La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 marzo 2017

L'aumento del tempo di lavoro nell'epoca della sua riducibilità tecnica

di Fabrizio Fassio e Giuseppe Nicolosi
Alla fine degli anni '60 l'Hudson Institute2 realizzò un'indagine che si avventurava nella previsione della società del 2000. L'Hudson è una filiazione diretta della Rand Corporation, un centro di ricerca celeberrimo, in origine specializzato soprattutto in previsioni militari. Fu Herman Kahn, uno dei fondatori dell'Hudson, e uno dei più celebri futurologi del secolo scorso, a presentare un rapporto di circa mille pagine sulla struttura della società del 2000. Un lavoro di futurologia estremamente raffinato che finì sul tavolo dei più importanti politici di quel periodo. Dalla sintesi dei risultati principali dell'indagine, presentata per punti, vale almeno citare i seguenti.
1. Le imprese private non saranno più il crogiuolo principale dello sviluppo tecnico scientifico.
2. Le leggi di mercato avranno senza dubbio un ruolo inferiore a quello del settore pubblico e dei fondi sociali.
3. Lo scarto, in una società post-industriale, tra redditi alti e bassi sarà inferiore a quello che osserviamo oggi nella società industriale3.
Le cose, come sappiamo bene, sono andate assai diversamente, si potrebbe quasi dire del tutto "al contrario". Valga soltanto ricordare che oggi:
1) le imprese private si muovono autonomamente e senza alcun controllo in settori di ricerca scientifica e tecnologica che solo vent'anni fa un paese democratico avrebbe considerato impensabile affidargli. Si pensi, ad esempio, alle nanotecnologie, all'ingegneria genetica o ai Big Data.
2) Le leggi di mercato, contrariamente alle previsioni dell'Hudson, sono considerate ormai vere e proprie leggi di natura, dalle quali nessuno può derogare.
3) Le diseguaglianze tra redditi alti e redditi bassi, sia a livello planetario che nelle singole nazioni, sono aumentate spaventosamente negli ultimi trent'anni.
Se dunque queste profezie sono state sistematicamente disattese, cosa dire delle previsioni dell'Hudson Institute in materia di riduzione dell'orario di lavoro? Ecco qui: Fra trent'anni, quando l'America sarà già allo stadio "post-industriale" il reddito pro-capite sarà di 7.500 dollari, la settimana lavorativa sarà ridotta a quattro giornate di sette ore; l'anno si dividerà in 39 settimane lavorative e tredici settimane di ferie, in modo che, calcolando i fine settimana e i giorni festivi, si avranno centoquarantasette giornate lavorative all'anno e duecentodiciotto giorni liberi dal lavoro. E questo dovrà avverarsi tra una generazione. (in Servan-Schreiber, Cit.)
Chi abbia una qualche idea del dibattito che s'è svolto recentemente su testate come il New York Times sulle condizioni in cui versano i lavoratori di un gigante della logistica come Amazon o, peggio, di un colosso dell'assemblaggio elettronico come Foxconn, resterà impressionato dalla distanza astrale tra il roseo scenario che l'Hudson Institute aveva disegnato per il 2000 e la drammatica realtà lavorativa del 2016 4.
