La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 2 marzo 2017

Uber: quando la soluzione è peggiore del problema

di Nicola Melloni
I tassisti non sono simpatici: il servizio che offrono, in Italia come altrove, è spesso caro e non sempre efficiente. Le dimostrazioni di questi giorni – con bombe carta, tira-pugni e la presenza di qualche “camerata” – unite a dichiarazioni dei redditi poco trasparenti non fanno altro che rafforzare questo sentimento. Uber, invece, gode di una discreta reputazione: il servizio è normalmente – non sempre – meno caro del taxi, le macchine sono a portata di click e si ha pure l’impressione di usare una piattaforma progressista basata sulla condivisione, appunto la sharing economy, che fa il verso ad economie pre-(o post?) capitaliste.
In realtà, sotto questa apparenza “smart”, compagnie come Uber hanno semplicemente digitalizzato il caporalato, ma trovano il plauso di molti in una società dove un trentennio di egemonia culturale neoclassica ha rimpiazzato la dignità del lavoro con la soddisfazione del consumatore e la democrazia col mercato.
La difesa del consumatore è ovviamente un aspetto importante nell’organizzazione dell’economia capitalista: la fine delle rendite permette di abbassare prezzi artificiosamente alti e redistribuire socialmente i profitti monopolistici, ed in questo scenario tanto la legislazione quanto l’innovazione possono giocare un ruolo fondamentale. Molto spesso però i prezzi più competitivi arrivano attraverso altre forme di liberalizzazione, quelle del mercato del lavoro, schiacciando salari e delocalizzando posti di lavoro.
Come scritto ormai alcuni anni fa da Robert Reich in Supercapitalism, consumatori e cittadini si trovano davanti a una scissione psicologica, con bisogni diametralmente opposti: da una parte, il consumatore beneficia di prezzi più accessibili e servizi migliori. Dall’altra, il cittadino sopporta dei costi sociali meno appariscenti al momento dell’acquisto ma che si trasmettono poi sulla società nel suo complesso: povertà, disoccupazione, diseguaglianza.
Uber è l’esempio perfetto di questa situazione. Non vi sono dubbi che esiste un problema legato al servizio-taxi e la comparsa di Uber ha migliorato il servizio per i consumatori – non sempre: quando la domanda è alta Uber aumenta i prezzi, come ad esempio durante un attacco terroristico a Sidney. L’innovazione, sotto forma di app, permette al cliente di contattare direttamente un guidatore occasionale, e la rottura del “monopolio” dei tassisti abbassa i costi, colpendo le rendite di posizione. Non solo: Uber – e Foodora, e le altre compagnie di questo tipo – proclamano addirittura di fornire un servizio sociale, dando la possibilità a disoccupati, impiegati part-time e, più in generale, a chi ne ha bisogno, di avere una fonte di reddito. Il Financial Times recentemente ha raccontato come Uber rappresenti addirittura una possibilità di riscatto per i poveri delle banlieu parigine, quasi che il servizio taxi sia un possibile baluardo contro emarginazione e, perché no, terrorismo.
Una analisi più attenta racconta una realtà assai meno rosea. La pretesa di rompere il monopolio dei tassisti con prezzi competitivi maschera in realtà una vendita del servizio talmente sottocosto da non generare profitti, in quello che per molti analisti è semplicemente un investimento di lunga durata per acquisire una posizione dominante e instaurare un nuovo monopolio che potrebbe travolgere anche il servizio pubblico. Quel che però, più in generale, preme sottolineare è il raccapricciane modello di sfruttamento che queste compagnie usano. Non è certo l’innovazione a permettere la riduzione dei prezzi: la app mette in contatto diretto passeggeri e autisti occasionali ma il prezzo è deciso da Uber stessa che impone paghe miserevoli, tali da costringere i guidatori a lavorare fino a 70 ore a settimana per un salario decente o a urinare in bottiglie di plastica non potendosi permettere nemmeno una pausa-bagno. Per di più, Uber tratta i guidatori non come dipendenti ma come imprenditori autonomi, non riconoscendo salario minimo, pensione, benefit (in USA, l’assistenza sanitaria) – una pratica condannata ormai dai tribunali di mezzo mondo.
Uber, semplicemente fa leva sulla disoccupazione causata dalla crisi – e del generale appiattimento dei salari che ha contraddistinto il trentennio liberista – per attingere a prezzi di saldo a quello che Marx avrebbe definito esercito industriale di riserva: persone bisognose di lavoro pronte ad accettare condizioni di lavoro miserevoli. Nulla di diverso, appunto, dal caporalato che offriva sfruttamento – pardon, lavoro – occasionale in cambio di poche lire, approfittando del fatto che esiste sempre qualcuno più povero disposto a lavorare per ancora meno.
Pratiche debellate – anche se non completamente – grazie a decenni di lotte che hanno portato progresso in campo sociale, politico ed economico: la democrazia ha bisogno di regole e dignità e non (solo) di consumatori soddisfatti, perché la guerra tra poveri non genera sviluppo, e l’iper-sfruttamento, con buona pace del FT, non sconfigge la povertà ma l’aumenta.
Può benissimo essere che, almeno nel breve periodo, Uber possa migliorare il benessere dei consumatori. Ed è pure comprensibile che molt autisti di Uber possano preferire lo sfruttamento esasperato alla disoccupazione – anche se i casi di malcontento sono sempre più numerosi. Ma a meno di non sottoscrivere l’idea thatcheriana che la società non esiste, non possiamo pensare ad un mondo in cui semplicemente sommiamo le utilità dei singoli a discapito del bene collettivo.

Fonte: MicroMega online - blog dell'Autore 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.