La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 28 febbraio 2017

Il ritorno del razzismo in Europa. Intervista a Alberto Burgio

Intervista a Alberto Burgio di Eugenia Foddai
Uno dei temi portanti della tua analisi è il rapporto tra razzismo e modernità. Tu scrivi che per capire la riemergenza del razzismo non basta prendere in considerazione gli eventi degli ultimi decenni (le conseguenze della caduta del Muro di Berlino e della cosiddetta globalizzazione neoliberista) e suggerisci di adottare un’ottica di lungo periodo appuntando la tua attenzione sull’illuminismo settecentesco. Che ne è, in questa prospettiva, delle nostre immagini del secolo dei Lumi? Al Settecento dobbiamo la fondazione del pensiero critico e i principi ispiratori della Carta dei diritti dell’uomo. Se l’illuminismo è davvero, come sostieni, un incunabolo del razzismo, che fine fanno figure come Goethe e Voltaire, Rousseau e Diderot, Kant, Hume e Montesquieu?
D’altra parte nelle prime pagine del libro sembri istituire, più che un nesso tra razzismo e modernità, un collegamento tra il razzismo e la reazione di alcune fasce sociali ai processi di modernizzazione. Puoi chiarire meglio il tuo pensiero in proposito?
Alberto Burgio. Poni un problema molto complesso che non penso possa essere risolto con un riferimento ad alcune fasce sociali alle quali attribuire tutta la responsabilità degli aspetti meno nobili della modernità. Comprendo e condivido l’esigenza di salvare l’eredità progressiva dell’illuminismo. Ma questa esigenza non deve condurci a semplificazioni indebite. Le certezze vanno messe in discussione e occorre prendere sul serio le contraddizioni se vogliamo comprendere il senso concreto delle cose. Per un verso l’illuminismo europeo è, come ricordi, un capitolo fondamentale del progresso intellettuale di massa. Contemporaneamente, anche in alcuni degli autori che tu citi, cogliamo espressioni univocamente razziste, l’affermazione della superiorità non solo della cultura europea ma dei bianchi in quanto bianchi sui cosiddetti «selvaggi» (i nativi delle Americhe) e sui neri, costretti da oltre due secoli sotto il giogo della schiavitù. Per un verso Buffon è convinto che gli uomini siano una specie diversa rispetto ai primati, per l’altro non esita a descrivere il «selvaggio» come un animale governato solo da bisogni fisici. Montesquieu, una delle massime autorità del pensiero politico moderno alla quale riconosciamo intuizioni fondamentali del costituzionalismo, giudica ancora una volta i «selvaggi» strutturalmente incapaci di riflettere e di apprendere e considera i «negri» alla stregua di «schiavi naturali». La stessa convinzione ha Voltaire, per il quale la schiavitù dei neri è di per sé la prova della loro inferiorità naturale. Hume la pensa allo stesso modo e quando parla dei «selvaggi» dice una cosa molto interessante: osserva che anche in Europa esistono molti «selvaggi» (i bifolchi delle campagne e il primo proletariato urbano), ma si dice sicuro che, a differenza di quelli delle colonie, prima o poi i «selvaggi europei» verranno civilizzati e si emanciperanno dalla propria condizione: la loro inferiorità è contingente, storicamente determinata, mentre quella degli «indiani d’America» è eterna perché radicata nella loro natura.
Il problema, secondo me, è che sarebbe sbagliato porre l’alternativa: «o illuminismo o razzismo». Si tratta di capire l’impasto e la contraddizione: per dirla con una formula classica, la «dialettica dell‘Illuminismo». Ci sono sia i principi e i valori del razionalismo critico e del giusnaturalismo, sia i pregiudizi eurocentrici sottesi alle gerarchie antropologiche. Come ci si spiega la contraddizione? Considerando il fatto che i principi vengono elaborati e vivono dentro i contesti storici, i quali sono essi stessi luoghi di contraddizioni e conflitti. Nel tempo in cui vengono proclamati, i valori-guida delle rivoluzioni borghesi (l’eguaglianza, la libertà e l’universalismo) sono riferiti di fatto a una parte del genere umano e non all’umanità intera. In qualche misura si potrebbe dire – Rousseau lo dice con chiarezza, in chiave critica – che in tanto noi riusciamo a realizzare la nostra libertà, in quanto escludiamo dal suo godimento una parte degli uomini: «la nostra democrazia riposa sull’altrui schiavitù», denuncia Rousseau. In questo senso il nostro compito è misurare dialetticamente il processo nella sua materiale contraddittorietà e misurarci poi con queste contraddizioni. Non si tratta di buttare a mare alcun riferimento ma di rinunciare alle rappresentazioni oleografiche.
Eugenia. Se intendo bene, per te capire il razzismo è indispensabile per comprendere la modernità. Sempre a questo proposito ti chiedo di chiarire in che rapporto stanno a tuo giudizio il razzismo (che definisci una «invenzione moderna») e l’egualitarismo, che della modernità è forse il cardine fondamentale.