Questi due giganti dell'economia mondiale, esaminati da alcuni talenti del giornalismo investigativo, si sono rivelati degli autentici inferni per i loro dipendenti. Se Amazon è stata paragonata recentemente ad una caserma, il gigante taiwanese che assembla gli I-Phone di Apple ha problemi decisamente più seri e gravi, con orari lavorativi di dieci ore sia di giorno che di notte e un tasso di suicidi fra i lavoratori più alto del mondo. In un caso come quello della profezia mancata dell’Hudson Institute, ciò su cui occorre interrogarsi non è l'errore di previsione in quanto tale ma, piuttosto, la possibilità che infine di vero errore non si tratti. Sarebbe utile chiedersi, insomma, se il fatto che gli scenari idilliaci proposti dall'Hudson Institute per il 2000 siano velocemente transitati dal regno della previsione a quello dell'irrealizzabile utopia politica sia dovuto soltanto agli accidenti della storia e ai limiti della previsione o piuttosto, a precise scelte di ordine economico e politico sopraggiunte nel frattempo. Potrebbe darsi il caso che l’enfasi in merito ad un futuro così radioso svolgesse in quegli anni anche una funzione di rassicurazione politica, una seducente promessa di futuro ammannita abilmente nel contesto delle tensioni sociali e geopolitiche di quel periodo. Ma l’opera di Khan è circondata da un’aura di rispetto, basti pensare che una pregevole antologia del pensiero filosofico e scientifico del Novecento si chiude con le opere di due futurologi: Alvin Toffler e, appunto, Herman Kahn5 . Tenendo conto del fatto che l’Hudson Institute è considerato ancora ai nostri giorni un centro di ricerca di eccellenza, le spiegazioni dell’errore devono essere altre.
Kahn nelle sue previsioni si era ispirato alle teorie del sociologo statunitense Daniel Bell, ideatore di concetti come quelli di post-industriale o quello di società dei servizi. Il ragionamento di Bell sulla riduzione dell’orario di lavoro era fondato, in larga parte, sulla previsione degli effetti della crescente automazione. Bell, ancora nel 1979, in una conferenza di manager tenuta presso il castello di Windsor e intitolata Le previsioni di mutamento della società nei prossimi trent’anni 6 indicava nel suo intervento: «la possibilità per la prima volta, di automazione su larga scala, tramite macchine utensili a controllo numerico e tramite i micro-elaboratori». Nel corso dei nostri studi e lavori abbiamo esaminato una serie di previsioni estremamente puntuali e lungimiranti sugli sviluppi dell’automazione, spostandoci dal Frammento di Marx, alle considerazioni di Bertrand Russell, di John Maynard Keynes, di Norbert Wiener, di Robert Theobald. Con accenti diversi questi studiosi hanno segnalato la progressiva sostituzione del lavoro umano, fisico e mentale, ad opera delle macchine. Perfino in Italia, Roberto Guiducci in un articolo uscito nel 1955 sulla Rivista Pirelli sosteneva che: In sostanza, mentre la seconda rivoluzione industriale iniziò la liberazione dell'uomo dalla fatica fisica bruta, la terza potrà concludere la seconda e di più, iniziare la liberazione dell'uomo dalla fatica intellettuale bruta, burocratica e, come già si dice "meccanica” (...)7
Dopo l’esplorazione di una letteratura del genere abbiamo provato un certo stupore quando ci siamo imbattuti, leggendo il recente libro di Riccardo Staglianò Al posto tuo, nel passo che riportiamo di seguito: Le macchine hanno sempre rimpiazzato gli uomini, prima lo facevano con i colletti blu. Ora sostituiscono il lavoro dei colletti bianchi 8.
L'argomento della sostituzione del lavoro intellettuale da parte dei calcolatori viene affrontato dal brillante giornalista de La Repubblica con un certo sensazionalismo, come si trattasse della novità dell'anno. Anche in un importante e recente articolo sull’automazione del saggista inglese John Lanchester abbiamo incontrato un'affermazione dallo spirito del tutto analogo, quella di seguito: Siamo già abituati all'idea che il compito degli operai alla catena di montaggio di una fabbrica prima o poi sarà completamente automatizzato, ma siamo meno abituati a pensare che il lavoro degli impiegati, degli avvocati, degli analisti economici, dei giornalisti e dei bibliotecari possa essere svolto da un automa9.
