La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 marzo 2017

Giustizia fai da te: la fuga dalle responsabilità

di Rosa Rinaldi
Recentemente, a Perugia, si è tenuto un convegno dal titolo “Giustizia o Vendetta, il caso di Vasto” che ha visto gli interventi di noti giuristi, psicologi e psicoterapeuti, organizzato dalla scuola di psicoterapia Kairos in collaborazione con l’associazione Progetto Donna e Lidu (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo). Il titolo del convegno prendeva spunto da un tema socialmente molto caldo e assurto agli onori delle cronache in relazione ai recenti fatti di Vasto, in cui, ricordiamolo, un uomo decide di far giustizia da sé e uccide l’investitore di sua moglie, sulla tomba della quale fa ritrovare l’arma del delitto poco prima di costituirsi.
Com’era prevedibile, il fatto ha scatenato fazioni e pareri avversi nell’opinione pubblica, grazie anche alla facilitazione offerta dai social networks (cartine di tornasole formidabili per sondare, a caldo, percezioni sociali e reazioni emotive), un’opinione pubblica sempre più immediata e meno inibita, anche se poche volte (leggi pure quasi mai) ben informata e consapevole.
In realtà quello che emerge è un pubblico che, per quanto variegato, è accomunato dal reagire davanti ai fatti di cronaca violenti e cruenti non tanto sulla base di un moto di indignazione o empatia, quanto sulla base di un (malsano) voyeurismo d’attrazione che lo rende, al tempo stesso, emotivamente partecipe ed estraneo al fatto in questione. Il professore Fabio Sbattella (Psicologia delle emergenze, Università. cattolica di Milano) descrive, infatti, il rapporto di violenza come triadico: oltre al prevaricante-prevaricato vi è sempre l’apporto essenziale dello spettatore, lo spectator delle arene romane. Lo spettatore che osserva senza partecipare, attratto dalla violenza per motivazioni varie: per ribadire la distanza tra sé e l’Altro-violento («io sono diverso»), provando piacere per la sua repulsione; oppure perché spinto da attrazione-ammirazione verso la violenza, forse per un istinto ancestrale della pulsione di morte (tanathos); oppure, ancora, semplicemente, per immedesimazione con la vittima o con l’autore della violenza. Un buon indicatore di quanto detto sono le migliaia di condivisioni e visualizzazioni di prodotti mediali presenti in Rete che mostrano episodi di bullismo, violenza, sopraffazione, derisione, offese su persone e animali, spesso riprodotti e reiterati in forme imitative (per cui si raccomanda di non diffondere contenuti violenti in Rete, appunto per evitare “suggerimenti”). Per non parlare dell’attrazione che la filmografia violenta o del dolore esercita anche su animi miti…
Altra riflessione, che si collega alla precedente, riguarda un malsano senso di deresponsabilizzazione sempre più diffuso: per esempio, per tornare al caso di Vasto, non è raro raccogliere nell’opinione pubblica dichiarazioni che ridimensionano, fino a nullificarla, la responsabilità stradale dell’omicida da strada («a tutti capita di passare con il rosso»), riuscendo a utilizzare la mancanza di aggravanti come se fossero attenuanti («il ragazzo non aveva bevuto o fumato», «non è neppure scappato»). Anzi, a rovescio, la responsabilità spesso è addossata alla stessa vittima («se sei incinta devi essere prudente», oppure «la donna guidava con il casco slacciato», cosa poi verificata come non vera), meccanismo (auto)assolutorio e mitigatorio che rischia di annullare ogni capacità (auto)indagatoria e riflessiva (nonché espiatoria) da parte del colpevole e pregiudica la possibilità, da parte della vittima, di elaborare il dolore e arrivare ad un salvifico (soprattutto per sé) perdono. Oltre che porsi in attesa della giustizia dei Tribunali, senza meditarne di propria.
Colpisce, invece, la capacità del pubblico di immedesimarsi facilmente con chi commette un reato (come passare volontariamente con il rosso), percepito come una leggerezza e non come una azione volontaria irresponsabile, per lo meno nel senso weberiano del termine, inteso come “etica della responsabilità” (quella di chi non spara in aria per responsabilità percepita del rischio di ferire qualcuno).
Invece sembra che la tendenza attuale sia quella di alleggerire il carico di colpevolezza e responsabilità in relazione alla diffusione di certi comportamenti/atteggiamenti (pensiamo a quanto sia leggera, nella nostra società, la sanzione morale collettiva per chi evade le tasse, un atteggiamento più spesso premiato che condannato). Un meccanismo che, seguendo lo psicologo Albert Bandura, potremmo definire di «disimpegno morale», una sorta di disattivazione del controllo morale con cui ci si mette al riparo da sentimenti di svalutazione associati ad una condotta immorale, attraverso una serie di meccanismi, tra cui la diffusione di responsabilità («tanto lo fanno tutti!»), la distorsione delle conseguenze («di certo chi passa con il rosso non vuole uccidere nessuno») o la colpevolizzazione della vittima («se lo meritava, se l’è cercata»). Un atteggiamento che, per chi subisce un atto prevaricatorio, vessatorio, discriminatorio o violento si tramuta in un carico psicologico insopportabile.
A tutto ciò si associa il fatto che, nell’epoca del legami deboli, delle centinaia di “amici” virtuali e della sottigliezza dei legami autentici, di fronte alle grandi tragedie che colpiscono l’individuo si è irrimediabilmente soli, nonostante la compattazione roboante delle comunità virtuali. Infatti, prima di arrivare ad uccidere l’omicida della moglie, il marito aveva avuto grandi manifestazioni di solidarietà e appoggio, fiaccolate, pagine in suo sostegno sorte sui social, salvo, poi, scoprirsi completamente solo di fronte alla gestione della sua personale tragedia finita in vendetta, quest’ultima scaturita dalla sua personale percezione di essere vittima di un’ingiustizia che mai avrebbe avuto riscatto.
Il riferimento mentale corre subito all’altro grave caso di cronaca italiano, quello relativo al massacro del povero Luca Varani da parte di Foffo e Prato, i cui genitori, a poche ore dal tragico evento si lasciavano andare, da Vespa l’uno e sul proprio blog on line l’altro, a dichiarazioni autoassolutorie, mettendosi, di fatto, sullo stesso piano delle vittime («questa tragedia che ha colpito la mia famiglia»), senza un minimo accenno alla propria responsabilità di genitori di due giovani assassini.
Ed è per questo che in occasione del Convegno, l’avvocato Gianmarco Cesari, (in qualità presidente dell’Osservatorio Vittime e avvocato della Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada), ha denunciato l’inadempienza dello Stato alla direttiva europea 29/2012 per l’assistenza psicologica extraprocessuale e per la violazione dell’articolo 10 per la partecipazione al processo penale, ovvero del diritto di essere sentiti e di fornire elementi di prova anche in assenza di costituzione di parte civile.
Anche se, diciamocelo, prima che dallo Stato, si dovrebbe iniziare a recuperare nella società civile un senso di responsabilità diffuso e la volontà di (ri)costruzione di una morale collettiva condivisa, base fondamentale per il rispetto di norme collettive. Se questo non accadrà, nell’epoca delle risposte private a disfunzioni sociali (come scrivono i sociologi), vendetta e giustizia rischieranno di diventare, per lo meno nel senso comune, sinonimi.

Fonte: ribalta.info

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