Burgio. Si tratta di uno dei nessi paradossali e contraddittori ai quali facevo riferimento poc’anzi. Che cosa intendiamo con «modernità»? Alludiamo a un grande processo di eguagliamento tra le persone e le classi, al graduale superamento delle diseguaglianze radicali che avevano informato la società aristocratica di antico regime e, a maggior ragione, il Medioevo feudale. C’è però un problema. Se, da una parte, si è sempre più eguali e sempre più consapevoli di esserlo, dall’altra ci si scontra con le persistenti ineguaglianze. L’ineguaglianza non scompare d’incanto in un fiat. Anzi, per alcuni versi – in alcuni settori sociali e in alcune regioni – le disuguaglianze si accrescono. Il mondo moderno sorge e si legittima all’insegna del principio di eguaglianza, ma è ancora un mondo strutturato gerarchicamente. La società moderna è di fatto una società di ineguali come quelle che l’hanno preceduta. Ecco, il mio sospetto è che il razzismo risponda in primo luogo a un’esigenza generata da questa contraddizione reale: esso consente di giustificare le gerarchie sociali (economiche, culturali) e politiche in un contesto nel quale si consolidano principi e sentimenti di eguaglianza. Possiamo dire in questo senso, con un paradosso, che il razzismo è figlio dei progressi della modernità. Perché è sicuramente un progresso il radicarsi dei sentimenti egualitari, ma è proprio questo progresso a rendere necessario giustificare quelle diseguaglianze che nelle epoche precedenti erano dei semplici dati di fatto.
Eugenia. Nel tuo libro ti occupi a fondo dell’antisemitismo, che – sostieni – non è soltanto uno dei volti del razzismo europeo ma la sua espressione paradigmatica. Puoi spiegare questa tua valutazione?
Burgio. Perché considero l’antisemitismo il paradigma del razzismo europeo? Per tre ragioni fondamentali. La prima è che l’Europa moderna nasce sulla base della tradizione cristiana, su una cultura pervasa da un sentimento identitario del quale l’antigiudaismo è un ingrediente essenziale. Fin dall’alto Medioevo l’odio, il disprezzo e l’esclusione del «giudeo» sono fondamentali materiali di costruzione della «civitas christiana». La seconda ragione consiste nel fatto che, proprio perché è l’altro per antonomasia, l’ebreo è l’altro in tutti i sensi, da tutti i punti di vista. È il bersaglio tanto dei fautori della modernità quanto dei suoi nemici. Per gli uni incarna l’arcaico, l’attaccamento intransigente alle tradizioni, alla comunità chiusa e ai suoi riti; per gli altri rappresenta il mutamento, la trasformazione, la dimensione astratta propria dell’urbanesimo e dello scambio monetario. Si è antisemiti perché si combatte contro le tradizioni e perché ci si batte a difesa delle tradizioni. Lo si è, per dir così, da destra (allora l’ebreo rappresenta la minaccia rivoluzionaria) e da sinistra (per cui l’ebreo è il capitale, la speculazione finanziaria). Quando si ripercorre la storia dell’antisemitismo ci si ritrova un insieme polimorfo e contraddittorio di rappresentazioni, in forza delle quali l’ebreo costituisce il paradigma del nemico pubblico: è l’estraneo che si infiltra, il male che minaccia, la tossina che corrompe il corpo sano della comunità. Dopodiché le accuse rivolte agli ebrei servono per costruire altre «razze», per argomentarne l’inferiorità e legittimarne la persecuzione. C’è infine una terza ragione, che non è certo la meno importante. A differenza di quello che si sviluppa nelle società coloniali, il razzismo europeo è un razzismo per così dire «senza razze», nel senso che le «razze» che esso crea sono somaticamente indistinguibili. Ebbene, l’antisemitismo è il paradigma dei razzismi senza base somatica, come dimostra l’uso già medievale di imporre agli ebrei un distintivo per renderli riconoscibili. Detto questo, tengo a precisare – a scanso di ricorrenti equivoci – che non sottovaluto affatto la funzione archetipica del razzismo coloniale (contro i «selvaggi» e i «negri»). Sono convinto che senza l’incontro scontro con le popolazioni coloniali dominate, sterminate o ridotte in schiavitù, il razzismo non sarebbe mai nato o comunque non avrebbe assunto la forma e l’efficacia che l’hanno contraddistinto nel mondo moderno. Senza il laboratorio del colonialismo, di certo il razzismo non sarebbe diventato quel potente corpus di pseudo-saperi che diviene nel corso degli ultimi tre-quattro secoli. Per questo sottolineo ripetutamente di essermi occupato specificamente del razzismo europeo. Quella che ho cercato di ricostruire è una storia specifica, alquanto diversa da quella del razzismo che si sviluppa nelle società coloniali.
Eugenia. Il tuo accenno al razzismo «senza razze» mi induce a chiederti di dire ancora qualcosa riguardo alla struttura logica del razzismo, all’«ordine del discorso razzista», come lo definisci nel titolo del secondo capitolo. Puoi spiegare in poche parole come, secondo te, funziona il razzismo sul piano logico? Come nascono le «razze» (ricordo che uno dei tuoi libri precedenti si intitola proprio L’invenzione delle razze), qual è la loro natura e infine perché sottolinei con forza che le «razze» sono dotate sia di corpo che di anima?
Burgio. In effetti penso sia molto importante chiarirsi su questo punto. Credo che se non capiamo come funziona questo discorso, anche ogni riferimento storico perde significato. La critica del razzismo deve partire dall’analisi del suo dispositivo logico, perché il razzismo è in primo luogo un sistema discorsivo che dev’essere decodificato in quanto tale. Esiste, per dir così, una «ragione razzista», della quale dobbiamo comprendere innanzi tutto logica e nessi semantici. Dicevamo prima che il razzismo ha una funzione: giustificare le gerarchie. Come le giustifica? Naturalizzandole, cioè rappresentando come naturali le diseguaglianze (in realtà determinate storicamente) tra i gruppi. La naturalizzazione delle diseguaglianze è l’atto di nascita delle «razze», segna la loro creazione. Come avviene questo passaggio cruciale? Attribuendo al gruppo inferiorizzato determinate caratteristiche negative di ordine psichico-morale (stupidità, propensione a delinquere o a tradire, inadeguatezza alle regole della vita sociale ecc.) e/o culturale (lingua, religione, tradizioni), e affermando che tali caratteristiche si radicano nella natura, quindi nel corpo stesso degli individui che fanno parte di quel gruppo (il che ne assicura la trasmissione ereditaria). Il razzismo ha bisogno di evocare presunte caratteristiche morali per giustificare la discriminazione e ha bisogno di riferirsi a caratteri fisici perché altrimenti le «razze» non durerebbero nel tempo e non sarebbero riconoscibili. Salvo che, come abbiamo detto, in Europa il problema si complica, perché i corpi delle popolazioni europee sono in larga misura uguali tra loro. Da qui la necessità di ricorrere ai distintivi come la stella gialla imposta agli ebrei. Insomma, sul piano logico il razzismo è invenzione di nessi psico-fisici: nessi ai quali alcuni scrittori razzisti si riferiscono col concetto di «anima razziale».