Si ha l'impressione che, a distanza di oltre mezzo secolo dalle prime, chiare, autorevoli ed esplicite visioni degli scenari che si andavano delineando (e che oggi sono in gran parte realizzati), si rimanga ancora storditi dalla sorpresa, quasi incapaci di prendere atto della realtà e di trarne le logiche conseguenze. La difficoltà nel vedere le prospettive dei processi di automazione delle operazioni d'ufficio e di altre importanti attività mentali è stata, tra l’altro, un tratto caratteristico dei dirigenti politici e sindacali della sinistra italiana. Siamo ancora nel 1986 quando Giulio De Petra, uno dei più acuti e sensibili interpreti del lento percorso di penetrazione dei computer nell'amministrazione pubblica italiana, inascoltato, scriveva: Grande attenzione è stata dedicata all'analisi della progressiva automazione dei processi produttivi all'interno della fabbrica. (…) Di conseguenza è stato abbastanza agevole analizzare e studiare i fenomeni di automazione relativi al lavoro operaio, e quindi aggiungere alle precedenti conoscenze quelle relative alla 'robotizzazione' , al 'sistema informativo di processo' etc. Nulla di tutto ciò è avvenuto per l'altra grande area di applicazione che abbiamo definito col termine 'ufficio'. (…)Di questo lavoro, delle sue caratteristiche, delle modalità con cui si svolge, e quindi sugli effetti che su di esso produce l'utilizzo della tecnologia informatica, poco sappiamo10.
Prese nel loro insieme, queste osservazioni rivelano quale sia differenza tra una capacità di previsione politica di lungo periodo, che apre ad orientamenti di carattere generale, e un vivere alla giornata che conduce, nella migliore delle ipotesi, a un tatticismo logorante e privo di respiro, nella peggiore, alla bancarotta politica. La riduzione progressiva del lavoro operaio in fabbrica determinata dall'automazione era certo un fatto empirico, con cui ci si scontrava quotidianamente, ma il fenomeno generale dell'automazione era invece un problema politico di lungo periodo, con cui ci si sarebbe dovuti misurare in termini di prospettiva, di progetto e di programma. Questo pone, peraltro, dei seri problemi riguardo gli effetti che tali processi, non visti o rimossi, hanno avuto nelle dinamiche sociali e lavorative degli ultimi decenni e continuano ad avere ai nostri giorni.
Se dunque, l'idea che la società del 2000 sarebbe stata economicamente equa e in gran parte libera dalle ossessioni del lavoro e della disoccupazione, non era dettata solo da ingenuo ottimismo o da interesse politico, ma dai metodi scientifici di previsione dell'Hudson Institute, come mai non si è realizzata? Perché siamo passati dai “domani che cantano” prospettati dall’Hudson agli inferni delle fabbriche taiwanesi?
L’antropologo David Graeber s'è fatto la stessa domanda e, riprendendo un famoso discorso di Keynes11, in cui il grande economista inglese aveva previsto che avremmo finito per lavorare, tutti, non più di tre ore al giorno, ha scritto: Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo. Messi davanti alla scelta tra meno ore di lavoro e più giocattoli e piaceri, abbiamo collettivamente scelto i secondi. Il che porterebbe con sé anche una morale simpatica, non fosse che basta riflettere un attimo per capire che non può essere così12.
Dietro l'intelligente battuta di Graeber, secondo la quale abbiamo deciso collettivamente di preferire più giocattoli, si nasconde un problema teorico immenso che ricompare ogni volta che si affronta il tema dell'estinzione del lavoro: quello del rapporto tra bisogni e desideri. Un problema che investe le culture, i sistemi di valori, l'idea scientifica e filosofica che abbiamo riguardo cosa sia l’interesse e cosa sia il piacere. Già Marx, aveva sostenuto in un famoso passo dell’Introduzione a per la critica dell’economia politica13, come l'innovazione non si limiti a soddisfare bisogni, ma ne crei in continuazione di nuovi.
Ma fino a quando la moltiplicazione dei bisogni può costituire un motore dell'economia? Marx notava, con il consueto acume, che tra la fame che agguanta la carne con le unghie e la fame che mangia con forchetta e coltello c'è una notevole differenza. In entrambi i casi, abbiamo a che fare con il medesimo bisogno di base, di carattere alimentare (la fame) che viene però declinato "culturalmente" in due modalità differenti.
