La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 4 marzo 2017

Afghanistan, ultima chiamata. Reportage da un paese ancora in guerra

di Christian Elia 
Sono passati più di quindici anni da quando ha avuto inizio la missione militare in Afghanistan e oggi il paese non solo non è sicuro ma rischia di diventare l’ennesimo campo da gioco delle mire di Daesh e della lotta intestina tra al-Qaeda e il Califfato. Eppure a preoccupare i governi europei sembrano essere solo i rifugiati che premono ai confini della Fortezza Europa. Pericolo per scongiurare il quale l’Unione europea il 2 ottobre scorso ha siglato un accordo – il Joint Way Forward – col governo di Kabul. Dall’esodo perpetuo agli attentati che insanguinano quotidianamente le strade passando per le divisioni interne dei talebani, ritratto di un paese a pezzi. 
Il 7 ottobre 2001 una pioggia di fuoco si è riversata sull’Afghanistan. Molte delle persone colpite, non avevano la benché minima idea che l’11 settembre precedente un devastante attentato aveva massacrato 3mila civili negli Stati Uniti d’America. Oggi, dopo più di quindici anni, quel che resta di una missione militare, che per non essere vendetta avrebbe dovuto essere capace di diventare civile, è un paese a pezzi, che assiste attonito a un disastro che si mangia il futuro. 
Il futuro di ragazzi come Mohammed, o Rahmatullah. Neanche trentenni, sono tra le vittime dell’ennesimo attacco a Kabul. Questa volta è toccato all’American University. L’ospedale di Emergency di Kabul apre le sue porte per l’ennesima mass casualty. Arrivano in ambulanze, in taxi, con macchine di amici. Mohammed si è buttato da un balcone per sfuggire agli assalitori. “Stavo facendo lezione, poi abbiamo iniziato a sentire gli spari, le urla. Abbiamo cercato riparo ovunque, ma alcune porte non si aprivano per la pressione dei corpi. Non ho avuto scelta, mi son buttato dal balcone. Mi sono fratturato gamba e bacino, ma sono vivo. E tornerò a studiare. Questo è un attacco al futuro di questo paese, ma bisogna resistere”, dice, trovando il coraggio per un sorriso. A Rahmatullah è andata peggio: tre pallottole. Lo staff di Emergency gli salva la vita, con un filo di voce racconta che ha poche speranze. “La situazione è fuori controllo ormai. La guerra è ovunque. Quando c’erano i talebani, per assurdo, il conflitto era solo in una zona circoscritta. Alla classe dirigente non importa, non riescono a difendere neanche la capitale. Dividendo sempre di più il paese, secondo gli interessi settari. Se tutto questo non cambia, non potremo mai avere una vita”, racconta mentre si trova in terapia intensiva. 
Un altro attacco, un altro bagno di sangue, sotto gli occhi dei dirigibili di sicurezza e degli elicotteri che riempiono di impotenza il cielo di Kabul. “I nostri pazienti sono quasi tutti civili. Donne, bambini, non combattenti. Arrivano da tutto il paese, persone di 90 anni come bambini di pochi mesi. Alcuni neanche nati. Lo ricordo ancora, un feto di sette mesi, trapassato da una pallottola che aveva colpito sua madre. Una vittima di guerra, prima ancora di nascere”. Hedayat è un chirurgo di guerra, da anni al lavoro nell’ospedale di Emergency a Kabul, dove si è formato in ore e ore di sala operatoria, accanto a chirurghi internazionali prima e ora formando a sua volta colleghi afgani. “Va sempre peggio, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Avevo qualche speranza all’inizio, pensavo che dopo un periodo difficile le cose avrebbero potuto cambiare. Non è accaduto e di speranze non ne ho più. È come guardare il sole che, lentamente, svanisce, in un tramonto che annuncia sempre più oscurità”. Le sue parole trovano conferma in quelle non meno amare del suo collega, Antonio Rainone. “Dopo quindici anni di guerra, con tutte le risorse che sono state investite in questo paese, la situazione è peggiorata. Una guerra che sembra nessuno possa vincere. A Kabul la situazione è sempre più deteriorata, anche in quella che sembrava una zona sicura del paese, spiega Rainone. "Gli attentati suicidi in città sono costanti, mentre in tutto il resto del paese la situazione degenera, lo riscontriamo dai pazienti che arrivano da altre province. E cambiano anche le ferite, sempre più complicate, con ordigni artigianali carichi di ogni tipologia di oggetto”. Alla violenza militare, si è aggiunta anche una forma di criminalità comune che nella società afgana non ha precedenti. Rapimenti lampo, anche per una manciata di dollari, faide tra bande locali, violenze crescenti in un paese sempre più inondato di armi. 
