La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 marzo 2017

Dove ci ha portato il capitalismo finanziario

di Lisa Raffi
Il libro di Maria Rosaria Ferrarese si rivela un ottimo strumento per comprendere il dibattito odierno sui costi/benefici della globalizzazione dei mercati e del crescente potere del capitale finanziario. Non c’è dubbio che la globalizzazione, sotto i colpi delle ondate migratorie, dell’impoverimento di strati crescenti della popolazione, delle difficoltà occupazionali e della scarsa crescita, goda in Italia di cattiva stampa. E non solo in Italia. C’è chi come Richard Baldwin, nel suo recente saggio The Great Convergence: information technology and the new globalization (Belknap), afferma che questa integrazione economica “estrema” stia sfuggendo al controllo del mondo occidentale. 
Globalizzazione e finanziarizzazione
La globalizzazione ha trasferito non solo merci ma soprattutto know-how tecnologico, e il fenomeno è avvenuto in una sola direzione: dai paesi G7 a quelli emergenti (in particolare Cina, India, Indonesia, Pakistan, Corea, Polonia e Thailandia). Infatti, i paesi in questione hanno combinato una manodopera mediamente giovane di low-skilled con un basso costo del lavoro. Ciò ha creato una situazione di concorrenza su scala globale che i paesi sviluppati non sono attualmente in grado di sostenere.
In questi paesi emergenti vive circa metà degli abitanti della Terra, caratterizzati da una forte domanda interna, la quale ha permesso il decollo delle loro economie e delle capacità produttive. Al contrario, nei mercati occidentali questo fenomeno si è ripercosso sui livelli di occupazione e sui salari dei lavoratori, determinando una “polarizzazione” in due classi: i lavoratori altamente specializzati da un lato, e quelli non specializzati dall’altro. Inoltre, la polarizzazione viene aggravata dal fenomeno della digitalizzazione e dell’automazione, che espelle gli umani dal sistema produttivo.
Un tempo la competizione avveniva sostanzialmente tra le industrie nazionali (ad esempio, le auto tedesche contro quelle italiane; l’elettronica giapponese contro quella americana), mentre oggi la concorrenza avviene tra multinazionali che catturano i massimi vantaggi su scala globale. Ad esempio Apple progetta nella Silicon Valley, elabora il software in Pakistan, costruisce i componenti elettronici in Cina e ha sede fiscale in paesi quali l’Irlanda, con cui ha concordato un livello di tassazione risibile.
Le multinazionali si avvantaggiano sempre più, spiazzando i concorrenti che non riescono a raggiungere livelli minimi dimensionali e hanno meno risorse per innovare. Ciò si traduce in un crescente accumulo di ricchezza nelle mani di pochi imprenditori globali e un impoverimento relativo dei lavoratori e delle classi medie dei paesi occidentali. Inoltre, nel vecchio continente il crescente invecchiamento della popolazione e la diminuzione della sua componente attiva ne aggravano la situazione.
Nel processo di globalizzazione dell’economia, il capitalismo finanziario va assumendo un ruolo sempre più rilevante. Il saggio di Maria Rosaria Ferrarese cerca di ripercorrere il cammino iniziato tra gli anni ’70 e gli anni ’80, con l’affermazione delle politiche economiche neo-liberiste e che oggi sta permettendo al capitalismo finanziario di prendere il posto delle autorità politiche tradizionali, quelle degli stati, nella guida del mondo.
Ferrarese effettua una breve ricognizione sulle teorie e dottrine che teorizzavano il superamento dell’intervento degli stati nell’economia e che hanno favorito l’insediamento di un nuovo paradigma economico. Margaret Thatcher, in Gran Bretagna (1979-1990), e Ronald Reagan, negli Stati Uniti (1981-1989), lanciarono per primi una nuova politica economica liberista, divenuta poi nota, negli Stati Uniti, come reaganomics. Il libero mercato avrebbe dovuto ripristinare gli equilibri, premiando il merito, l’efficienza, la trasparenza. L’apertura ai mercati globali e la finanziarizzazione dell’economia avrebbero dovuto consentire di passare da un’economia basata sulla fabbrica e sul territorio (lo Stato tradizionale) a una economia basata sulla conoscenza (knowledge economics). Il nuovo Prometeo, la figura mitologica che aveva permesso l’emancipazione dell’uomo dominando un nuovo elemento, il fuoco, ne metteva a disposizione uno ancor più nuovo, “la conoscenza”: innovazione e dematerializzazione era il binomio che accompagnava i cambiamenti promessi dalla New Economy (p. 23).
