La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 4 marzo 2017

Nei margini estremi della società italiana

di Remo Siza
Ci sono tendenze nella società italiana che stanno cambiando profondamente la soggettività delle persone, le loro attese e i loro progetti per il futuro, le relazioni fra una classe sociale e un’altra. Non mi riferisco soltanto alla crescita della povertà o alla crescente concentrazione dei redditi e delle ricchezze in pochi gruppi sociali e a livelli di disuguaglianza superiori alla media europea e inferiori solo a paesi come il Portogallo, la Grecia, la Spagna. Ciò che sta emergendo è un fenomeno nuovo che riguarda la struttura delle economie avanzate nel loro complesso e delle società che intendono governarle, e i modi nei quali esse funzionano e si riproducono, le modalità che intendono privilegiare per uscire dalla crisi (Siza 2017).
L’incremento quantitativo dei livelli di disuguaglianza e di povertà è stato rilevante e ha cambiato la natura di fondo di queste condizioni: gli effetti sociali sono diventati molto più estesi, si sono stabilizzati e hanno assunto un carattere strutturale, sistemico, difficilmente modificabile nel breve e nel medio termine.
Quella che emerge è sicuramente una società diseguale e con un’alta incidenza di povertà, ma anche una società che consente o costruisce attivamente ai suoi margini estremi, spazi di vita e di socialità separati, quantitativamente molto rilevanti non più minoritari, fratture sociali profonde. Nel fondo della scala sociale, per le masse di poveri e indigenti, l’aggravamento ulteriore delle loro condizioni di povertà e la loro crescita quantitativa ha creato una nuova condizione, ha significato per gruppi sociali estesi l’espulsione dallo spazio vitale, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale (Sassen 2014). Le povertà più severe escono completamente dal sistema, da quello del lavoro, della scuola, del welfare di qualità, diventano meno visibili.
Quando negli anni passati si parlava di gruppi sociali al di fuori del sistema ci si riferiva a questi strati sociali, ora l’articolazione delle posizioni sociali è più complessa. Ai vertici della scala sociale emergono altre fratture sociali. Per chi ha raggiunto le posizioni più alte dopo aver accumulato tutte le risorse economiche possibili, l’ulteriore crescita della disuguaglianza e della distanza sociale dalla gente comune significa liberazione dalle responsabilità (Sassen 2014), liberazione dai legami di appartenenza alla società, dalle sue regole, dalle sue norme, fuori dalla socialità della maggioranza delle persone e dai criteri e dalle regole che distinguono i comportamenti leciti e accettabili dai comportamenti riprorevoli.
Per una parte consistente delle persone che stanno in mezzo, fra queste due posizioni estreme, cresce la fragilità di una condizione di vita per il diffondersi di instabilità nel mercato del lavoro e nelle relazioni familiari, e il senso di una integrazione precaria: in una società che garantisce sempre meno sicurezze di base e meno opportunità di costruirle autonomamente con il proprio impegno, in una società divisa, ogni scelta di vita sembra presentare crescenti rischi sociali. L’universo culturale prevalente per questi gruppi sociali, il riferimento per le scelte di vita e di lavoro, rimangono i modi di vita e i comportamenti di consumo, le aspettative della popolazione che vive condizioni di benessere, ma cresce la distanza tra i valori e i propri progetti di vita privilegiati e le risorse di cui si dispone quotidianamente per realizzarli.
Una società che costruisce troppi spazi sociali ai suoi margini estremi e tante fragilità nelle condizioni di vita delle classi intermedie rischia di creare una insofferenza sociale molto elevata, una insofferenza sociale estesa che rischia di travolgere ogni relazione di vita e ogni progetto collettivo. Una insofferenza che una parte non secondaria della classe dirigente non si preoccupa più di governare e di mediare. Si sono indeboliti tutti i soggetti che per vari decenni hanno svolto una funzione integrativa, di mediazione e di riequilibrio – la classe dirigente al governo, la classe operaia e le sue organizzazioni, la moderata e prudente classe media, la chiesa, l’associazionismo della società civile – e l’attuale classe dirigente economica e politica ha condizioni di vita, stili di vita, scelte di consumo e valori molto differenti da quelli condivisi dalla gente comune. Allo stesso tempo stentano ad affermarsi come fenomeno non minoritario nuove forme di socialità e di appartenenza capaci di costruire fiducia sociale diffusa, speranze, visioni di un mondo differente.
