra il rallentamento sempre più forte in questo settore e il prezzo delle materie prime importate dalla Cina. Ciò si ripercuote poi sui paesi esportatori di materie prime, come Brasile, Venezuela, Azerbaigian.
In aggiunta a tutto ciò c’è ovviamente la fase geopolitica, che resta tesa da far paura, e che potrebbe di per sé creare un clima di sfiducia malgrado gli sforzi di contenimento della crisi economico-finanziaria. Questa crisi potrebbe anche non scoppiare, sulla base dei dati di cui siamo a conoscenza, secondo alcuni economisti la situazione non è così drammatica da dover condurre necessariamente a una crisi generalizzata. Sta di fatto che tutto ciò va visto e interpretato alla luce della stagnazione secolare, cioè di eccesso di risparmio sul desiderio di investire da parte del capitale, alla scarsità della domanda di beni di investimento si aggiunge la scarsità della domanda di beni di consumo. È questo il quadro dentro cui dobbiamo sempre sforzarci di ragionare, ossia di una stagnazione o sovrapproduzione secolare, che è appunto destinata a durare a lungo. Questa situazione si spiega in buona parte alla luce delle politiche monetarie delle banche centrali, che sappiamo essere state fortemente espansive a partire dal 2008 proprio per cercare di uscire dalla crisi e che però hanno contribuito solo a cambiarle pelle, o meglio a peggiorarla. Da una parte, proprio perché sono state messe in opera con l’azzeramento dei tassi di interesse, le politiche monetarie hanno portato a un aumento generalizzato dell’indebitamento, soprattutto di quello delle grandi imprese e delle imprese nei paesi emergenti, che si sono indebitate con le banche occidentali a tassi praticamente nulli e in monete come il dollaro o l’euro, quindi si trovano oggi a dover ripagare questi debiti in valuta forte o rivalutata. Dall’altra parte, queste politiche monetarie, se hanno contribuito a far crescere l’indebitamento privato e pubblico proprio grazie ai bassissimi tassi di interesse, all’interno della stagnazione secolare si sono complicate a causa della deflazione, o comunque di una stagnazione non inflazionistica, che ha fatto aumentare in termini reali questi stessi debiti pubblici e privati. Un’inflazione pressoché nulla, o addirittura negativa in alcuni paesi avanzati, aumenta infatti il valore reale del debito, che è esattamente ciò che sta mettendo a repentaglio l’intero castello monetario e finanziario. È per questa ragione, d’altronde, che le banche centrali cercano di contrastare l’aumento del peso del debito pubblico e privato con misure monetarie volte sempre di più ad aumentare la liquidità e a praticare tassi di interesse addirittura negativi, come in Svizzera, in Giappone, in Danimarca, in Svezia. La Federal Reserve, che in dicembre sembrava essere riuscita a uscire dalla sindrome dei tassi pari allo zero, sta anch’essa prospettando uno scenario di riduzione rinnovata dei tassi di interesse. Nel frattempo, sia la banca centrale giapponese sia la BCE hanno ridotto i loro tassi sotto lo zero, e con i Treasury Bonds americani che danno un rendimento superiore (quelli giapponesi sono addirittura negativi!), è normale che il dollaro si sia rivalutato. Le banche centrali tentano dunque di far partire l’inflazione per contribuire a diminuire il valore dei debiti, solo che non ci riescono, nemmeno con tassi di interesse negativi che dovrebbero ovviamente incitare le banche a erogare crediti alle aziende e ai privati. Il problema è che le aziende non intendono investire e i privati hanno ancora bisogno di disindebitarsi, per cui non possono aumentare il proprio indebitamento per elevare il consumo. Ci troviamo in una situazione realmente paradossale: c’è l’intenzione dichiarata da parte delle banche centrali (pensiamo alla Bce) di espandere ancora di più la liquidità rispetto ai 60 miliardi attuali del quantitative easing, però una parte consistente di questa liquidità (si parla dell’80%) che arriva alle banche sotto forma di acquisto dei buoni del tesoro e di altre obbligazioni da parte della Bce e che sarebbe disponibile a essere distribuita o fatta sgocciolare nell’economia reale, ritorna invece alla Bce stessa sotto forma di depositi, e questo malgrado tassi di interesse negativi. È chiaramente un paradosso, ma Draghi vorrebbe aumentare ulteriormente gli interessi negativi, portandoli da -0,30 a -0,40."