Lo strumento principe di questo nuovo approccio fu rappresentato da una nuova politica monetaria. Il principale fautore della teoria monetarista, Milton Friedman, sosteneva da tempo che la politica monetaria costituiva “di per sé” la migliore politica economica possibile. Secondo tale approccio, “se la quantità di moneta supera la capacità di produrre beni, si crea inflazione”; le politiche monetarie mirate alla stabilità dei prezzi avvantaggiano invece le dinamiche dei mercati. Di conseguenza in quegli anni fu “sancito il principio dell’indipendenza delle banche centrali dagli organi politici e fu ridefinita la loro missione, spostandola sul contenimento dell’inflazione e dei deficit pubblici” (p. 28).
Maria Rosaria Ferrarese fa notare che i poteri delle banche centrali potevano essere condizionati tuttavia dai comportamenti di soggetti privati: “Il caso di George Soros si può considerare come il più clamoroso esempio di come un singolo operatore in grado di muovere ingenti risorse finanziarie (…) possa produrre effetti di natura monetaria su intere nazioni.” (p. 31). Si ricorderà, in effetti, come gli hedge funds di Soros influirono sulla svalutazione del 15% della sterlina britannica sul marco e del 30% della lira italiana, nel giro di qualche giorno.
L’Autrice passa poi ad analizzare “le riforme che hanno coinvolto e talora aggirato gli stati, inducendoli ad allentare la propria presa sui vari aspetti della vita”. Soprattutto negli anni ’80, anche sotto la spinta di organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale (WB), gli Stati adottarono un nuovo codice nelle loro relazioni, passando dal bilateralismo al multilateralismo, stabilendo “accordi che impegnavano un numero elevato di stati, specie su temi di natura economica… e dettero vita a un gran numero di organizzazioni internazionali, ciascuna con uno specifico mandato”. Ferrarese rileva come queste organizzazioni fossero dotate di “propri poteri e competenze (legislative, amministrative e giudiziarie), spesso assimilabili a quelle degli stati” (p .64). L’esempio più rilevante è la nascita nel 1995 della World Trade Organization (WTO), con 164 stati membri. Il WTO, nata con l’obiettivo di liberalizzare i commerci mondiali, completava con FMI e World Bank quella che veniva definitiva icasticamente la “Unholy Trinity della religione neoliberista”. In tale contesto, il mercato globale veniva concepito dai suoi fautori come una sorta di strumento di pace internazionale, che avrebbe messo in secondo piano gli aspetti strategici e militari.
In seguito, Ferrarese affronta l’analisi dei processi di finanziarizzazione dell’economia: la finanza, da tradizionale strumento necessario alla vita delle imprese e dell’economia in generale, ha acquisito progressivamente la veste di una “nuova industria, che produce nuovi rischi e poche opportunità di crescita dell’economia reale”. Dopo la fine degli accordi di Bretton Woods, negli anni ’70, si ebbe già un allentamento dei controlli sul flusso dei capitali. Ma è con la deregulation gli anni ’80 e con l’avvento della reaganomics che si aprirono le porte per una vera liberalizzazione del mercato dei capitali e l’abolizione del controllo sui cambi. La stessa Commissione Europea intravedeva in questo processo la premessa per la necessaria unificazione monetaria: la nascita dell’euro.