Più in generale, la crisi ha indebolito le forme di integrazione sociale assicurate dalla crescita del benessere economico e dalla crescita del consumo di massa. Allo stesso tempo, con difficoltà si affermano altre forme di integrazione: forme collettive che valorizzano ai fini di una maggiore coesione sociale le relazioni che alimentano comportamenti di fiducia e di cooperazione e consenso sui valori comuni, i sistemi di partecipazione politica sinceramente democratici. La costruzione di una coesione sociale e di un tessuto di relazioni di fiducia non è più affidato ad un progetto e non è parte di una visione dello sviluppo. È lasciata alle dinamiche del mercato oppure, sull’altro versante, alla decisione autonoma di gruppi che costruiscono forme innovative di socialità, di associazioni che costruiscono legami e valori differenti. La mancanza di fiducia nelle istituzioni crea passività, distacco, astensionismo oppure populismo inteso come stigmatizzazione compulsiva e permanente delle autorità governanti, fino a raffigurarle come potenza nemica, radicalmente estranea alla società (Rosanvallon 2012).
I conflitti sociali si sviluppano tra chi è dentro i margini del sistema e chi vive e si sente, per un motivo o per un altro – per ricchezza o per povertà o per fragilità delle condizioni di vita – fuori dalle opportunità e dalle risorse che il sistema stesso offre nella normalità del suo funzionamento (le scuole pubbliche, la sanità pubblica, i luoghi di relazione della maggioranza delle persone). I conflitti si sviluppano fra coloro che difendono la normalità del funzionamento delle istituzioni e del mondo dei servizi e coloro che non hanno più interesse a preservarli: questi ultimi sono più poveri perché le attuali istituzioni e i servizi non hanno mai risposto alle loro esigenze e i più ricchi perché hanno oramai costruito con le proprie risorse l’accesso a servizi migliori (scuole e università private, fondi sanitari, quartieri esclusivi), ma anche una parte delle classi medie che vorrebbero cambiarli radicalmente per renderli realmente accessibili e più vicine alle loro nuove condizioni di vita.
Fuori dal sistema vive una parte significativa dell’alto e del basso della scala sociale. In uno spazio sociale intermedio, quello più esteso, si costruiscono condizioni di vita sostanzialmente fragili di una buona parte delle classi medie e delle classi operaie che hanno perso molte delle loro sicurezze, vivono condizioni economiche insoddisfacenti. Fra le classi medie e i cosiddetti ceti popolari si costruisce un individualismo privo di stabili appartenenze, l’individualismo di chi sta in mezzo e teme una deriva sociale, teme di essere fuori definitamente dal mondo del lavoro, dalla rete di socialità e di sostegno, di subire la sottrazione di diritti e di beni; emergono orientamenti valoriali che rischiano di indebolire ulteriormente i valori civici e ogni atteggiamento di fiducia negli altri.
Nel passato questo individualismo privo di stabili appartenenze riguardava l’esercito degli esclusi che abitavano le periferie urbane, a cui nessuno affidava un percorso di inclusione, perché ritenute persone non affidabili né come lavoratori né come consumatori. Ora coinvolge un insieme molto esteso di persone, quelle che temono di essere coinvolte in una deriva sociale e non si preoccupano più, nelle relazioni con le istituzioni e il mondo civile, di creare distinzioni simboliche (negli stili di vita, nei consumi, nel linguaggio, nelle preferenze, nell’educazione) con i gruppi sociali che vivono nei margini bassi e nei margini alti del sistema. La cultura delle classi medie – la moderazione, gli stili di vita prudenti, la costruzione nel tempo di una sicurezza economica – è quasi scomparsa e i ceti popolari sono un’altra cosa rispetto alla classe operaia del passato e alla sua cultura e alla qualità collettiva delle relazioni di lavoro che la esprimeva.
Questi cambiamenti nelle condizioni di vita e negli orientamenti valoriali creano problemi di governabilità molto estesi. Nei sui studi iniziali Lipset definiva il radicalismo politico come un estremismo di centro, un movimento popolare che esprime la protesta estrema delle classi medie contro le istituzioni, i sindacati, i partiti politici. Più recentemente altri autori – Betz, Inglehart, Welzel (2005) – hanno rilevato una significativa correlazione fra l’insicurezza e il peggioramento delle condizioni di vita delle classi medie e operaie a causa della modernizzazione e la crescita di un “estremismo di centro”, una radicale diminuzione della fiducia nelle istituzioni e un degrado del senso civico.
Ora non c’è più traccia di una strategia di inclusione sociale di strati sociali di classe media impoveriti, una strategia a tutele dei salari minimi, una strategia che sia finalizzata intenzionalmente a contrastare ogni individualismo privo di regole e di appartenenze e la crescita dell’insofferenza sociale.

Fonte: comune-info.net 

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