La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 marzo 2017

Il "gomblotto" dell'€uro

di Mauro Gallegati
Dal gennaio 2001 gli italiani vivono nella zona euro. L'euro è un disegno basato sulle virtù del libero mercato. Subito circondato da una giustificata perplessità - le banche centrali, vere vestali dell'ortodossia economica, utilizzano (fino al 2009) per le loro analisi un modello che non contempla l'esistenza di banche - la moneta unica ha boccheggiato fino ad oggi. Secondo gli economisti, un'area valutaria ottimale è quella in cui i paesi sono sufficientemente simili da poter condividere una moneta comune. L'Europa non lo è, come del resto l'Italia o gli Stati Uniti: questi hanno una moneta solo perché sono politicamente uniti. Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento usati per riequilibrare i conti con l'estero: i tassi di interesse e il cambio. Senza queste leve si è costretti ad "intervenire" su deficit/debito pubblico e salari.
Peggio: se l'euro resta una costruzione incompleta – senza la gamba fiscale – allora sarà la valuta (il marco tedesco) più forte ad imporsi. Senza riforme si è adottato il marco, non l'euro, e ciò ha obbligato i paesi più poveri, quelli con produttività più bassa, alla deflazione interna, cioè a salari più bassi. Le politiche di austerità fiscale hanno poi ridotto ancor più la domanda interna.
Uscire dall'euro – senza rinominare tutto il debito pubblico in "nuove lire" – sarà per l'Italia operazione assai costosa. La svalutazione competitiva rilancerà - si dice dagli anti-euro – la produzione e l'occupazione – trascurando di ricordare che svalutando il paese diventa più povero e che gli effetti positivi sono limitati a pochi anni. E poi dovremo svalutare di nuovo. Il problema vero è che, come anni di studi e quintali di dati dimostrano, se la produttività non aumenta anche il reddito non aumenta. E la produttività non è influenzata dalla moneta e dalle svalutazioni, ma dalle innovazioni, dalla spesa in ricerca e sviluppo. Non dalla sovranità monetaria – altrimenti il PIL della Repubblica delle Banane sarebbe altissimo. Ma l'euro come lo conosciamo oggi è destinato a morire. Se lo si vuole salvare, occorre accompagnare la moneta unica a riforme fiscali condivise da tutti (secondo il modello Stati Uniti d'Europa) o come primo passo, introdurre un euro a 3 velocità: Germania e i paesi che ruotano attorno ad essa, i PIGS – con la Francia che deciderà se essere l'ultima dei primi o la prima degli ultimi – e i paesi ex-socialisti.
L'euro è nato da un progetto politico, ma la politica non è stata capace di completarlo attuando quelle riforme strutturali da implementare perché la zona euro funzioni. Quando è stato introdotto l'euro, la politica si è illusa che sarebbe stato sufficiente che i paesi soddisfacessero soltanto certi criteri di convergenza. Non dobbiamo poi dimenticare che l'euro è stato realizzato in anni di euforia iconoclasta del fondamentalismo del mercato: una visione secondo la quale i mercati si riequilibrano da soli e sono efficienti, basta togliere l'impiccio del governo e fare in modo che la banca centrale si concentri solo sull'inflazione. Questa visione ha prodotto un costo sociale assai rilevante. Si è aderito a un'unione monetaria in modo fideistico: sapendo, certo, che l'Europa è un arcipelago di economie diverse, abbiamo aderito nell'illusoria speranza che ciò avrebbe provocato un'accelerazione della politica e che le economie si sarebbero auto-organizzate.
Si è creduto che i mercati avrebbero aggiustato le cose. Le economie si sono effettivamente adattate - aggiustando le bilance dei pagamenti - ma verso il basso: la competitività si è ottenuta deflazionando i salari e non aumentando la produttività. L'economia avrebbe fatto da battistrada alla politica: all'Unione monetaria sarebbe seguita quella politica. Ma le differenze strutturali tra i paesi europei sono così forti da impedire un'unione monetaria se non si realizza un'unità politica. Si sapeva bene che avere una moneta più forte rispetto alla lira avrebbe comportato vantaggi (ad esempio tassi di interesse più bassi) e svantaggi (come la rinuncia alla cosiddetta svalutazione competitiva). Le imprese erano abituate alla svalutazione e questo permetteva l'aumento della competitività, della ripresa economica che avrebbe potuto creare posti di lavoro: invece di aumentare la produttività, le imprese hanno cercato di risparmiare sul costo del lavoro attraverso contratti di lavoro flessibile/precario, o direttamente sul salario. Inoltre, l'austerità fiscale non ha impedito la crisi, semmai l'ha aggravata riducendo il moltiplicatore (attraverso la redistribuzione del reddito a favore dei ricchi) e la spesa autonoma.
Serve un cambiamento della politica dell'Eurozona se si vuole che l'euro e la stessa EU possano sopravvivere. Una diversa politica con almeno quattro novità strutturali:
- un sistema bancario unico per l'Europa, con assicurazione dei depositi;
- la mutualizzazione del debito (eurobond, Banca centrale europea che si indebita e presta denaro agli Stati);
- un ministero del Tesoro degli Stati Uniti d'Europa, che possa disporre di un budget e possa indebitarsi, ove necessario, emettendo eurobond, che la Bce possa sottoscrivere;
- l'abbandono di criteri di stabilità (deficit e debito in rapporto al Pil).
Missione quasi impossibile ma indispensabile proprio ora che la crisi spinge gli stati all'autarchia mentre il "climate change "e la globalizzazione superano l'idea stessa di sovranità nazionale.

Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore 

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