È proprio di questi anni la forte espansione della liquidità monetaria fluttuante sui mercati internazionali: si passa dai petrodollari dei fondi sovrani dei paesi del Golfo, ai fondi pensione USA, agli hedge funds, alle assicurazioni, alle grosse banche di affari, ai proventi del riciclaggio. La liberalizzazione finanziaria veniva vista come “un grande oceano di capitali, nel quale tutti avrebbero potuto liberamente navigare” (p.73). Le stesse imprese industriali si trovarono ad affrontare cambiamenti dimensionali (diventando gruppi di imprese) e furono oggetti di processi di M&A (Merger and Acquisition), a volte sfavorevoli. A ciò seguirono mutamenti funzionali, in cui venivano meno le funzioni tradizionali del management. Adesso erano le holding finanziarie a fornire nuove direttive strategiche e definire obiettivi e parametri di valutazione.
Missione prioritaria del management diventava allora la massimizzazione del valore a breve/medio delle azioni, non tanto la massimizzazione del fatturato, il mantenimento dell’occupazione, il livello degli investimenti in Ricerca e Sviluppo. In questo contesto, i precedenti elementi che avevano caratterizzato le relazioni industriali, come la “responsabilità sociale dell’impresa”, venivano accantonati per una visione più coerentemente privatistica. La delocalizzazione degli impianti produttivi per sfruttare il differenziale salariale, e il trasferimento delle sedi offshore, in paesi a fiscalità vantaggiosa, furono la conseguenza di questo nuovo approccio.
Molte grandi imprese, preso atto che la loro immagine veniva offuscata dalla concreta prassi di gestione, si affannarono in campagne di comunicazione in cui pubblicizzavano una propria etica di impresa presso la clientela, a puri fini di autolegittimazione (p. 84).
Ferrarese evidenzia le molte “zone oscure” di un gigantesco mercato finanziario “dedito alla speculazione e in gran parte estraneo alla vita produttiva”. Le acquisizioni di imprese concorrenti di successo non avvengono solo per aumentare una propria quota di mercato, ma anche per eliminare dei concorrenti pericolosi e godere di posizioni di semi-monopolio. Il libero mercato (in questo caso dei capitali finanziari) che avrebbe dovuto garantire efficienza dei mercati e massima utilità per i consumatori in realtà tende a produrre distorsioni macroscopiche. Le grandi imprese sono sempre più attive nei mercati speculativi, che di sovente sono ben più remunerativi della produzione di beni e servizi.
Il tutto aggravato dal fatto che ormai non c’è più un assoluto controllo della moneta (molti soggetti emettono derivati, bitcoin, crediti). “L’effetto di espansione della base monetaria è particolarmente evidente nel caso del quantitative easing e (…) nel taglio dei tassi (…), (rivelandosi) un moltiplicatore dei giochi rischiosi della finanza” (pp. 97-98).
Il grosso problema è che, “nel grande oceano di capitali” di cui si parlava prima, quelli che non sanno nuotare bene o che usano strumenti finanziari pericolosi, come i derivati, annegano miseramente, portando a fondo molti compagni di navigazione e non solo. Prima è venuto il default dell’Argentina, poi si sono succeduti via via altri collassi finanziari, fino alla grande crisi del 2008.
Ferrarese evidenzia poi i maggiori cambiamenti che, durante questo processo, sono stati imposti alle tradizionali istituzioni dello Stato. Negli anni ’70 e ’80, lo Stato veniva raffigurato come una sorta di potere rapace con le sue imposizioni fiscali e la sua maggiore influenza di policy: si preconizzava allora uno Stato “minimo”, regolatore sì, ma market friendly. Iniziò così il fenomeno delle privatizzazioni, la deregulation e il soddisfacimento di istanze federaliste.
Oggi assistiamo a due effetti paradossali: il primo è che “proprio sotto l’egida delle teorie monetariste, si sia avuta un’espansione della massa monetaria mai vista. Un secondo paradosso sta nel fatto che quelle banche centrali, che dovevano controllare l’espansione della moneta, hanno contribuito a espanderla” (p. 98).