Siamo dunque nella trappola della liquidità, che avevi già prefigurato quando Draghi ha inaugurato il quantitative easing...
"La trappola della liquidità mi porta a ribadire che o si affronta la questione del quantitative easing in termini nuovi e radicali, di dirottamento della liquidità direttamente nelle tasche dei cittadini europei, oppure non c’è scampo. Proprio in questi giorni, per esempio se si legge l’Economist, c’è un briefing fatto molto bene sulla paralisi delle politiche di quantitative easing. Se si legge anche Martin Wolf sul Financial Times, tutti cominciano a dire che o si distribuisce la liquidità direttamente ai cittadini, addirittura si parla di 10.000 euro a ogni adulto europeo, oppure non si esce dalla stagnazione secolare e dal circolo vizioso di creazione della liquidità che però non sgocciola nell’economia reale e non aumenta la domanda. È chiaro che l’Economist o ilFinancial Times non nominano il quantitative easing for the people, però di fatto parlano di quello, cioè di una redistribuzione di una liquidità che altrimenti non contribuisce ad aumentare la domanda e l’inflazione attorno al 2%, come si vorrebbe fare con queste politiche espansive.
Apro una parentesi. In un certo senso questa idea diventerà operativa nei prossimi mesi, ma ci vorrà ancora una fase di ulteriore riduzione dei tassi di interesse negativi della Bce e della Banca centrale giapponese. Dobbiamo cioè forse dare per scontato un altro tentativo di rilanciare l’inflazione attraverso un ulteriore abbassamento dei tassi di interesse, che sono già sotto lo zero, poi è possibile che questa idea di dirottare la liquidità direttamente sui conti correnti dei cittadini europei diventerà operativa. È chiaro che qua ci troviamo di fronte a una sfida interessante. Intanto tale idea viene da un movimento che si è posto questo problema già un anno fa, anch’io avevo sottoscritto una lettera collettiva pubblicata dal Financial Times nel marzo del 2015 dove si proponeva esattamente questo. Adesso, dopo un anno, si comincia a parlarne seriamente. Non so in che misura tale idea sia compatibile con gli statuti del Trattato di Maastricht, perché in un certo senso si tratta di una monetizzazione del debito direttamente da parte della Banca centrale, cosa che è vietata negli statuti, ma credo che in una situazione di emergenza si troverà il modo di aggirare l’impedimento giuridico. La cosa che mi interessa è che si tratta di una sorta di ridefinizione su scala europea di un reddito di cittadinanza, che non si sostituisce alle prestazioni sociali vigenti a livello del welfare dei singoli stati membri, ma si aggiunge a tali prestazioni sociali, là dove ci sono, e al salario stesso nelle sue varie forme. Questa liquidità iniettata direttamente nelle tasche dei cittadini andrebbe intesa come la creazione di una domanda aggiuntiva a quella esistente e insufficiente oggi in Europa. Oltretutto, se si vuole efficace, questa redistribuzione del reddito attraverso l’iniezione diretta di liquidità deve essere permanente, ossia reiterata su più anni. E’ in questo senso che si avvicina all’idea di reddito di cittadinanza. In secondo luogo, quando si ragiona di queste cose in termini di politica monetaria e di destinazione della liquidità, non si parla solo di reddito ma anche di investimenti in opere pubbliche e infrastrutturali. Bisogna allora ridefinire in termini keynesiani la leva degli investimenti pubblici e della loro socializzazione: bisognerebbe proporli in settori diversi da quelli del genio civile e delle grandi opere, che funzionavano negli anni ’30 o dopo la seconda guerra mondiale come settori capaci di creare occupazione, lavoro e reddito attraverso il debito pubblico, ma non lo sono più oggi. Le grandi opere occupano soltanto il 20% di lavoro, soprattutto nella parte finale delle loro realizzazioni, per il resto hanno una durata media di dieci anni, quindi sono troppo lunghe per poter avere un impatto in termini di creazione di reddito. Sono ad alto risparmio di lavoro e hanno, come sappiamo dal Tav, delle elevate esternalità negative, per non parlare della corruzione che puntualmente le caratterizza. Bisogna smetterla di parlare di questi investimenti infrastrutturali come antidoto alla crisi secolare. Ovviamente in parte ci vogliono: riuscire a effettuare una migliore manutenzione