La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 4 marzo 2016

USA: l’establishment sotto assedio

di Nicola Melloni
Tanti sono gli spunti che questi primi mesi di elezioni primarie negli Stati Uniti, ma quello che mi pare più interessante, a livello sistemico, è la crisi di legittimità della democrazia americana, per molti versi simile a quella della politica europea. L’oligarca Trump e il socialista Sanders sono ovviamente fenomeni quasi opposti, ma sono anche due facce diverse della stessa medaglia: la rivolta contro l’establishment, come l’ha giustamente definita Robert Reich.
Quello che appare all’orizzonte è una sfida non solo ai due partiti tradizionali, ma ad un complesso sistema egemonico, di gerarchie sociali ed economiche. Un sistema garantito, appunto, da entrambi i partiti, che più che portatori di interessi di classi contrapposte sono piuttosto storicamente legati ai diversi settori del capitale – più globale quello democratico, più domestico quello repubblicano.
Un sistema non necessariamente centrista – basti pensare alle presidenze estremiste di Reagan e Bush jr. – ma sempre inquadrato nei binari della difesa e promozione del capitalismo globale.
Proprio questo capitalismo, ormai dominato dalla finanza e sempre più oligarchico, è però ormai in rotta di collisione con il sistema democratico, e genera dunque reazioni, alcune anche paurose. Chi si preoccupa, giustamente, dell’avanzata di Trump dovrebbe però prima porsi delle domande sullo stato di salute della democrazia americana e su come si sia arrivati a questo punto.
Come mi diceva un paio di mesi fa Branko Milanovic, scoppiata la bolla finanziaria, milioni di americani si sono svegliati una mattina e hanno scoperto che 30 anni di crescita economica li aveva lasciati in mutande, e che i guadagni se li erano intascati un gruppo minuscoli di oligarchi – che con quei soldi si erano comprati Capitol Hill e succhiato i soldi della middle class per salvare le loro banche, e le loro fortune. L’illusione della ricchezza trasformata in povertà ha cambiato la dinamica sociale e quella politica. La delusione e la disillusione verso i partiti e i candidati tradizionali hanno dato vita a movimenti differenti: Occupy, le cui parole d’ordine risuonano forti nella campagna di Sanders, che chiede un paese più giusto ed inclusivo; e il Tea Party, che rimane un movimento anti-sistema e che, pur con la sua retorica iper-liberista, è pochissimo amato dal grande Capitale; ed il cui successo è stato poi capitalizzato dalla campagna fortemente anti-establishment, da destra, di Trump.
Trump e Sanders non sono dunque fenomeni estemporanei o mediatici, ma il frutto di questa situazione. Non sono nè Ross Perot, nè McGovern o Jesse Jackson – sono invece la rappresentazione plastica della crisi del capitalismo finanziario e della democrazia oligarchica.
Questo non vuol dire, naturalmente, dar per morto un establishment in difficoltà, in ritirata, ma con la forza intrinseca di cui è rappresentante: in fondo, Hillary, la vera candidata in difesa del sistema, ha ottime chance di vincere le primarie e poi anche la corsa alla Casa Bianca. I repubblicani intanto hanno richiamato Mitt Romney per cercare di sabotare la corsa di Trump, e già si parla di un possibile ticket tra la Clinton ed il GOP per difendere il fortino sotto assedio – fantapolitica, per ora almeno.
L’egemonia però, non la si conquista difendendo il privilegio esistente ed un assetto politico-sociale decrepito. Dopo decenni di chiusura ermetica, anche nella politica americana sembrano aprirsi voragini inaspettate, con esiti imprevedibili.

Fonte: Micromega online - blog dell'Autore

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