Nell’assenza di una qualsiasi strategia globale della comunità internazionale, che per anni ha ignorato la necessità di aprire un tavolo di colloqui al quale non si sarebbe potuto ignorare la componente talebana l’unico elemento che sembra preoccupare i governi europei sono i rifugiati che premono ai confini della Fortezza Europa, in cerca di scampo. 
"Questi accordi sono stati conclusi a porte chiuse e discussi senza coinvolgere la società civile, senza tener conto della sicurezza delle persone e della situazione sul campo. È un precedente preoccupante per l’Europa. L’idea di rispedire donne e bambini in un paese in guerra è insensata”, ha dichiarato Imogen Sudbery, dell’International Rescue Committee[1]. L’accordo è il Joint Way Forward, firmato dall’Unione europea e dal governo di Kabul il 2 ottobre scorso. Per l’Ue, che nell’accordo ha previsto l’istituzione di voli charter ad hoc, la costruzione di un nuovo terminal nell’aeroporto di Kabul e l’emissione di documenti di viaggio, questo piano ha lo scopo di “istituire un processo rapido, efficace e gestibile per un rientro tranquillo, dignitoso e ordinato dei cittadini afgani”. Secondo il Guardian, però, non è un caso che la sigla dell'accordo sia arrivata a poche ore dalla conferenza dei donatori internazionali, riuniti a Bruxelles, che ha stanziato altri 15,2 miliardi di aiuti per Kabul fino al 2020. Federica Mogherini, alta rappresentante della politica estera Ue, ha respinto con sdegno l’accusa, ma anche in Afghanistan alcuni elementi del governo hanno rassegnato le dimissioni. D’altronde, quale margine politico avevano il presidente afgano Ashraf Ghani e il suo più o meno omologo (per risolvere l’impasse politica dopo le elezioni presidenziali del 2014, è stata creata una posizione ad hoc per lui) Abdullah Abdullah? L’economia dell’Afghanistan dipende per il 75 per cento dagli aiuti internazionali, con una crescita del Pil che è passata dal 14 per cento degli anni del boom (con l’economia drogata dalla guerra e dal suo indotto) al magro 0,8 per cento di quest’anno. I rimpatri degli afgani (200mila quelli che hanno provato a entrare nell’Ue nel 2016) sono iniziati. 
La Serbia, fuori dall’Ue, ha chiesto di rientrare nell’accordo. Sono almeno 3mila gli afgani bloccati dalla chiusura della Balkan Route solo nel paese della ex-Jugoslavia, altre migliaia sono in Grecia, rinchiusi dall’accordo Ue-Turchia entrato in vigore a marzo del 2016. Rimpatri verso un paese sicuro, al punto che per ironia della sorte, nel giorno della firma dell’accordo tra Kabul e Ue, i talebani hanno sferrato un’offensiva impressionante contro Kunduz, già presa e controllata temporaneamente un anno fa. Quali via di fuga per gli afgani? Per anni il Pakistan è stato un rifugio naturale, a cavallo di quella Linea Durand inventata dai britannici nell’Ottocento, che non divide davvero nulla. Sono oltre tre milioni gli afgani in Pakistan il quale, dopo lungo tempo, ha iniziato da un anno e mezzo a questa parte – per una serie di instabili equilibri nel paese – a respingere gli afgani. 
