La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 31 marzo 2017

L’urgenza di un reddito minimo dentro la quarta rivoluzione industriale

di Mariano Di Palma
Punto 0. Tra Marx e Platone nel tempo che cambia.
Quando, nel Secondo Volume dei Grundrisse, Karl Marx scrisse «se la macchina durasse in eterno, se non fosse fatta essa stesa di materiale caduco che deve essere riprodotto […] corrisponderebbe nel modo più compiuto al suo concetto» anticipava ampiamente il nodo di fondo rappresentato dalla quarta rivoluzione industriale. Marx aveva previsto, senza ancora conoscerne l’esistenza, il valore economico dei DATA, del sapere sociale diffuso incarnato nelle piattaforme, in poche parole: la tendenza alla costruzione della macchina produttiva che sta cambiando le regole del gioco per come le abbiamo conosciute negli ultimi decenni. Il visionario di Treviri guardava al punto più avanzato dell’evoluzione capitalistica, senza mai però perdere due capi saldi per leggere le possibili trasformazioni: la riorganizzazione del processo di lavoro e i progressi scientifici.
Se con Marx facciamo questo sforzo di lettura delle trasformazioni indotte dalla quarta rivoluzione industriale, partendo da queste due polarità, troveremo alcune chiavi di volta utili a leggere il presente. L’irrompere dell’evento (la cosiddetta rivoluzione industriale appunto) non dobbiamo però ridurlo ad un’unica causa, ad un solo fattore. Non è col processo della reductio ad un unum - laddove l’unum è il lavoro per come l’abbiamo conosciuto e analizzato dal Novecento ad oggi – che scioglieremo il bandolo della matassa che abbiamo dinanzi. L’evento, per usare l’ultimo Platone, è il molteplice: dove per molteplice intendiamo proprio l’intreccio di più elementi singoli, ma in relazione indissolubile tra di loro. E quindi se gettiamo con coraggio l’occhio dentro la trasformazione di questo tempo, capiremo meglio il cambio di paradigma della produzione industriale, l’ingresso delle piattaforme e delle diverse economie della condivisione, lo scambio di relazioni umane, il mutamento delle città, le innovazioni di sistema. Quello che abbiamo di fronte dunque non è semplicemente la mercificazione di App dal valore di migliaia di miliardi di dollari nel “libero” mercato degli oligopoli. E’ in atto una trasformazione: produttiva, sociale, relazionale.
Punto 1. Robotica, automazione e lavoro
Secondo lo studio della fondazione Deloitte nei prossimi anni perderemo circa il 35% dei mestieri; altri studi arrivano a prevedere addirittura che questa percentuale salga al 47% entro il 2025. Questi mestieri saranno sostituiti dai processi di robotizzazione e automazione. E’ giunta l’epoca, che ci è stata raccontata per tanti anni come fantascienza nella storia cinematografica, della transizione dal lavoro umano al lavoro robotico. Ciò non vorrà dire assolutamente la scomparsa del lavoro, ma l’apertura di nuove frontiere dello sfruttamento della produzione e della riproduzione sociale.
Pertanto il lavoro non è più un diritto, una garanzia o uno strumento di accesso al welfare statale - come del resto lo abbiamo conosciuto nelle dichiarazioni costituzionali europee del Novecento - ma rischia di diventare unicamente uno strumento di controllo sociale e di atomizzazione dei legami tra persone. Il cambio di paradigma è talmente radicale da intaccare tutti i modi di produzione: dalla solida economia industriale fino alla sharing economy. Questo intreccio di sviluppo di nuovi modelli produttivi cambierà radicalmente la produzione per come l’abbiamo conosciuta. Perfino a partire dai materiali: già ora il mercato mette a disposizione una vasta gamma di materiali più leggeri, resistenti, riciclabili e versatili destinati a cambiare la storia di alcuni settori produttivi; per non parlare degli strumenti cosiddetti “intelligenti”, ovvero che si puliscono e si riparano autonomamente; per finire ai metalli dotati di memoria capaci di trasformare la pressione in energia. Un esempio di questi è il grafene - potente conduttore di calore ed elettricità appartenente alla famiglia dei nanomateriali – che è 200 volte più resistente dell’acciaio e 1 milione di volte più sottile di un capello. Quando il grafene diventerà competitivo dal punto di vista economico – attualmente è uno dei materiali più costosi al mondo - cambierà volto radicalmente il settore manifatturiero e delle infrastrutture. E questo è solo uno dei tanti esempi di materiali che possono cambiare la storia della produzione industriale.