delle strade e delle autostrade è chiaramente utile, si calcola che negli Stati Uniti a causa delle strade piene di buche ogni automobilista spenda 700 dollari all’anno per riparare l’auto. Il punto è che non sono la soluzione: bisogna certamente continuare a fare degli investimenti mirati in modo tale che allevino i danni collaterali di manutenzione o investimenti mancati, però credo che il grosso degli investimenti debba andare nei settori antropogenetici, cioè nella formazione, nella ricerca, nella sanità, nella socialità, nella cultura, nell’ambiente, in tutti i settori in cui è centrale l’agire relazionale, il produrre non tanto oggetti quanto soggetti, nel senso della cura delle persone e del miglioramento della qualità della vita. Ecco dunque l’altro corno del dilemma: da una parte una politica di quantitative easing con un versamento di liquidità direttamente ai cittadini, dall’altra investimenti di tipo keynesiano ma di tipo immateriale, perché si investe più sui soggetti che sulla produzione di oggetti."
Concentriamoci ora sul fallimento di Banca Etruria e delle altre banche, che ci sembra che indichino un problema più generale. Attraverso questi che vengono chiamati “scandali”, ma che in realtà sono il normale funzionamento del capitalismo finanziario, abbiamo infatti scoperto che ci sono molti crediti deteriorati, all’improvviso anche in Italia si comincia a parlare dell’utilizzo che viene fatto dei nostri risparmi. In un recente articolo Andrea Fumagalli riporta la cifra di 350 miliardi di crediti sofferenti. In secondo luogo, sebbene siamo immersi nella trappola della liquidità, tuttavia i meccanismi di predazione non si sono fermati. Se guardiamo al modo in cui il governo italiano sta affrontando il fallimento delle banche, vediamo che ha adottato esattamente degli strumenti di predazione di una classe media in via di declassamento. È dunque possibile che dietro a questi crack si presenti per i mercati finanziari la possibilità di predare delle ricchezze del lavoro vivo?
"Dei 350 miliardi di cui si parla, 80 sono assolutamente deteriorati, mentre per gli altri c’è un rischio elevato di aggravamento. È vero quello che dite, è in atto un processo di predazione a livello europeo, a partire dall’esperimento che si è fatto a Cipro un paio di anni fa. Era un bail-in, un meccanismo in base al quale si salvano le banche prelevando il denaro direttamente dagli obbligazionisti, attaccando in pieno quello che chiamiamo ceto medio. Questo meccanismo è davvero una misura predatoria che penalizza coloro che si sono fidati delle loro banche, hanno investito in prodotti il più delle volte incomprensibili, lo hanno fatto per potersi assicurare la vecchiaia, e adesso si trovano a dover pagare per delle scelte che si sono rivelate sbagliate. È già in atto una forma di bail-in ancora più sottile, quella che attraverso questi tassi di interesse nulli o negativi sposta denaro dai risparmiatori agli indebitati, alle banche per esempio. Ciò spiega anche la crisi del settore bancario: chi te lo fa fare di tenere i soldi in banca se non ti versano neanche un minimo di tasso di interesse sui depositi, e oltretutto rischi che in caso di crisi della banca ti portino via i risparmi? C’è il serio rischio, già in atto, di uno svuotamento delle banche da parte dei correntisti, che come in una classica crisi monetaria preferiscono tenersi il denaro sotto il materasso, pur di non lasciarlo in queste casematte a perdere di valore, o rischiare addirittura di perderlo del tutto. Questa situazione complicata di deflazione e tassi negativi sta creando una curiosa tensione tra denaro fiduciario e denaro strutturale. È chiaro che le banche centrali e i mercati finanziari vorrebbero evitare che ci fosse il denaro fiduciario tout court, che ci fosse cioè del denaro sonante, perché è tutto sommato quello che possiamo ancora sottrarre al controllo predatorio del sistema bancario, possiamo perlomeno tenercelo in tasca, poco o tanto che sia, quindi sottrarlo alle decisioni nefaste delle banche. Ci sono alcuni economisti che vorrebbero eliminare del tutto il cash, proprio per evitare di toglierlo dai bilanci delle banche, diminuendo ulteriormente il loro capitale. Siamo in una fase interessante, forse dovremmo inventare anche noi delle forme di denaro tangibile per ricostruire il legame sociale.