Eugenia. Il razzismo – scrivi – è un’ideologia, intendendo con ciò che è un discorso generatore di effetti pratici. E chiarisci che la critica dell’ideologia deve muovere dalla consapevolezza che l’efficacia delle ideologie non deriva dalla loro veridicità ma dalla loro operatività. Se ho inteso il tuo pensiero, direi che secondo te, del razzismo si debbono innanzitutto analizzare le prestazioni: ci si deve chiedere a cosa serve il razzismo, a quali domande risponde, quali bisogni soddisfa. È così?
Burgio. Precisamente. Per questo è assolutamente ingenuo pensare che per sbarazzarsi del discorso razzista basti dimostrarne l’infondatezza scientifica. Questo modo razionalistico di impostare il problema (purtroppo duro a morire) è ingenuo per la semplice ragione che le società non sono aule universitarie o sedi di convegni scientifici, dove la confutazione di una teoria (la dimostrazione della sua fallacia) è (in linea di principio) sufficiente a screditarla e a toglierla di mezzo. Non è così che funziona il discorso pubblico. Le ideologie sono prese sul serio ed esercitano influenza indipendentemente dalla loro veridicità. Se non si tiene conto di questo fatto, si prendono fischi per fiaschi e diventa del tutto impossibile affrontare il problema dell’incidenza di ideologie deliranti come quelle, per esempio, esposte da Hitler nel Mein Kampf, che – come sappiamo – costituiscono la base del senso comune di milioni di persone in Germania per oltre un decennio. Che cosa conta sul terreno ideologico? Conta la capacità che un’ideologia ha di rispondere a domande diffuse e quindi di convincere, di esercitare egemonia. Il che – ripeto – è indipendente dal grado di verità di ciò che essa sostiene. Questo è il punto. Qual è la lezione che dobbiamo trarre da questa consapevolezza? La lezione è molto semplice: una strategia antirazzista dev’essere sì ricca di conoscenze: è assolutamente necessario sapere che cosa il razzismo è e come funziona; ma deve al tempo stesso sapersi cimentare sul terreno dell’analisi sociale e politica. Deve indagare il nesso tra l’ideologia e la sua capacità egemonica, nesso che non concerne il grado di verità ma la capacità di soddisfare bisogni (per esempio indicando un nemico da trasformare in capro espiatorio), di gratificare (per esempio giustificando comportamenti abietti o nobilitando risentimenti), di rassicurare (per esempio promettendo di colpire soggetti rappresentati come minacce) ecc. Troppo spesso evitiamo di fare i conti con questo sottosuolo di passioni e di moventi inconsci, così come tendiamo a sottovalutare la disponibilità dei corpi sociali a farsi sedurre da quello che la grande sociologia politica di fine Ottocento definì «potere carismatico». Anche se la cosa ci inquieta, i corpi sociali sono anche un ribollente contenitore di irrazionalità, la sintassi degli interessi ne spiega solo in parte il funzionamento.
Eugenia. Nel terzo capitolo («Brava gente. Strategie di rimozione del razzismo italiano») affronti una questione importante e purtroppo attuale: l’indifferente passività della quasi totalità della popolazione italiana al momento della promulgazione delle «leggi razziali» da parte del regime fascista. Allo scandalo di allora si aggiunge lo scandalo di oggi: quello del negazionismo imperante che attribuisce all’Italia le mani pulite che non ha. Anche con la sollecita partecipazione di una parte degli intellettuali italiani. Quali sono secondo te le ragioni che permettono agli italiani di archiviare con tanta disinvoltura il proprio passato razzista?
Burgio. Intanto quella che tu giustamente definisci «indifferente passività della quasi totalità della popolazione» non è una prerogativa soltanto italiana. Fu un fatto europeo, che spesso e volentieri si ignora attribuendo la responsabilità delle atrocità ai soli vertici politici e militari dei regimi che pianificarono e realizzarono la tragedia dello sterminio. Le cose andarono ben diversamente. Le popolazioni furono largamente coinvolte, in uno spettro di posizioni che andò dalla mera passività e indifferenza all’attiva e zelante partecipazione. Ci furono anche innumerevoli casi di «brava gente» che si avvantaggiò dell’esclusione degli ebrei dalla cittadinanza e approfittò della loro cacciata dalle pubbliche amministrazioni, dalle scuole e dalle università. Quanto alle colonie dell’Impero, era pacifico che ai «negri» si negasse qualsiasi diritto e si riservassero trattamenti disumani. Discriminazioni e persecuzioni delle «razze inferiori» coinvolsero variamente il grosso della popolazione. Questo è un fatto che ancora ci interroga (dovrebbe interrogarci) sia sul piano storico, sia sul piano morale e della psicologia sociale. Come, attraverso quali categorie, possiamo spiegarci il fatto che società nelle quali sono radicati alti principi morali e che hanno alle spalle una forte accumulazione culturale si rivelano, ciò nonostante, permeabili da ideologie aberranti e partecipano in modo attivo a vicende tragiche e atroci come quelle di cui stiamo parlando?