Oggi, tuttavia, nelle tavole imbandite dell'occidente non ci sono solo la forchette e il coltello ma una varietà infinita di ammennicoli: dal microonde, allo spremiagrumi, all'affettatrice. Solo per stappare una bottiglia di vino sono state inventate e prodotte almeno sei o sette varietà diverse di cavaturaccioli.
In un pianeta in cui oltre un miliardo di persone vive con meno di due dollari al giorno, incontrando enormi difficoltà nel soddisfare i bisogni di base, è eticamente inaccettabile questa apologia delle differenze nel nome del superfluo. Né si può pensare seriamente che sul superfluo si possa fondare un progetto di economia.
Nessuno contesta che, tra le prerogative dell'umano, vi sia la capacità di passare dal mero bisogno al desiderio. Non di rado, come è stato detto, desideriamo ciò di cui non abbiamo bisogno e abbiamo bisogno di ciò che non desideriamo14. Ma questo gioco non può spingere il mercato all'infinito come sostengono i neoliberisti.
Quella che André Gorz ha definito la "produzione del consumatore"15 e che trova la sua principale forma di espressione nella pubblicità commerciale, finalizzata alla moltiplicazione dei bisogni, ha da molto tempo sorpassato ogni interpretazione realistica riguardo i suoi scopi e le sue plausibili funzioni sociali. Oramai la pubblicità è puramente "tautologica" ed esalta più i marchi che i prodotti. Naomi Klein ha sviluppato in “No Logo” una tesi sull’argomento a nostro giudizio estremamente puntuale. In quel libro del 2000, definito da molti come la bibbia del grande movimento di protesta nato a Seattle, la giornalista canadese è riuscita a cogliere con precisione la dimensione surreale che i marchi commerciali hanno da tempo raggiunto: Secondo il vecchio paradigma, il marketing consisteva soltanto nel vendere un prodotto. Nel nuovo modello, invece, il prodotto passa sempre in secondo piano rispetto al vero prodotto, ossia il marchio, e la vendita del marchio acquista un'ulteriore componente che può essere descritta solo come 'spirituale'. La pubblicità reclamizza i prodotti. Il branding, nelle sue incarnazioni più autentiche e avanzate, è un'operazione di superamento dei confini aziendali16.
Anche lo studioso di comunicazione Nicholas Mirzoeff nella sua Introduzione alla cultura visuale ha mostrato con argomenti convincenti come la costruzione che oggi sostiene molte attività di branding sia di carattere quasi esclusivamente simbolico: Uno degli esempi più sorprendenti di questo processo è la vita quasi autonoma di certi marchi aziendali, come lo swoosh della Nike o gli archi dorati di McDonald's, che risultano inevitabilmente leggibili in qualunque contesto si incontrino. Il legame tra lavoro e capitale è perso nell'abbagliante luce dello spettacolo. Nella società dello spettacolo si vende lo sfrigolio piuttosto che la bistecca, l'immagine piuttosto che l'oggetto17.
E’ evidente che questa svalutazione del prodotto nel nome dell'esaltazione del marchio si riesce a spiegare solo con l'aiuto della lente interpretativa dell'automazione. È quando il valore d'uso tende a perdere ogni rapporto credibile con il valore di scambio che diventa indispensabile puntare tutto sul “significato” del brand.
Dal momento che non è possibile dimostrare, nei fatti, che una borsa firmata è migliore della copia “taroccata” che costa un decimo del prezzo ufficiale, l’organizzazione economica, oltre a stigmatizzare i venditori ambulanti di merce “tarocca” come fossero temibili tagliagole, tende a invadere e a colonizzare “territori” che una volta appartenevano alla religione (la spiritualità e il significato) o alla politica (la costruzione di un rapporto speciale con i consumatori). La produzione dei bisogni non cresce più verticalmente, in modo incrementale, dal somaro alla motocicletta, come vorrebbe la vulgata neoliberista, ma bensì orizzontalmente, tentando di invadere e monetizzare valori che per millenni sono stati considerati “impagabili” come la fede religiosa o politica, l'amore per la propria comunitào la passione per l'arte.