“Nella seconda metà del 2016, un connubio tossico di minacce di espulsione e di abusi della polizia ha spinto quasi 365mila rifugiati afgani in Pakistan, su un totale di 1,5 milioni registrati nel paese, ad andare via. L'esodo è tale da essere il più grande ritorno di massa forzata illegale al mondo di rifugiati negli ultimi tempi. Le autorità pakistane hanno dichiarato che anche nel 2017 i numeri saranno simili”, recita il report Pakistan Coercion, UN complicity – The Mass Forced Return of Afghan Refugees, pubblicato da Human Rights Watch il 13 febbraio scorso. L’atteggiamento di Islamabad, e l’impotenza dell’Onu, sembrano condannare la comunità afgana di rifugiati in Pakistan a dover trovare una soluzione alternativa nei prossimi mesi[2]
Un’altra storica via di fuga, come transito o per restare, è sempre stato l’Iran. Anche qui le stime sono difficili, ma la comunità è enorme. Secondo Human Rights Watch, dal 2013, il governo di Teheran ha spedito a combattere in Siria (dove il regime degli ayatollah protegge quello del clan Assad) migliaia di rifugiati afgani. Inquadrati nella brigata Fatemiyoun, sotto l’egida dei corpi speciali iraniani, sono carne da macello in prima linea nella feroce lotta contro gli insorti siriani. Il regime iraniano ha, secondo molti osservatori, premiato gli afgani, aprendo finalmente alla scolarizzazione dei figli degli immigrati, che per il resto sono vittime del razzismo e lavorano nei settori più umili della società. Per capire l’immagine che i media iraniani offrono della comunità afgana all’opinione pubblica locale, basta vedere una serie tv, chiamata Epidemia, nella quale un immigrato afgano che lavora per la Cia è il portatore consapevole e complice di un virus terribile che deve sterminare gli iraniani. Una vita durissima, ma sopportata strenuamente, fino a quando non è iniziato anche l’arruolamento forzato. In gabbia, dunque. Eppure partono. Il rapporto Survey of the Afghan People, prodotto a dicembre 2016 dall’Asia Foundation, aiuta a rendere l’idea: la percezione dell’insicurezza per gli afgani è enorme, per gli attentati, per i combattimenti, per la corruzione che infetta il paese, per la mancanza di lavoro e di speranze. Solo il 20 per cento degli afgani residenti si sente al sicuro, mentre cresce il dato (oltre il 40 per cento) di coloro che si sentivano più sicuri quando comandavano i talebani, alla fine degli anni Novanta. Difficile dar loro torto: secondo Unama, la missione Onu di assistenza in Afghanistan, il 2016 è stato l’anno più drammatico per le vittime civili dal 2009 (primo anno in cui le Nazioni Unite hanno iniziato a monitorarle). E la mappatura degli scontri e dei combattimenti, rende chiaro come sono diventate instabili anche zone che prima non lo erano. È il caso del Badakhshan, al confine con il Tajikistan, o del Faryab, al confine con il Turkmenistan. Gli assalti, come la presa di Kunduz o l’assedio a Lashkargah, denotano una crescente fiducia nei propri mezzi da parte degli insorti. Che non hanno risentito, come si pensava, delle divisioni seguite all’annuncio ufficiale (estate 2015) della morte del mullah Omar. Il posto dello storico leader del movimento talebano venne preso dal mullah Akhtar Mohammad Mansour , ma non c’era convergenza tra le tre anime principali del movimento rispetto a questa leadership, durata molto poco comunque, visto che Mansour viene assassinato da un drone Usa nel maggio 2016. Lo sostituisce una figura di transizione: Mawlawi Hibatullah Akhundzada, che tiene a bada l’arrembante vice, Sirajuddin Haqqani. 
Nonostante le divisioni, però, i talebani sono in grado di tenere in scacco i regolari afgani e i rinforzi occidentali. Se venissero a capo di una strategia condivisa, che accadrebbe? Lo sanno bene anche alla Nato, che non a caso nel vertice del Patto Atlantico a Varsavia, 8 e 9 luglio 2016, ha stanziato altri 5 miliardi di dollari (fino al 2020) per il sostegno delle forze di sicurezza afgane, che altrimenti imploderebbero di fronte a un nemico più motivato. 
