La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 1 aprile 2017

La grande truffa del welfare aziendale

di Marco Vulcano
Seppure incentrato sull’ascesa di nuovi astri nascenti e fenomeni politici, generalmente bollati con l’etichetta ideologica e poco significativa di “populismi”, il dibattito sull’Unione Europea ha ormai assunto, anche in Italia, una centralità inedita e impensabile fino a qualche tempo fa. Tuttavia, si tratta quasi sempre di una discussione che finisce ancora prima di cominciare, articolata con modalità da tifo politico organizzato e polarizzata perlopiù sul tema “euro si-euro no”. Poco o nulla vengono analizzate in concreto le conseguenze che le politiche economiche perseguite dall’UE comportano, a partire da ciò che interessa le fasce sociali subalterne, ovvero la parte di società più consistente.
Per farlo, non c’è probabilmente esempio migliore del caro e vecchio stato sociale, vittima sacrificale prediletta dell’onda anomala di restrizioni e tagli dei trasferimenti alle Regioni e ai Comuni imposti dal patto di stabilità e dal pareggio di bilancio, che il governo Monti ha fatto in modo di scolpire, a monito perpetuo circa la severa (pre)potenza dei “mercati”, persino nella Carta Costituzionale.
Al grido di “ce lo chiede l’Europa”, a fronte di aumentati bisogni sociali, crescita della disoccupazione, nascita di nuove povertà e una popolazione progressivamente più invecchiata – dunque più bisognosa di servizi – i vincoli di bilancio stanno via via decretando un po’ ovunque e particolarmente nel Bel Paese un sensibile ridimensionamento circa l’offerta pubblica dei servizi di welfare, con il risultato di avere cittadini sempre più smarriti, soli e costretti, soprattutto nel Mezzogiorno, a rinunciare ai servizi a causa di costi eccessivi e inefficienze. Una scelta netta: tra l’austerità economica cara a Bruxelles o il mantenimento di un livello di servizi pubblici dignitoso, tra la rigorosa osservanza dei pareggi di bilancio e un livello di investimenti pubblici in grado di assicurare un welfare universale, tra il rispetto dei conti UE e quello per la società e gli individui. Tertium non datur.
Eppure, non è dato sapere se per miopia politica o in omaggio al Manzoni e alla proverbiale mancanza di coraggio del suo Don Abbondio, icona di italianità al punto da meritare la magistrale interpretazione del grande Alberto Sordi, le politiche nazionali in tema di welfare sono essenzialmente improntate alla non scelta, favorendo la comparsa sulla scena di una terza via: il welfare “aziendale” o “contrattuale”. Una soluzione che, da un lato, permette, appunto, non scegliere; dall’altro rischia di aumentare disparità e diseguaglianze.
Si tratta, sostanzialmente, di quel fenomeno in cui le imprese si impegnano direttamente e in modo attivo per assicurare ai propri dipendenti – a volte anche famigliari compresi – alcune prestazioni sociali, spesso in termini di forme di protezione per i lavoratori in seguito ad accordi sindacali, collettivi o decentrati.
Il livello aziendale è in realtà teatro di sperimentazioni welfaristiche da diverso tempo, basti pensare al caso della Olivetti o all’Eni di Enrico Mattei, ma è solo negli ultimi due decenni che la diversificazione della domanda di prestazioni sociali, accompagnata all’entrata in crisi definitiva del modello tradizionale-fordista e del ruolo dello Stato come unico titolare delle politiche sociali, ha fatto segnare una rapida estensione di questa nuova pratica, nel tentativo di disegnare anche nuove relazioni industriali.