Se la produzione di nuovi materiali dovesse sostituire quella che abbiamo conosciuto tra l’Ottocento e il Novecento (che è stata la ragione della costruzione dei quartieri industriali di tante periferie metropolitane) si compierebbe una rivoluzione anche urbanistica imprevedibile, destinata ancora una volta a modificare gli scenari cittadini conosciuti. Questo non vale però solo per le grandi industrie: il settore della ristorazione ad esempio è invaso da meccanismi di automazione che riducono fortemente la quantità della manodopera a disposizione. L’esempio più lampante sta nel comportamento di MacDonald che in America ha reagito all’innalzamento del salario minimo nel settore della ristorazione, attuato dall’amministrazione Obama, con l’applicazione del suddetto, ma con riduzione del personale sostituendolo con i robot. Il caso americano si è già allargato a macchia di leopardo in tutta Europa, perfino nel nostro paese. In Giappone una società di assicurazione ha licenziato 35 operai, sostituendoli con un sistema informatico. La quarta rivoluzione industriale rischia di essere la prima che invece di implementare l’occupazione, la comprimerà.
Il messaggio è chiaro: l’automazione è già pronta a sostituire il lavoro umano e lo sostituirà nel momento in cui il lavoro robotico costerà meno di quello dell’uomo. É del resto noto che Google investa gran parte dei suoi capitali in sviluppo tecnologico e intelligenza artificiali con risultati straordinari di anno in anno. Per la Federazione Internazionale della Robotica sono circa 1,1 milioni i robot impiegati in attività lavorative e ognuno di essi è capace già di svolgere l’80% dei processi che servono per realizzare un’auto. Per non parlare dello sviluppo delle stampe digitali: l’analisi del US Department of Health and Human Services prevede che le stampanti tridimensionali potrebbero produrre entro il 2025 non solo oggetti ma addirittura organi; la cosiddetta «biostampa» potrebbe addirittura interagire con la salute dell’uomo negli interventi chirurgici (la stampa in 3D di stecchi, impianti, viti gessi per una protesi ad esempio). Klaus Schwab, presidente del World Economic Forum, e quindi non proprio un ribelle visionario, già dice - nel suo ultimo testo sulla quarta rivoluzione industriale - che la messa a lavoro dei robot produrrà benefici per la filiera produttiva e la logistica, riducendo di gran lunga gli errori umani presenti nella produzione.
La rivoluzione del XXI secolo non consiste tanto nell’invenzione di cose nuove, ma nell’avere reso intelligenti i vecchi oggetti. Cambia finanche il rapporto tra macchina e uomo. In diversi frangenti della produzione industriale, nella catena di montaggio delle automobili, ogni componente ha un codice a barre: quello che fanno gli esseri umani è ordinato da un algoritmo di un computer. Paul Mason nel suo testo PostCapitalism usa come esempio quello del motore a reazione degli aerei (un valore di mercato di circa 21 miliardi di dollari l’anno). Non è un esempio a caso, poiché nel settore industriale è stato una delle chiavi dello sviluppo dell’industria postbellica ed è la dimostrazione di come i processi di automazione stiano profondamente cambiando il modo di produrre: l’efficienza della turboventola che per cinquant’anni è stata approssimativamente attorno allo 0,5%, oggi arriva grazie all’informatica, quasi al 65% di efficienza e grazie alle scoperte ingegneristiche sui materiali nel 2035 è previsto, tramite l’invenzione di un motore in grado di autoraffeddarsi, di arrivare al 100% dell’efficienza. Le prove da carico di un motore dei nuovi aerei può essere effettuata fino a 186 milioni di volte grazie ad un super computer; neanche quindici anni fa le prove da carico dovevano essere effettuate ancora tramite modelli a grandezza naturale disegnati su seta per riuscire a fare al massimo dodici prove di carico. L’intelligenza artificiale è già la realtà che supera la fantasia.