Il documentario Tell Spring Not to Come This Year, di Saeed Taji Farouky e Michael McEvoy, del 2015, racconta la storia di un battaglione dell’esercito regolare afgano. La sensazione di abbandono che pervade i reparti, lasciati spesso senza neanche i soldi per una chiamata dal cellulare, è emblematica. Secondo il capo della polizia locale di Lashkargah, il 40 per cento dei 26mila uomini che dovrebbero comporre le forze di sicurezza in zona non esiste. Perché i salari dei militari fantasma vengono gestiti dai capibastone, che più che comandanti militari sono padroncini di una milizia. Il tutto per quattro soldi di stipendio. Come si può immaginare che trovino le motivazioni per combattere? “L’anno scorso, secondo quanto dicono i militari, abbiamo sparato 21 milioni di proiettili. Ma abbiamo praticamente perso il controllo di altri sei distretti. 
“Dove li abbiam tirati, questi proiettili?”, si chiede ironicamente Bilal Sarwary, giornalista afgano e collaboratore dei principali network internazionali. “Neanche l’1 per cento è andato a segno, altrimenti non esisterebbero più i talebani. Basta vedere le condizioni di vita dei soldati, fanno la fame. E i mezzi svaniscono, distrutti in combattimento, venduti, o portati a casa da chi diserta. Io stesso sono andato al funerale di mio cugino e solo dopo circa un mese si è saputo che avevamo sepolto il corpo sbagliato. Non c’è nessuna organizzazione e i numeri dell’esercito sono falsi”. L’amministrazione Obama, lasciando il posto a Donald Trump, ha deciso di tenere in Afghanistan un contingente di 8.500 uomini fino al 2017. Come si può, di fronte a questi dati, ritenere l’Afghanistan un paese sicuro? 
Non è un Paese sicuro, per quanto, dopo quindici anni di guerra, questa consapevolezza sia politicamente gravosa. Lo scenario, anzi, peggiora. L’Afghanistan, infatti, rischia di diventare l’ennesimo campo da gioco delle mire di Daesh e della lotta intestina tra al-Qaeda e il Califfato. Uno scontro che è allo stesso tempo strategico e dottrinale. I talebani, da entrambi i punti di vista, sono allineati con al-Qaeda. Per loro, infatti, conta il teatro nazionale, al contrario della strategia transnazionale del Califfo, e i talebani sono in maggioranza legati alla scuola Deobandi[3], più che alla versione di Daesh del salafismo. La tensione tra al-Zawahiri – ex vice di Osama bin Laden che ne ha preso il posto dopo la sua morte ad Abbottabad, in Pakistan, per mano dei corpi speciali Usa – e i leader dello Stato Islamico è di dominio pubblico. Al-Qaeda ha ormai pubblicamente sconfessato Daesh, e viceversa, sia a livello religioso che strategico. La tensione tra i gruppi attraversa tutti i teatri di conflitto, dalla Siria all’Iraq, e non risparmia l’Afghanistan, dove al-Baghdadi ha voluto inserirsi. 
L’uomo scelto per questa operazione è stato Hafiz Saeed Khan (ex militante di Tehreek-e-Taliban, i talebani pakistani, attivi nella zona di confine tra i due paesi e non solo, ma fuoriuscito dal gruppo quando non ne ha ottenuto il comando nel 2013), nominato direttamente da al-Baghdadi. Missione: strappare ad al-Qaeda il ‘patrocinio’ sull’Afghanistan. Il 26 gennaio 2015, come fedelmente riportato dai patinati mezzi d’informazione del Califfato e come raccontato da Giuliano Battiston nel suo ottimo Arcipelago Jihad (edizioni dell’Asino), Hafiz è ‘nominato’ governatore del Khorasan, definita provincia dello Stato Islamico. Storicamente, il Khorasan comprende l’attuale Afghanistan, le zone orientali dell’Iran, oltre a porzioni significative di Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan, ma per Daesh si estende fino al subcontinente indiano. Il reclutamento è basato sull’offerta di una paga imponente, attingendo alla disillusione di alcuni jihadisti in rotta con le vecchie organizzazioni. L’opera di Hafiz ha avuto come teatro la provincia di Nangarhar, da controllare entro il 2017, almeno secondo i proclami. Hafiz è stato ucciso da un drone Usa nel luglio 2016 in Khorasan. È stato sostituito da Abu Yasir al-Afghani. 