Sicuramente il ceto medio è quello che più viene colpito. Della sua crisi si è cominciato a parlare già anni fa negli Stati Uniti, da noi il tema politico non è stato davvero affrontato, ormai però sta esplodendo in Italia e in Europa. Bisogna capire anche dal punto di vista sociologico e antropologico quello che sta succedendo. Rabbia e rancore non sono più quelli del piccolo imprenditore o del freelance nei confronti del grande capitale e dello Stato, ciò che ha spiegato la fase dei primi movimenti leghisti, che erano separatisti innanzitutto appunto dallo Stato e dal grande capitale. Ora siamo entrati in una nuova fase, di un populismo molto più trasversale rispetto al leghismo prima maniera, che riguarda la secessione con tutto il sistema bancario e monetario. Ci sono una rabbia e un rancore molto diffusi, per certi versi giustamente, che per il momento soltanto la destra sa intercettare, cavalcandoli come sanno fare loro. Non lascia presagire niente di buono, in un certo senso riqualifica e ridefinisce il localismo alla luce dell’impotenza dell’Europa e della Banca centrale europea rispetto a questi fenomeni sociali e politici. Si ha un bel dire che le banche centrali non sono state in grado di far uscire l’economia dalla crisi, però è un po’ come ai tempi di Tangentopoli: allora fu il giuridico a colmare il vuoto politico, qui sono state le banche centrali ad aver colmato il vuoto politico europeo. L’unica cosa che è stata fatta a livello europeo è di puntare sulle politiche di austerità, in modo disastroso. Politicamente non c’è altro. Quindi, credo sia necessario prestare molta attenzione ai tentativi monetari sovranazionali per rilanciare la tematica del reddito di cittadinanza nei termini in cui lo abbiamo definito prima, in quanto reddito aggiuntivo, per dirottamento della liquidità direttamente verso i cittadini. Partendo da qui, bisogna provare a creare situazioni di resistenza al sistema bancario locale fortemente incentrato sulla corruzione, sul malaffare, su politiche di messa in fallimento del ceto medio."
Hai parlato delle derive che definisci “populiste”. Per affrontare questa situazione, bisogna però guardare meglio alla composizione sociale che sta dietro a tali derive, che probabilmente è in buona parte la stessa che è colpita dai decreti salva-banche o dai bail-in dell’Unione Europea. Dunque, approfondiamo il tema di chi sono i risparmiatori colpiti: bisogna ritenerli alla stregua dei grandi speculatori e investitori, oppure sono tutt’altra cosa o addirittura a loro contrapposti? Vi è poi un ulteriore problema: ci pare che ci sia una contraddizione tra i soggetti che hanno investito i loro risparmi in obbligazioni e azioni che poi sono finite per salvare le banche, e chi invece ha praticato più o meno consapevolmente il “diritto all’insolvenza”, cioè quelli che hanno chiesto in prestito i soldi alle banche e non li hanno restituiti. Con questa insolvenza hanno provocato il fallimento delle banche, che hanno utilizzato i risparmi dei piccoli risparmiatori per essere salvate. Dunque, anche quando parliamo di diritto all’insolvenza dovremmo articolare meglio il discorso, guardando a chi lo sta effettivamente praticando.