Per quello che riguarda in particolare l’Italia direi due cose. Intanto, bisogna continuare a lavorare per contrastare la vulgata autoassolutoria che ci permette di continuare a rappresentarci come «brava gente» e quindi di negare o minimizzare le nostre responsabilità. Continuiamo a raccontarci che, per carità, il fascismo fu una cosa totalmente diversa dal nazismo, del quale fummo incauti e subalterni alleati. Queste sono flagranti falsificazioni. Basti dire che alcune misure razziste rivolte contro i cittadini ebrei furono assunte in Italia prima che in Germania. Il decreto con cui il ministro della Cultura Bottai decide l’esclusione degli ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado del Regno precede una analoga misura assunta dalla Germania nazista. E – visto che stiamo parlando di memoria e di banalizzazione delle responsabilità – mi pare opportuno ricordare che si tratta del Bottai al quale Francesco Rutelli, quando era sindaco di Roma, intendeva intitolare una piazza della capitale della Repubblica. Aggiungo che autoassolversi è comodo ma è anche un modo per rendersi la vita più difficile. Non facendo mai seriamente i conti con la propria storia e con le responsabilità collettive della società di cui si è parte, ci si preclude la possibilità di conoscere davvero se stessi e i propri limiti. Si rimane per sempre bambini, ignari di sé. Sempre a rischio di soccombere di fronte alle nuove difficoltà, come avviene in questo periodo con la sfida dell’immigrazione dal sud e dall’est. Reagiamo con la solita furbizia, con misure emergenziali, contingenti. Ci illudiamo di cavarcela limitando i danni. In realtà rimuoviamo i problemi o li banalizziamo senza mai affrontare la situazione nella sua complessità. Lo avessimo fatto, avremmo capito per tempo (almeno vent’anni fa) che c’era in gioco anche una grande chance per il Paese e per l’Europa, in particolare per la zona mediterranea del continente. Invece di alzare muri e stendere chilometri di filo spinato per contenere un fenomeno epocale, si sarebbe dovuto investire sullo sviluppo condiviso dell’intera area mediterranea, ricomponendo quella straordinaria koiné umana – culturale, sociale, economica – tra mondo ebraico e cristiano e mondo arabo che fu, a cavallo tra il primo e il secondo millennio dopo Cristo, la prima radice della modernità europea. Certo, questa visione avrebbe richiesto una classe dirigente di politici e non di politicanti. Mancava quindi la materia prima. E ora siamo qui a fare una «guerra umanitaria» dopo l’altra, senza nemmeno capire il senso di quanto sta accadendo anche per colpa nostra. È necessario quindi, in primo luogo, battersi contro questa strategia di autoassoluzione. All’altra questione che ponevi (perché questa strategia è così efficace in Italia) rispondo indicando due ragioni che credo decisive. In primo luogo credo che influisca la difficoltà di vedere il razzismo «senza razze». Ci se ne dimentica facilmente perché il senso comune, impregnato di pregiudizi razzisti, tende a dire che non può esserci razzismo dove non ci sono le «razze», quelle immediatamente visibili (in apparenza esistenti indipendentemente dal discorso razzista). La seconda ragione è la forte influenza della Chiesa cattolica, che agisce come una lavatrice della nostra coscienza individuale e collettiva. È una risorsa formidabile, perché dopo che la Chiesa ci ha assolti, possiamo ricominciare sempre di nuovo a testa alta senza dovere fare i conti con le nostre responsabilità. D’altra parte la Chiesa ci assolverà sempre (come dicevo, impedendoci di diventare adulti) perché è proprio sul mercato delle indulgenze che ancora oggi riposa il suo potere ideologico, sociale e politico.
Eugenia. D’altra parte, come dicevi, l’Italia non è un caso isolato, almeno per quanto riguarda la riemergenza del razzismo. Leggevo in questi giorni che oltre il 10% dei tedeschi sogna un nuovo Führer che sappia guidare la Germania col pugno duro. È il risultato di un sondaggio-shock della Fondazione Friedrich Eber, vicina agli ambienti Spd, che dimostra come la crescente deriva di estrema destra nel Paese stia condizionando le opinioni di milioni di cittadini o viceversa come le opinioni correnti di milioni di cittadini possano incoraggiare gli «imprenditori politici» del razzismo istituzionalizzato. All’origine di questa nuova ondata di razzismo e di xenofobia c’è la crisi finanziaria ed economica: un terzo dei tedeschi ritiene che la Germania corra il rischio di essere sopraffatta dagli stranieri.