L’automazione non è quindi soltanto l’ingresso a piene mani della tecnologia nella vita umana a 360°, ma è il rapporto tra quest’ultima, la ricerca e l’intelligenza artificiale. La sostituzione del lavoro umano con quello robotico non sapremo quando avverrà o se sarà totale, ma certamente produrrà una riduzione di posti di lavoro enorme. Questo può determinare scenari apocalittici (aumento della forbice delle diseguaglianze ad esempio) o potrà liberare molto più tempo per gli esseri umani che non saranno più sottoposti alla gran parte dei lavori usuranti. Alla luce di questi sviluppi, la cooperazione torna ad essere il centro della riflessione su cui ricostruire una nuova ottica dell’interpretazione del lavoro umano. Siamo di fronte a un cambiamento radicale e graduale assieme. Graduale perché l’inserimento dentro la valorizzazione capitalistica di nuovi modelli di economia e produzione non sta avvenendo con uno shock; radicale perché il cambiamento delle strutture produttive e sociali è netto e profondo a partire dalla vita dei singoli individui.
Questo potrà avvenire se e solo se si distribuiranno equamente le ricchezze provenienti dall’automazione, tramite il reddito minimo. Se non sarà così saremo costretti ad essere gettati in un nuovo Medioevo, fatto di regnanti e sudditi, un mondo in cui gli esseri umani saranno schiavi senza lavoro. La sfida invece non può che essere quella del riconoscimento di un valore collettivo della robotica che non può appartenere soltanto a chi la possiede, ma che deve tornare ad essere patrimonio di una gestione collettivista. La lotta per il reddito è di nuovo contro la proprietà privata dei mezzi di produzione. La sfida risiede, non solo nel migliorare le proprie condizioni di vita, ma - ancora una volta nella storia - nel provare a detenere collettivamente i mezzi di produzione di marxiana memoria.
Punto 2. Finanza, piattaforme, economie della condivisione
Se proviamo a dare uno sguardo con attenzione ai cambiamenti vedremo da una parte la digitalizzazione e l’automazione dei modi di produzione e dall’altra parte nuove forme di mercato e di lavoro: dalle accelerazioni digitali per le multinazionali in grado di costruire veri e propri mercati virtuali, alle App capaci di facilitare l’accesso a servizi nella pubblica amministrazione o di migliorare la qualità della vita e dell’accesso ai servizi in città. Abbiamo a che fare con sistemi di produzione fisici e virtuali che interagiscono in maniera flessibile, rendendo possibile la personalizzazione dei prodotti e la realizzazione di nuovi modelli operativi. Tutto questo con una diffusione capillare in giro per il mondo sempre più veloce. Il fuso ha necessitato di quasi 120 anni per essere conosciuto al di là dell’Europa. Internet ha impiegato meno di dieci anni per diffondersi in tutto il pianeta. Ovviamente questo non vuol dire un accesso egualitario: la disponibilità delle tecnologie e delle innovazioni è ancora inaccessibile. Il 17% degli abitanti della Terra non dispone di un accesso alla corrente elettrica e dunque non ha ancora vissuto a pieno gli effetti della seconda rivoluzione industriale. Metà della popolazione non possiede una connessione internet.