Infine si è verificata una proliferazione di derivati finanziari che, secondo diverse fonti, supera oggi di 10 volte l’intero PIL mondiale. I tentativi di porre delle regole all’emissione di derivati, dopo la crisi del 2008, sembrano falliti: “la corsa tra innovazione e regolamentazione finanziaria è senza fine, con la seconda sempre indietro alla prima. Si innova anche per sfuggire alle regole e si fanno nuove regole per coprire le falle aperte dall’innovazione (…). La crescente complessità dei prodotti finanziari (…) è parte di una strategia tesa a rendere sempre più opachi e impenetrabili quei mercati (…) persino per gli organismi di controllo” (p. 128).
Il mondo della finanza appare sempre più autoreferenziale, soprattutto per la complessità delle sue strutture e dei suoi prodotti. Per trattarli, sono necessarie competenze sempre più specialistiche e sempre meno “utili” ai fini produttivi, ma che determinano i destini finanziari e occupazionali dei molti malcapitati, sfuggendo a ogni controllo esterno.
Oggi settori come fintech, IT, data analytics e servizi online non hanno bisogno di vere strutture produttive, ma di uffici e di server, che non devono essere posseduti, ma affittati e collocati ovunque : “il patrimonio che conta per queste imprese è largamente intangibile: il marchio e la reputazione dell’impresa, le competenze e le abilità delle persone che lavorano per essa” (p. 142). “Inoltre le imprese (non solo quelle dell’IT, NdA) tendono a sottrarsi sempre più agli obblighi fiscali (…) data la completa libertà con cui le imprese possono scegliere la sede che più conviene” (p. 143).
Conclusioni dal testo di Maria Rosaria Ferrarese
Non solo ombre, ma anche luci: una maggiore integrazione economica mondiale ha anche permesso a centinaia di milioni di persone di uscire dalla fame e dalla povertà come in Cina e in India. Inoltre, ha consentito l’accesso ai consumatori occidentali a prodotti importati a basso costo. Ha permesso ad alcune aziende di delocalizzare, creando margini più ampi di profitto.
Naturalmente, i benefici economici non devono eclissare i pericoli di una crisi potenzialmente esplosiva di cui quella del 2008, seppur grave, rischia di apparire solo un episodio marginale. L’Europa, per esempio, ha cercato di innescare dei parziali correttivi, che tuttavia rischiano di essere “solo parziali maquillages, che lasciano il mondo in una situazione economica ancora precaria”.
Se le politiche economiche europee hanno cercato da un lato di stabilizzare l’inflazione, dall’altro hanno indotto stagnazione economica, disoccupazione (basti pensare alla curva di Phillips) e pericolose tendenze deflattive, nel breve termine. Mentre l’Unione Europea impone alcune regole agli stati-membri “più indisciplinati”, sostenute dai “rigoristi del deficit” del Centro-Nord Europa, non sembra essere abbastanza legittimata sullo stesso fronte a contenere i danni di potenziali instabilità e speculazioni finanziarie su larga scala.
E veniamo alle “promesse mancate”. Alcuni obiettivi promessi dalla liberalizzazione finanziaria e dei mercati, che si è affermata a partire dagli anni ’80, sono stati in gran parte disattesi: il trickle down effect sui redditi delle classi medio-basse non è avvenuto; non sì è affermata la concorrenza tra le imprese, ma sono aumentati i trust e gli oligopoli, con conseguenti rendite di posizione per le imprese e di perdita di efficienza per i consumatori; si è demonizzato il debito pubblico, mettendo a rischio i livelli di welfare precedenti, mentre ha trionfato quello privato (vedi derivati).
Maria Rosaria Ferrarese conclude dicendo che “oggi i dati della disuguaglianza sociale smentiscono clamorosamente l’idea che la ricchezza segua le leggi di gravità” (p. 186). La ricchezza non scivola verso il basso della scala sociale, ma rimane ben incollata laddove viene generata, acuendo la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. E mentre oggi si chiede sempre maggiore trasparenza allo Stato e alla classe politica, la finanza dimostra una pervicace opacità e sembra sfuggire ad ogni controllo.

Fonte: pandorarivista.it

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.