Burgio. È una sindrome europea. Il caso francese non è molto diverso, come non lo è quello olandese o belga. In Svizzera e Austria xenofobia e razzismo sono radicati e legittimati come aspetti del buon senso comune. E noi, quando facciamo sondaggi analoghi, non è che scopriamo cose particolarmente rassicuranti. Un recente sondaggio commissionato dalla Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali e delle Province autonome ha documentato che circa il 46% dei giovani in Italia si dichiara razzista. Non nasconde le proprie opinioni e i propri pregiudizi, si sente legittimato nell’esibirli. È un dato inquietante, che dovrebbe ammonirci a non abbassare la guardia. La Germania non è, come si continua a pensare, il cuore infetto di un’Europa sana. Il problema è molto più serio e grave, a mio modo di vedere. Detto questo, il dato che riportavi sull’attesa di un nuovo «uomo provvidenziale» è allarmante. Ne aggiungo un altro. Quando il mio libro era in tipografia uscì in Germania un saggio scritto da Thilo Sarrazin, alto dirigente della Bundesbank, intitolato Deutschland schafft sich ab (La Germania si suicida). Per Sarrazin (che probabilmente, a giudicare dal cognome, annovera tra i suoi avi qualche immigrato musulmano) la Germania si sta distruggendo a causa di una politica dell’immigrazione eccessivamente liberale. Secondo lui troppi immigrati provocano effetti distruttivi perché – questo è il punto – turchi e arabi sono refrattari alla conoscenza. Al di là di una soglia minima, la loro presenza determina – testualmente – un «instupidimento della popolazione tedesca» in forza di incroci degenerativi. Naturalmente Sarrazin è altresì convinto che gli ebrei siano diversi sul piano genetico. Risultato: il suo libro ha venduto in poche settimane oltre un milione di copie. E alla domanda se sarebbe opportuno costruire un partito politico che agisca in base a tali valutazioni ha risposto affermativamente circa il 10% degli elettori tedeschi. È effettivamente una situazione estremamente pericolosa, che andrebbe analizzata in modo serio, senza superficialità, senza nessuna propensione a minimizzare. Non mi pare che stia avvenendo. Al contrario, si tende a dare per certo che nonostante tutto non accadrà nulla di drammatico. È un errore ricorrente e drammatico. Gli Stati democratici (qualsiasi cosa si intenda con questa parola) sono inclini a considerarsi invulnerabili, perché, una volta conquistata la democrazia, si pensa che non sia possibile un ritorno al passato. Ma l’esperienza storica dice esattamente il contrario. In Europa nel secolo scorso la regressione dalla democrazia al fascismo è stata purtroppo la norma.
Eugenia. Nel libro ti occupi di un altro tema scottante, la questione dell’identità, che è a mio avviso alla base di quasi tutto il male che ci circonda. Rossana Rossanda ha scritto, qualche anno fa, che questa parola non era praticamente usata negli anni ‘60 e ‘70 e che, se allora ci si voleva definire, i riferimenti concernevano le appartenenze politiche o le condizioni sociali piuttosto che le cosiddette radici. Il «chi sono» era molto meno angosciante di quanto sembra essere oggi. Al contrario tu, in qualche modo, concorri alla promozione di questa parola. Con mio stupore scrivi, per esempio, che «senza confine non vi è comunità né identità possibile». A me verrebbe da rispondere: evviva! facciamo a meno sia dei confini, sia delle comunità e delle identità! Se penso la modernità, non posso che pensare a identità mobili.
Burgio. Bisogna distinguere tra la realtà per com‘è e quale noi vorremmo fosse. Se capisco il tuo ragionamento, credo di condividerne il senso. Anche tu – mi pare – prendi atto che l’identità è un presupposto necessario per il darsi stesso della soggettività. Ciò che auspichi (e io non posso non concordare) è che le identità siano disposte all’ascolto e all‘ibridazione. Il punto quindi non è rigettare l’identità come un dato in sé negativo, ma discuterne la forma, le attitudini, la struttura emotiva. Detto questo, sappiamo che le cose non stanno come vorremmo. C’è molta «mobilità» (molto più che in passato, anche rispetto a trenta-quarant’anni fa), ma c’è anche molta immobilità, rigidità identitaria. Come vedi, prendere atto di tale stato di cose ci impone di riflettere su questo tema, che non servirebbe a nulla cancellare dal nostro tavolo di lavoro. A proposito di immobilità, l’Italia (ma il discorso vale anche per gli Stati Uniti, a dispetto delle mitologie ricorrenti) è una società statica. Chi nasce in una famiglia proletaria ha scarsissime possibilità di riscatto sociale: semmai corre il rischio di trovarsi in condizioni più difficili di quelle dei genitori. Chi nasce in una famiglia benestante e altolocata ha la quasi certezza di mantenere le posizioni acquisite, con buona pace delle retoriche meritocratiche, che ho l’impressione servano soltanto a giustificare la distribuzione ineguale delle ricchezze e delle posizioni sociali su base ereditaria. Dunque staticità sociale. Ma staticità anche sul terreno della cultura, degli usi, delle religioni, della lingua. Nelle società di immigrazione, scatta un riflesso identitario in forza del quale si difende il proprio bagaglio di esperienze, nel quale si scorge una difesa contro il rischio di una dissolvenza del sé. Ho fatto riferimento a fenomeni molto diversi. La staticità sociale è l’effetto di una reazione classista contro la redistribuzione della ricchezza e dei ruoli, il riflesso identitario (intendendo con questa espressione la tendenza a forme di identità cristallizzate) è una difesa contro la paura di perdere se stessi nell’incontro scontro con l’altro. Ma entrambi questi fenomeni dimostrano che con la questione dell’identità i conti dobbiamo comunque farli. A me pare che dovremmo lavorare per giungere a una concezione e a una pratica della propria identità (che non è di per sé un disvalore, e anzi costituisce una componente non eludibile della soggettività) in modo tale che le definizioni, le appartenenze, i riferimenti non creino esclusione né, tanto meno, inimicizia e aggressività nei confronti del mondo esterno. Il punto qual è? A mio parere, non ci si muove nella giusta direzione pretendendo di cancellare le identità esistenti. In