"Quelli che sono fregati in queste crisi bancarie sono i risparmiatori che hanno investito i soldi che hanno accumulato in una vita, i ceti medi. Hanno investito in titoli, derivati o no, fidandosi di consulenti assolutamente cinici e spregiudicati, che sanno perfettamente quello che vendono, cioè titoli tossici o destinati a esserlo. Lo hanno fatto in un clima di opacità rispetto al futuro, pensando ai figli e ai nipoti. Quelli che invece hanno praticato il diritto all’insolvenza sono i ricchi. Si noti bene che l’accesso al credito, quindi la possibilità di indebitarsi per fare investimenti remunerativi, appartiene soltanto a persone che hanno alti redditi o che sono politicamente immanicate. Non esiste altro modo di produrre rendita a mezzo di indebitamento, a meno di entrare in un meccanismo di mutui subprime tali da permettere anche a fasce di ceto medio-basso di indebitarsi per comprare una casetta, ma con la crisi ciò non è più possibile nei termini in cui è avvenuto negli Stati Uniti. Qui il ceto medio è spaccato a metà: ceto medio-alto vs. ceto medio-basso. In questi anni il ceto medio-basso è quello che ha permesso ai giovani di sopravvivere nella precarietà. Nel risparmio si invera una coda del fordismo: i genitori dei giovani sono gli unici che, anche con salari non particolarmente elevati, hanno potuto risparmiare qualcosa, trasformando la famiglia in un vero e proprio ammortizzatore sociale. Sotto il profilo politico non si può spiegare la precarietà senza tener conto del ruolo delle famiglie, anche di quelle povere che hanno funzionato come ammortizzatore sociale degli enormi guasti causati nel postfordismo dalle politiche neoliberali e di deregulation. Adesso rischia di saltare per aria anche questo ammortizzatore sociale, dopo hai voglia a fare i teatrini sulle famiglie e sui family day. Anzi, i teatrini si moltiplicheranno proprio per mascherare l’enorme problema del venir meno del substrato di risparmio che è un’eredità dell’epoca fordista. Il ceto medio deve diventare oggetto di studio per capirne l’interna differenziazione e stratificazione, per comprendere i meccanismi che stanno entrando in crisi per la stagnazione e le politiche monetarie fallimentari, che però scaricano i fallimenti sulle spalle delle famiglie."
Hai spiegato come la destra che definisci “populista” faccia perno esattamente su quei soggetti del ceto medio più direttamente colpiti dalla crisi e dai processi di impoverimento. La questione delle banche è da questo punto di vista paradigmatica, la Lega (e su un altro versante i 5 stelle) sono gli unici che riescono a intercettare o quantomeno costruire politica attorno a queste figure. In quella che hai chiamato la messa in fallimento del ceto medio c’è probabilmente uno dei nostri più profondi vuoti politici: le opzioni che in termini generici sono chiamate “populiste” parlano infatti delle nostre incapacità e insufficienze a incarnare nei soggetti concreti e specifici i discorsi politici su precarietà o declassamento. Lo studio che proponi sul ceto medio, sulla sua esplosione e stratificazione interna è dunque fondamentale: o riusciamo a spostare e rovesciare i soggetti del ceto medio in una direzione opposta, oppure il rischio è quello della marginalità politica.
"È problematica la capacità di spostare questi soggetti, perché la destra è tale nella misura in cui agisce su dei soggetti reali, ed è radicata sul territorio. Il problema della sinistra è che ha correttamente individuato sul piano sovranazionale ed europeo le scelte e le strategie che devono essere sviluppate, ma mi sembra che non riesca a tradurle in azione concreta sul territorio. Anche i discorsi sulla democratizzazione degli istituti sovranazionali di cui si parla di questi tempi hanno una loro logica, però li vedo come terribilmente deboli. Manca un corno del dilemma, se si vuole agire sui soggetti e produrre ricomposizione sociale bisogna riuscire veramente a muoversi su entrambi i piani. Sul piano sovranazionale alcune cose si stanno delineando, dove non vedo capacità di intervento è sul piano locale, per spostare queste figure e produrre un discorso di sinistra sulle tonalità emotive del fallimento del ceto medio. Finché continuiamo a litigare su chi sta sul piano europeo e chi sul locale, non se ne esce."

Fonte: commonware.org

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.