Queste le ragioni per cui, tornando a Graeber, è bene tagliar corto: quale che sia la nostra idea sui bisogni umani e sul come declinare la loro produzione e la loro soddisfazione, per spiegare il paradosso dell'aumento del tempo di lavoro nell'epoca della sua riducibilità tecnica non ci si può rifare alla famose massima, attribuita al miliardario Gordon Gekko, secondo la quale “vince chi muore con più giocattoli”. I bisogni non si riproducono all'infinito come amano sostenere i mastri cantori della crescita illimitata dei mercati e quindi del lavoro.
Graeber, nella conclusione del suo ragionamento sul mancato inveramento della profezia di Keynes, fornisce inizialmente una lettura di carattere storico: non c'è stata un'intenzione esplicita, ma una serie di circostanze che hanno condotto alla situazione attuale. Scrive infatti David Graeber: Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio. I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente. Gli altri si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla, e che ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori eccetera) – in particolare con le loro personificazioni economiche – ma che al tempo stesso covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale (Graeber, Cit.).
Risulta particolarmente utile, per comprendere meglio come si sia arrivati a questo punto, un breve cenno all'ultimo libro uscito in Italia di Graeber, intitolato, nella versione originale “l'utopia delle regole” e tradotto in italiano con il titolo di Burocrazia. Come abbiamo già accennato, Graeber sostiene che è in corso un processo di proliferazione di lavori inutili, particolarmente in ambito burocratico-amministrativo. Quel che l'ultimo libro aggiunge a questo argomento è una geniale descrizione di come stati nazionali e mercati agiscano di concerto nel costruire il meccanismo che alimenta il lavoro inutile. Graeber, rivelando le terribili conseguenze di un pervicace malinteso, mostra in questo libro che, contrariamente a quanto molti credono, lo stato non è l'ostacolo alla libertà del mercato, ma in molti casi il formidabile alleato del mercato nella produzione di un'economia fittizia: Tanto per cominciare, il liberismo inglese non ha portato a una riduzione della burocrazia statale. Anzi, è stata la proliferazione di consulenti legali, cancellieri, ispettori, notai e funzionari di polizia a rendere possibile il sogno liberale di un mondo di liberi contratti tra individui autonomi18.
Pensiamo, per non fare un esempio a caso, al mercato del lavoro: la proliferazione di nuove tipologie di contratti di lavoro, fortemente voluta dai governi neoliberali, in nome della libertà di vendere e comperare forza lavoro, ha determinato un'evidente complicazione dell'intero sistema di regolazione del lavoro, con un'immensa produzione di scartoffie di nuovo tipo.
Si gonfia in tal modo l'area di intermediazione, la zona di interfaccia tra lavoratori (o aspiranti tali) e datori di lavoro, con la moltiplicazione di tecnici esperti di legislazione del lavoro, una nuova modulistica, la necessità di creare nuovi sistemi informatici per la valutazione e il computo dei contributi assistenziali e così via. Si dirà che si tratta semplicemente del prezzo da pagare per una maggiore libertà di scelta. A quanto pare, non la pensano così i diretti interessati, basti guardare le mobilitazioni di protesta che si accompagnano ad ogni Jobs act di questo mondo: si direbbe che ad ogni nuovo balzo di tigre del diritto del lavoro (jobs act e dintorni), segua una riduzione dei diritti dei lavoratori. In un caso del genere, secondo il modello suggerito da Graeber, stati e mercati, due apparati astutamente rappresentati come antagonisti dalla fanfara neoliberista, di fatto lavorano in coppia per obiettivi simili. Anche quanti, assai più realisticamente, vedono stato e mercato come entità complementari, in cui il primo dovrebbe avere soprattutto un ruolo di controllo e orientamento del secondo, si trovano a dover ammettere che lo stato spesso subordina il suo operato agli obiettivi di un capitale che oramai condiziona e ridisegna i mercati come e quando vuole. E nel clima di generale riduzione del lavoro necessario provocata dall'automazione questa profittevole divisione dei compiti tra impresa e stato raggiunge il suo acme: l'impresa continua a fare profitti attraverso gli aumenti di produttività e la riduzione del personale, lo stato e i partiti si occupano di ideare contratti leggeri e di redistribuire i lavoretti inutili che questo sistema genera, filtrando abilmente l'accesso ad essi non certo su criteri meritocratici ma in base al consenso politico.