questo modo non si fa altro che suscitare reazioni violente, come dimostrano le sciagurate iniziative di chi attacca e insulta i credenti di altre religioni. La fluidificazione delle identità può verificarsi solo nel segno del rispetto reciproco e del riconoscimento. Vorrei aggiungere un’ultima cosa, sempre a questo proposito. Ho l’impressione che non sia auspicabile nemmeno l’indebolimento delle identità, cioè la perdita di memoria e di riferimenti ai propri contesti culturali e relazionali d‘origine. Il dialogo e la mescolanza debbono avvenire nel tempo (sono processi lunghi, dei quali è necessario rispettare il ritmo) tra identità ricche, non sulla base della perdita del sentimento di sé. Si tratta di scambi – e di doni – quanto più possibile simmetrici. Credo che la debolezza delle identità – il loro vacillare – si accompagni a un senso di sradicamento che genera apprensione e reazioni aggressive. Non stupisce che alla paura di «non essere più» si risponda anche con la violenza per dimostrare di «esserci ancora» e per affermare il proprio sé. Al contrario, ho l’impressione che la consapevolezza pacifica della propria storia favorisca la capacità di costruire identità duttili e aperte. Per questo, come dicevo, una crociata anti-identitaria rischierebbe di provocare disastri, nonostante le migliori intenzioni. Chi combattesse contro le identità alimenterebbe la violenza perché verrebbe percepito come una minaccia. La sua posizione sarebbe interpretata come la richiesta di rinunciare a qualcosa e non credo che attraverso rinunce imposte si vada molto avanti. La riformulazione di tutto quel grande discorso che è la cultura, il passato, le radici, le storie, i legami, i ricordi, la riconsiderazione di tutta questa materia può compiersi in chiave armonica, dialogica, in chiave di riconoscimento reciproco senza che ciò comporti alcun sacrificio. Allo sradicamento e a nuovi radicamenti si può arrivare senza imposizioni. Naturalmente dobbiamo essere consapevoli che stiamo parlando in vitro di faccende estremamente complicate. È una materia delicata, sempre a rischio di produrre fiammate di violenza. Ripeto: ci vuole tempo, perché con la paura non si scherza.
Eugenia. Oltre che di identità, il libro parla anche di nazione e nazionalismo, e anche a questo proposito mi pare che le tesi che sostieni non siano banali. A parte sottolineare che l’idea di nazione è polivalente e che il nazionalismo è un fenomeno ambiguo e camaleontico, tu distingui gramscianamente tra una prima fase di nazionalismo popolare (coincidente con un sentimento collettivo di appartenenza alla nazione che svolge una funzione essenzialmente integrativa) e una seconda fase, successiva al 1870, nella quale si afferma un nazionalismo aggressivo, guerresco, funzionale al controllo e alla mobilitazione delle masse dall’alto. Puoi spiegare meglio?
Burgio. Si tratta in qualche modo di uno sviluppo delle considerazioni precedenti a proposito dell’identità. Credo fondata la tesi storiografica secondo la quale c’è stata un’epoca della storia europea nella quale i movimenti nazionali erano prevalentemente movimenti di liberazione, di conquista della propria indipendenza e soggettività collettiva, un po’ come i movimenti di liberazione dal dominio coloniale nel cosiddetto Terzo mondo. Anche lì c’è una idea di appartenenza a una storia che è stata violentata da uno straniero occupante e in riferimento alla quale ci si ritrova fratelli e ci si unisce in una lotta che appunto è una lotta di liberazione per l’indipendenza e la dignità. Se questo è storicamente vero, allora è falso che la parola «nazione» (e lo stesso vale per «patria») abbia di per sé un significato escludente e aggressivo. Dopodiché è indiscutibile che, a un certo punto questa parola si è insanguinata e ha cambiato segno. Come osserva Gramsci, il 1870-71 è uno spartiacque. Pensiamo al bagno di sangue della Comune di Parigi, alla fine della guerra franco-prussiana, al compimento dei processi unitari in Italia e Germania e al salto di qualità della proiezione coloniale e imperialistica delle maggiori potenze europee che di lì a breve conduce alla Prima guerra mondiale. A partire da questo momento, le ideologie nazionaliste sono imposte dall’alto (è la «nazionalizzazione delle masse» di cui parla Mosse) a scopo aggressivo e guerresco. Non solo verso l’esterno, ma anche al fine di consolidare svolte autoritarie all’interno dei Paesi europei alle prese con la modernizzazione capitalistica. Però, appunto, non è sempre stato così. Quello che più mi interessa (torniamo al discorso di prima), al di là della periodizzazione storica, è sostenere che sarebbe sbagliato criminalizzare i sentimenti di appartenenza. L’internazionalismo non nasce dalla cancellazione delle identità, ma dalla loro riformulazione. Ripeto: pensarsi parte di una storia collettiva non implica escludere gli altri, bisogna vedere che storia ti stai raccontando, bisogna vedere come concepisci la tua appartenenza e la tua relazione con le storie altrui. Aggiungo che, quando ci muoviamo sul piano concettuale, dobbiamo evitare schemi manichei che non ci portano da nessuna parte, anzi ci fanno tornare indietro nella misura in cui rischiano di trascinarci, nostro malgrado, dentro una guerra. Io sono stanco di guerre e penso che dovremmo operare per fluidificare le nostre posizioni – anche le nostre convinzioni teoriche – non per irrigidirle. Sia chiaro: non sto tessendo l’elogio della mediazione al ribasso, riconosco il valore del rigore concettuale e dell’intransigenza morale. Intendo però sostenere che alle proprie convinzioni si deve sapere arrivare mantenendosi sempre aperti all’ascolto delle posizioni altrui e disponibili a riconoscerne la verità interna.
Eugenia. Passiamo all’ultimo capitolo, «La costruzione del nemico interno. Note su stigma, devianza, immigrazione», nel quale mostri come il nemico interno (il deviante e, oggi, soprattutto il migrante) sia una costruzione sociale-politica che parte dalla stigmatizzazione (un’altra forma di «invenzione delle razze») per giungere alla criminalizzazione. Ma perché questo dispositivo è così importante? Qual è la funzione sociale del nemico interno e il fine ultimo della sua criminalizzazione?