Per ora i risultati sono scarsi, secondo gli osservatori dell’Afghanistan Analysis Network,ma la tensione rimane. Difficile anche stimare la consistenza della forza militare di Daesh in Afghanistan, che si ritiene ammontare più o meno a un migliaio di persone. Questo non significa che non riesca a essere letale: l’8 febbraio scorso, in poche ore, Daesh ha rivendicato sia l’uccisione di sei dipendenti della Croce Rossa che l’attacco alla Corte Suprema di Kabul, nel quale hanno perso la vita venti persone mentre altre quaranta sono rimaste gravemente ferite. 
L’Afghanistan è un obiettivo importante. Sia simbolicamente, essendo universalmente riconosciuto come il luogo di origine del jihadismo contemporaneo, sia economicamente, per la condizione stateless che permette una grande libertà di azione e di sicurezza per i gruppi armati, oltre che rappresentare una miniera d’oro per finanziarsi. 
Secondo l’Unodc (agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di traffico di stupefacenti e crimine organizzato), l’eroina proveniente dall’Afghanistan uccide ogni anno centomila persone, in maggioranza in Russia ed Europa. Questo anche per il ritorno in auge di uno stupefacente che pareva ormai tramontato con gli anni Ottanta, ma che ha conosciuto – cambiando target di mercato – un nuovo boom proprio in coincidenza con l’inizio del conflitto afgano: l’oppio. Questo anche perché, come spiega Enrico Piovesana nel suo Afghanistan 2001 – 2016, la nuova guerra dell’oppio, il controllo delle enormi risorse di questo mercato è legato a doppio filo al sistema politico-economico in Afghanistan per non costituire ormai una forma di controllo del Paese. Che se nel 2001, anno dell’invasione della coalizione internazionale, registrava 7mila ettari coltivati a papavero da oppio, quest’anno ne conta 224mila, sempre secondo Unodc. Il massimo storico. 
Accanto all’oppio, non va sottovalutato il traffico di lapislazzuli. Secondo un report dell’ong Global Witness, in particolare nella regione del Badakhshan, i signori della guerra, con le loro ragnatele nella politica e nelle forze armate, si sono contesi con ogni mezzo i giacimenti del prezioso minerale, favorendo l’espansione nella zona dei movimento dei talebani, che hanno di fatto preso il controllo dell’estrazione e del commercio. Il mercato di arrivo è quello cinese, vorace della pietra blu. Secondo l’ong, si parla di un valore stimabile in 200 milioni di dollari. Un mare di denaro. 
Una fonte di finanziamento potenzialmente infinita, tra oppio e pietre preziose, a cui sommare tutto il resto. Lo sanno bene a Mosca che, per la prima volta dopo l’invasione del 1979 e la rovinosa ritirata prima della caduta del muro di Berlino, torna a farsi avanti nella regione. Per Mosca è più logico aprire un canale di confronto coi talebani che ritrovarsi Daesh alle porte. O continuare, nel quadro di una tensione strategica globale, ad avere quasi 10mila marines in Afghanistan. Come ha raccontato Ahmed Rashid sul Financial Times, a dicembre 2016 in un vertice per la sicurezza in Asia, Russia, Cina e Pakistan hanno aperto al dialogo con i talebani. “I talebani? Una forza preminentemente locale, con elementi radicali, accanto a elementi più tradizionali”, ha commentato Zamir Kabulov, l’inviato di Vladimir Putin per l’Afghanistan[4]. Dal canto loro, i talebani si sono detti soddisfatti di essere ormai riconosciuti come una forza imprescindibile. 
Un mutamento epocale, mosso dal disinteresse mostrato in otto anni dall’amministrazione Obama e dalle incertezze dell’amministrazione Trump. L’Iran, che dopo la distensione con Washington ora non sa come si porrà il nuovo inquilino della Casa Bianca, guarda con interesse. Quasi tutti i partner di questa cordata, preferirebbero un ritorno di Hamid Karzai, che ha lasciato il potere dopo averlo gestito come un feudo personale per anni. E che ora, al contrario di Ghani, si posiziona nel solco antiamericano. 
Nell’amministrazione Trump, un influente consigliere di politica estera è Zalmay Khalilzad, di origini afgane ed ex ambasciatore Usa a Kabul, ma potrebbe non bastare. Anche alla luce dei fallimentari colloqui di pace che Washington ha sponsorizzato, ma senza mai appoggiarli fino in fondo, e che sembrano oramai al tramonto. Il Gruppo di coordinamento quadrilaterale (Gcq), che si riuniva a Islamabad, ha perso slancio quasi subito, e il distacco è apparso evidente quando Ghani ha iniziato a ‘trattare’ con l‘India, arcinemica del Pakistan, che potrebbe puntare su un nuovo cavallo. 