Gli imprenditori potranno scegliere tra lavoratori a tempo, lavoratori in coppia, lavoratori a progetto, mentre lo Stato potrà selezionare dai partiti nuovi burocrati per i suoi centri per l'impiego, nuovi legislatori per adattare le leggi sulla sicurezza del lavoro alle nuove tipologie contrattuali, nuovi amministrativi per contabilizzare i contratti delle colf o quelli del job on sharing, nuovi appalti alle solite società di software per gestire il flusso dei nuovi dati.
Contro tutto questo sosteniamo, senza riserve, una riforma che conduca in tempi brevi a un Reddito di Cittadinanza universale e incondizionato.

Note:
1. Il presente articolo conlcuso nel dicembre 2016 è ricavato da un lavoro di sintesi e ricomposizione di alcune parti di un libro in progress di Fassio e Nicolosi intitolato I visionari che sarà in libreria nei primi mesi del 2017.
2. Fondata nel 1961 dallo stratega Herman Kahn, l’ Hudson Institute sfida il pensiero convenzionale e aiuta a gestire le transizioni strategiche per il futuro attraverso studi interdisciplinari su difesa, relazioni internazionali, economia, assistenza sanitaria, tecnologia, cultura e leggi.
3. Ampi stralci del documento dell’Hudson sono contenuti in: Jean Jacques, ServanSchreiber, La Sfida Americana, ETAS KOMPASS, Milano, 1968. (Testo che vanta una pregevole introduzione di Ugo La Malfa).
4. Si veda ad esempio: http://www.nytimes.com/2012/01/26/business/ieconomy-
apples-ipad-and-the-human-costs-for-workers-in-china.html e, soprattutto:
http://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/5650-benedetto-vecchi-il-
biopotere-che-scorre-su-amazon.html .
5. Novecento filosofico e scientifico: protagonisti a cura di Antimo Negri. - Settimo Milanese: Marzorati, [1991]. - 5 v. : ill. ; 25 cm.
6. Industrie Pirelli, 1° Rapporto su: Le previsioni di mutamento della società nei prossimi trent’anni, St. Geoge’s House, Windsor Castle, 14th-16th February 1979. Quaderno di formazione riservato alla diffusione interna, 30 Dicembre 1979.
7. Roberto Guiducci, Che cos’è la cibernetica?, Rivista Pirelli, 1953, n. 5.
8. Riccardo Staglianò, Al posto tuo, Giulio Einaudi Editore, 2016
9. John Lanchester, Il capitalismo dei Robot, Internazionale, 27 Marzo / 2 Aprile
2015, numero 1095.
10. Il testo di Giulio De Petra è tratto da: Marco Melotti (a cura di), Macchine e Utopia (Convegno-dibattito su La rivoluzione tecnologica presso il Comitato di quartiere Alberone, Roma, 1984-85), Edizioni Dedalo, 1986.
11. John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, Adelphi, 2009.
12. David Graeber, Il secolo del lavoro stupido, Internazionale, n.1023.
13. Karl Marx, Introduzione alla critica dell'economia politica, Roma, Edizioni Rinascita, 1954
14. Riccardo Venturini, Coscienza e Cambiamento, Cittadella Editrice, 1995
15. André Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, 1998.
16. Naomi Klein, No logo, Baldini, Castoldi, Dalai, 2000.
17. Nicholas Milzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Universale Meltemi, 2002.
18. David Graeber, Burocrazia, Il Saggiatore, 2016.

Fonte: bin-italia.org 

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