Burgio. Quando ho scritto questo capitolo non era ancora esploso il caso dei rom in Francia, perseguitati e brutalmente cacciati da Sarkozy. Questa ennesima vergognosa vicenda ci aiuta a comprendere il problema che poni. A che cosa serve il nemico interno? A molte cose. Serve a orientare l’attenzione delle persone, distogliendola da altre questioni. Serve a governare il flusso di energie che scorre nella nostra società: la rabbia, il rancore, la paura, la frustrazione, la speranza, tutta una massa di energia psichica e libidica che la costruzione del nemico interno permette di incanalare verso determinati obiettivi (secondo la logica del capro espiatorio) piuttosto che verso altri. Ancora, creare il nemico serve a costruire comunità. Qualche anno prima della conquista del potere da parte di Hitler, Carl Schmitt scrive parole rivelatrici a questo riguardo. Afferma che «nelle situazioni critiche», quando occorre produrre l’unità politica, è impossibile pacificare la società se non si «definisce in modo arbitrario il “nemico interno”». È il 1927, la persecuzione degli ebrei non è ancora cominciata, ma possiamo dire che in questa battuta di Schmitt essa è già prefigurata. L’antisemitismo nazista ha diverse radici, non è riducibile alla sola dinamica di creazione del nemico interno allo scopo di unificare politicamente la comunità popolare, ma indubbiamente questo scopo ne è una della cause finali. Ora, a guardar bene, questo discorso ci riporta al rapporto tra razzismo e modernità. La modernizzazione capitalistica determina la crisi generale dei sistemi di riferimento e diffonde ansia e sentimento di aleatorietà. Per usare un termine a noi familiare, potremmo dire che la precarietà è il sentimento moderno per eccellenza. È la cifra del neoliberismo, ma non nasce certo col neoliberismo. Soprattutto le classi subalterne vengono spogliate – prima ancora che delle tutele di cui fruivano nella società fondata sul servaggio (Marx sottolinea come, nel liberare il lavoro sul piano giuridico, il capitale scaraventi enormi masse di proletariato nell’incertezza assoluta) – della propria storia, delle proprie tradizioni e dei legami comunitari che in precedenza le proteggevano. Temo che noi dovremmo rovesciare molti schemi invalsi. Nel corso dei trent‘anni che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni ’70, grazie alle lotte del movimento operaio le classi lavoratrici conquistano livelli retributivi e diritti sociali che dagli anni ’80 in poi tornano sotto attacco da parte del capitale. Quei trent’anni «gloriosi» sono una breve parentesi. Vista nella prospettiva del lavoro, la storia della modernità è perlopiù una storia di insicurezza, di precarietà e di paura. Questo discorso vale anche per i cosiddetti ceti medi, che vivono di norma con la paura di perdere posizioni (lo spettro della proletarizzazione) e che, a differenza del lavoro operaio, non dispongono di organizzazioni sindacali. Tutto questo per dire che la paura è uno dei grandi protagonisti sulla scena sociale della modernità. E che offrire a chi ha paura un bersaglio verso cui scatenare i propri impulsi significa mettere in moto una leva sociale e politica di straordinaria potenza.
Eugenia. Nelle ultime pagine, in un paragrafo intitolato «Due modelli», analizzi il discorso universalista e quello multiculturalista e ne ipotizzi una sintesi nella gestione dei problemi legati all’immigrazione. In un primo momento metti in evidenza il risvolto negativo (violento) di entrambi i modelli: il rispetto per l’alterità proprio del multiculturalismo tende a rovesciarsi nell’esclusione degli altri, mentre la propensione all’integrazione dell’universalismo diventa spesso intollerante nei confronti dell’alterità. Quindi prospetti una via d’uscita, nella quale siano messi a valore i pregi dei due discorsi. Ma avverti anche della difficoltà: non bastano formule astratte …
Burgio. Difatti. Io non credo che i libri di per sé possano risolvere alcun problema reale. La soluzione delle questioni sociali e politiche si può produrre soltanto nel vivo della pratica, può derivare solo dal confronto concreto tra le posizioni in campo e tra le persone. È un fatto dell‘esperienza, non della teoria o della coscienza. Ciò non toglie che la teoria e la coscienza hanno un ruolo importantissimo in questo contesto. Il compito dei libri, e più in generale il compito della conoscenza, è aiutare a capire come vanno le cose e capire è fondamentale per elaborare scelte razionali sul piano pratico. Veniamo al merito della questione (anch’essa strettamente legata al tema dell‘identità). Che ce ne facciamo dei due grandi modelli ai quali facevi riferimento, che hanno sin qui orientato le risposte europee all’immigrazione? Come osservavi, entrambi comportano vantaggi e inconvenienti, come dimostra il fatto che l’uno è il controcanto dell‘altro. Difficile in ciascuno è l’equilibrio, per cui o si eccede (per quanto paradossale possa apparire) nel rispetto della differenza, col risultato di arrivare all’indifferenza e all’estraneità; oppure si eccede (altro paradosso) nell’accoglienza, finendo con l’imporre a chi arriva il proprio codice e col negare l‘altrui diritto alla propria specificità. A me pare che l’obiettivo al quale tendere sia: accogliere (questo è decisivo) evitando che l’accoglienza uccida per soffocamento in un abbraccio troppo stretto. In altre parole, si ha l’obbligo di riconoscere gli altri (e reciprocamente il diritto di essere riconosciuti), ma non si ha il diritto di pretendere omogeneità in cambio di riconoscimento. Per spiegarmi, nel libro uso una metafora: scrivo che ciascuno dovrebbe smettere di pretendere di essere il centro del cerchio e disporsi ad essere, come ogni altro, un punto della circonferenza. Questa idea è formulata in modo suggestivo da Pierre Bourdieu nei termini di un «decentramento del soggetto». L’idea è che dobbiamo imparare a uscire da noi stessi e a decentrarci rispetto alla nostra prospettiva particolare, arrivando a considerare non il mondo a partire da noi, ma noi stessi a partire dal mondo. È un’indicazione preziosa: imparare a costruire e ricostruire dal basso – nella relazione con gli altri – i nostri punti di vista, che quindi dobbiamo considerare non più nostri ma comuni, beni comuni, patrimonio condiviso, e insieme testi sempre aperti, in progress. Nello stesso tempo, suggerirei di evitare rappresentazioni impropriamente idilliache. Il riconoscimento implica confronto e anche conflitto, non è un pranzo di gala. L’incontro tra le ragioni non è immediato. Implica spesso tensioni e impone compromessi. Si tratta di imparare una metodologia che – questo è l’essenziale – dovrebbe essere ispirata al reciproco rispetto. Si tratta di prendere sul serio quel principio di eguaglianza che, come dicevamo all’inizio, è la fondamentale antitesi del razzismo.