Sempre più per gli Usa, se vogliono continuare a giocare un ruolo significativo nella regione e tirarsi fuori dal pantano afgano, urge una nuova strategia che parta dal conclamato fallimento dell’operazione iniziata nel 2001. Coinvolgendo i talebani nel processo di pace. Non si tratterebbe neanche di una novità. Al di là della campagna che ha accompagnato tutta l’operazione, con il legame tra i talebani e al-Qaeda che è sempre stato solo strategico, basterebbe (come ha fatto in modo magistrale su Le Monde Diplomatique Denis Souchon) rivitalizzare la retorica dei ‘combattenti animati da una fede pura e patrioti’, come veniva presentato il movimento di resistenza all’invasione sovietica degli anni Ottanta[5]. In quel periodo storico bisognava affossare l’Urss e tanto bastava per far andare bene a Washington qualsiasi cosa. Basti pensare che, negli anni, i principali nemici degli Usa si sono formati in Afghanistan. È stato il caso di Osama bin Laden, su tutti, ma anche di al-Zarqawi in Iraq, il quale si è addestrato in Afghanistan dal 1989 al 1993 e che è considerato l’uomo che ha rotto con al-Qaeda e che ha dato vita alla forma attuale di Daesh, per finire con Mokhtar Belmokhtar, l’imprendibile principe nero del Sahel, che ha combattuto in Algeria prima e che ora imperversa in Mali e nel deserto. Non per ripetere gli stessi errori, ma per comprendere fino in fondo quanto l’opzione militare non abbia creato altro che nuovi nemici. 
Questa consapevolezza è ormai diffusa in tanti settori pubblici negli Usa. L’ultimo rapporto del Sigar (l’organismo di controllo del Congresso Usa per la missione in Afghanistan) è disarmante. Secondo il documento, diffuso alla fine del 2016, almeno 5.523 membri dell’Afghan National Defense and Security Forces (ANDSF) hanno perso la vita nei primi otto mesi del 2016. Altri 9.665 membri delle forze afgane sono rimasti feriti durante lo stesso periodo. Il rapporto aggiunge inoltre che il governo afgano ha perso il controllo del 2,2 per cento del territorio durante quest’anno. “Dei 407 distretti dell’Afghanistan, 258 erano sotto il controllo o l’influenza del governo, 33 sotto il controllo o l’influenza dei ribelli, e 116 distretti sono contesi”. 
Al fallimento militare, si affianca quello politico e sociale. Sempre secondo il SIGAR, numerose scuole finanziate dagli Stati Uniti in Afghanistan sono scarsamente frequentate e strutturalmente fatiscenti, mancano persino di acqua pulita ed elettricità. Il rapporto, scritto da John Sopko, ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan, riporta le osservazioni provenienti da 25 scuole della provincia di Herat. Le scuole sono state costruite o ristrutturate utilizzando fondi dei contribuenti da parte dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. A settembre, gli Stati Uniti hanno erogato 868 milioni di dollari per i programmi di educazione in Afghanistan. Le scuole sono gestite dal Ministero dell’Istruzione Superiore. Gli ispettori nelle scuole di Herat – terza città più grande in Afghanistan – hanno registrato l’assenteismo di studenti e insegnanti. Mentre i funzionari hanno riferito che la media degli studenti iscritti in ciascuna scuola della provincia di Herat è di 2.639, solo 561 studenti in media erano presenti in ogni scuola, il 23 per cento secondo il rapporto. La mancanza di porte e finestre è la norma. 
L’autore del rapporto sottolineava: “Potremmo perdere tutto e tutti gli investimenti degli ultimi 15 anni, se non facciamo le cose per bene e non decidiamo come andare avanti”. 
Nell’agosto del 2015, un artista ignoto ha dipinto sul muro del palazzo presidenziale un murale con due occhi grandi, che recita: “La corruzione non si nasconde agli occhi di Dio, né a quelli della gente”. 
Fonte: MicroMega online 

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