Come data simbolica di origine del fenomeno in Italia si assumono generalmente le riforme del sistema pensionistico e sanitario degli anni Novanta, con l’istituzione dei fondi pensione (d.lgs. 124/1993) e di quelli sanitari (d.lgs.229/1999, contenuti nella cosiddetta “riforma Bindi” ma già delineati nelle leggi n. 917 del 1986 e n. 502 del1992). Tuttavia, l’attivismo imprenditoriale è arrivato a coprire nel corso dell’ultimo quindicennio molti altri campi, dagli interventi per favorire la conciliazione tra attività di cura e lavoro (asili nido aziendali, forme di particolare flessibilità negli orari di lavoro) fino ai fondi di solidarietà per alcune categorie non tutelate da ammortizzatori sociali. Il motivo è semplice: le compagnie assicurative che ottengono la fornitura dei servizi un tempo appannaggio esclusivo dello Stato ringraziano, mentre le imprese possono utilizzare questi interventi come una forma di salario indiretto, di cui solo una parte è a carico dell’azienda e il resto grava sulla fiscalità generale. Non a caso Confindustria e Confcommercio, non prima del dicembre 2015, hanno presentato una proposta congiunta per favorire l’accesso ai fondi sanitari da parte dei cittadini regolando diversamente l’integrazione dei fondi con la sanità pubblica.
I governi sembrano recepire in modo oltremodo positivo queste suggestioni, tant’è che le ultime due leggi di stabilità sanciscono in modo esplicito una certa predilezione per questa tipologia di protezione sociale, sia tramite incentivazione fiscale di interventi di welfare in luogo del salario in moneta, sia con la decisione di concedere alle parti sociali di poter negoziare le prestazioni sociali come un importante elemento della contrattazione sindacale decentrata. Manca del tutto da parte governativa, ma non solo, una riflessione su quelli che sono le contraddizioni irrisolte – e forse irrisolvibili – del welfare aziendale. La progressiva sostituzione dello Stato con l’impresa nella fornitura di interventi di protezione sociale, se non arginata e ragionata a dovere, può infatti produrre un disastroso effetto di cumulo dello svantaggio, dove chi sta meglio (o è semplicemente più tutelato sul lavoro) avrà di più in termini di assistenza e prestazioni sociali, mentre chi sta peggio vedrà peggiorare la propria situazione.
È persino troppo facile prevedere che i lavoratori del Nord, maggiormente caratterizzato da grandi aziende strutturate, possono ricevere trattamenti migliori dei loro colleghi al Mezzogiorno, dove una tale presenza industriale scarseggia, così come è nell’ordine delle cose la creazione di un dualismo contrattuale tra dipendenti e precari, o tra lavoratori di grandi aziende e quelli di piccole realtà, difficilmente in grado di contrattualizzare prestazioni sociali integrative. Per non parlare poi dell’inevitabile privazione di servizi destinata agli inattivi, ai disoccupati, ai precari e a tutti quelli che sono usciti dal ciclo produttivo, tendenzialmente anziani e dunque anche più bisognosi di interventi.
In buona sostanza, una guerra tra poveri che vedrà contrapposti i lavoratori più fortunati a tutti gli altri, con un enorme aumento delle diseguaglianze.
Difficile al momento capire se i governi (il plurale, dato che si parla di una tendenza di medio periodo, è obbligatorio) pensino sul serio di poter ovviare alla riduzione dello stato sociale universale ancorando il welfare al lavoro. L’aziendalizzazione delle prestazioni sociali in Italia, seppure in crescita, si attesta infatti ben al di sotto delle previsioni, risultando oltremodo lontana dai numeri del Nord Europa e della Germania. Certo, la crescita degli iscritti ai fondi pensionistici – passati dal milione e mezzo di fine anni novanta ai 6,5 milioni del 2014, secondo i dati forniti dalla Covip (la commissione di vigilanza sui fondi pensione) – e sanitari – aumentati da 1,4 milioni a 6,9 milioni nel 2013, con oltre 5 milioni di lavoratori dipendenti – non autorizza a derubricare il fenomeno a fatto sociale insignificante, ma nemmeno permette di nominarlo “stato sociale di nuova generazione”.
Del resto è comprensibile: le imprese italiane, nella grande maggioranza dei casi medie, piccole o piccolissime, risentono particolarmente degli effetti della crisi e difficilmente possono permettersi di contrattualizzare interventi di welfare. Inoltre la progressiva espulsione dal ciclo produttivo di crescenti masse lavoratrici, provocata da quella che alcuni definiscono la quarta rivoluzione industriale, lascerebbe di fatto senza welfare un numero imprecisato ma enorme di persone.
Continuiamo a privilegiare l’esclusione, invece dell’inclusione?

Fonte: ribalta.info

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