Eugenia. Per concludere questa lunga chiacchierata, che considero stimolante e istruttiva, vorrei chiederti di indicare l’idea centrale del tuo libro.
Burgio. Beh, questa è davvero una provocazione! Al termine di una lunga conversazione – della quale ti ringrazio molto e che spero non sia risultata noiosa a chi l‘ha ascoltata – mi chiedi una risposta che potrebbe rendere superfluo tutto il nostro dialogo … Comunque ci provo, anche se esercizi del genere sono molto difficili (intendo dire che si è pessimi lettori di se stessi). Direi così, dopo avere parlato di questo libro con te e con altri che mi hanno posto tante domande interessanti, alle quali prima non mi era capitato di pensare: mi pare che il centro – o il motore – di questo libro sia un doppio ribaltamento che coinvolge due convinzioni (due pregiudizi) relative al razzismo. Il primo rovesciamento riguarda il rapporto col tempo. Il razzismo viene spesso considerato un residuo, qualcosa di arcaico che, fatalmente, ci lasceremo alle spalle. C’è un‘aspettativa fideistica rispetto al passare del tempo e al susseguirsi delle epoche, che noi ereditiamo dalle filosofie della storia e dall’autorappresentazione della modernità come culmine di un movimento progressivo. Tendiamo a pensare che tutto ciò che di orribile e di atroce ci troviamo tra le mani sia il portato residuale (appunto, «primordiale») di epoche passate. E che il tempo si incaricherà di sradicare i gravosi lasciti del passato. Un primo scopo del mio lavoro è opporsi a questa credenza rassicurante ma infondata. Le cose non stanno affatto così. È precisamente il contrario. Il razzismo non è nulla di arcaico, nasce – come abbiamo detto – nel grembo della modernità. È questa forma di società e delle relazioni tra le persone e le classi a generare il razzismo. Se questo è vero, lungi dall’essere «destinato» a estinguersi, il razzismo resterà purtroppo un compagno di strada delle nostre vite e delle nostre società, finché mutamenti profondi, strutturali, non permetteranno di costruire forme sociali rispettose dell’uguaglianza, libere da gerarchie e da subordinazione. Questo relativo al tempo è un primo rovesciamento. Il secondo riguarda lo spazio, cioè il rapporto tra centro periferia o tra margini e corpo della società. Il senso comune tende a considerare il razzismo una questione che riguarda i confini della società. Sia rispetto alle sue vittime (per cui pensiamo che le «razze» siano costituite dai soggetti marginali, per definizione differenti dalla norma: le minoranze, i diversi, i «devianti»), sia – tanto più – sul versante dei soggetti attivi (nel senso che tendiamo ad autoescluderci dal problema e a pensare che il razzismo chiami in causa gruppi di estremisti accecati dall’odio e da ideologie aberranti). Ecco, sarei soddisfatto se chi leggesse il libro ne traesse spunto per revocare in dubbio questo luogo comune, che è poi un pregiudizio favorevole al razzismo. In realtà, il razzismo non è né un residuo del passato né una faccenda di pochi e per pochi. Al contrario, riguarda noi tutti: sia come destinatari almeno potenziali (non c’è gruppo che possa ritenersi immune dal rischio di essere trasformato in «razza»), sia come attori, più o meno consapevoli. Ne parlavamo prima in relazione al fascismo, ma il discorso vale anche per l’oggi e per il nostro rapporto con i migranti e col sud del mondo, al quale ci sentiamo in diritto di portare la nostra democrazia a suon di bombe: un rapporto basato il più delle volte su un mix di indifferenza e ostilità che credo sia figlio del nostro cinismo. O dei nostri sensi di colpa.

Versione riveduta della conversazione tra Alberto Burgio ed Eugenia Foddai, andata in onda in due puntate (il 21 e 28 ottobre 2010) nella trasmissione «Le strade di Babele» di Radio Onda d’Urto di Brescia in occasione della ristampa del volume Nonostante Auschwitz. Il «ritorno» del razzismo in Europa (DeriveApprodi 2010). La versione originale dell’intervista è scaricabile in formato mp3 dal sito www.lestradedibabele.it. Questa intervista si trova all’interno della dispensa “L’eredità di Auschwitz e dei genocidi del XX secolo. Insegnare la storia per educare ai diritti”. Seminario di formazione per docenti, tenutosi a Bologna il 9 e 10 dicembre 2011.

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