La rivoluzione che abbiamo di fronte è tutt’altro che una rivoluzione dei modi di produzione tipicamente industriali. L’ingresso di nuove frontiere economiche è un dato di fatto: Google, Fb, Amazon, Ebay sono solo alcuni dei colossi digitali più quotati in borsa. La rivoluzione digitale è uno dei capisaldi dell’economia finanziaria di questo decennio e dei prossimi. La capacità di queste piattaforme è quella di mettere a valore gli scambi relazionali, di mettere in comunicazione persone ed opinioni, ma soprattutto di produrre DATA. L’immagazzinamento di informazioni è il petrolio dello sviluppo delle multinazionali delle piattaforme digitali. Tutto questo è avvenuto grazie ad un furto, ad una sottrazione di valore, a delle nuove enclosures (proprio come a metà del Settecento) create ad hoc. I DATA che dovrebbero essere una proprietà comune perché provengono unicamente dallo scambio relazionale, sono proprietà di Google, Facebook ed altre multinazionali dell’industria digitale. Queste ultime, che hanno l’unico merito di mettere a disposizione luoghi di scambio virtuali, diventano i proprietari di infiniti dettagli della vita umana su cui si organizzano ed orientano strategie di consumo e di produzione. Più che acquisire informazioni, queste le requisiscono e diventano strumento di mercanzia per altri colossi multinazionali. Il ruolo delle piattaforme taglia tutti i settori dell’economia, perfino quello monetario: i BitCoin rappresentano uno dei mondi in espansione della valorizzazione economica tramite lo scambio monetario digitale. Le valute digitali si fondano su un sistema di fiducia definito blockchain. Attualmente il valore dei BitCoin è pari a circa 80 trilioni di dollari, circa lo 0,025% del Pil mondiale.
La sharing economy riguarda la capacità dei soggetti di condividere un servizio grazie alla tecnologia, con un livello di efficienza impensabile fino a qualche anno fa. La condivisione di beni e servizi avviene tramite mercati digitali, applicazioni e servizi di localizzazione mobili o piattaforme online.
Le caratteristiche e i tratti distintivi che contraddistinguono questo modello economico sono basati sul concetto di accesso anziché sul concetto di proprietà: la possibilità cioè di fornire un servizio peer to peer tramite la condivisione di beni personali. Tuttavia dietro questa parole si nasconde tutt’altro ed è bene distinguere per non confondere. Le quotazioni in borsa di colossi delle piattaforme digitali come Airbnb o Uber consegnano già uno spaccato di valorizzazione finanziaria di questi settori. Sono le piattaforme dal valore finanziario tra i 30 miliardi (Airbnb) e i 50 miliardi (Uber) che mettono in crisi gli albergatori di tutto il mondo e i tassisti di mezzo Occidente: rompono i mercati e i settori di lavoro estremamente conservatori, scambiando servizi tramite una piattaforma che mette in relazione domanda ed offerta. Entrambe le piattaforme raccontano di come, in un breve lasso di tempo, da una parte hanno facilitato la qualità di accesso ai servizi nelle città, dall’altra, hanno anche costruito rapporti di lavoro assolutamente neofeudali: l’essere per forza gentili, cortesi e con «l’alito fresco e pulito» se si vuole inserire la propria auto nelle piattaforme di Uber, il rischio diretto per chi mette la propria casa in affitto per Airbnb senza alcun rischio di impresa per la piattaforma, ma solo per il proprietario della casa. Dietro questi processi si nascondono nuove forme di sfruttamento. È il caso del mondo della logistica che lavora per Amazon, dei riders di Foodora a Milano.
Qui non vi è in realtà alcuna economia della condivisione. Altro che sharing: il rischio è tutto schiacciato sulle spalle dei lavoratori, che investono sul proprio mezzo, sul proprio smartphone e sul proprio tempo. Dietro la parola “condivisione” si nascondono diverse forme sia di innovazione che di sfruttamento. Il lavoro “just in time” richiede sempre di più velocità e quindi deve prevedere una intensificazione del lavoro vivo residuale. Sono forme che contraddicono dunque lo stesso principio della sharing economy. E difatti parliamo in questi casi di gig economy: l’uso della tecnologia per intensificare lavori ad intermittenza che nulla hanno a che fare con la condivisione o l’accesso a servizi, beni o saperi, ma solo funzionali a rendere più efficiente l’impresa e la sua offerta.
Quello che le marxiste hanno chiamato nel secolo scorso riproduzione sociale - e che per secoli è rimasta come un valore economico marginale dentro i paradigmi dell’accumulazione capitalistica - con l’ingresso delle diverse economie della condivisione si riposiziona per diventare uno degli elementi centrali del presente. Ciò che è stato definito per una vita, attinente alla riproduzione individuale (per lo più la “fatica” femminile) e che invece ha sempre conservato un altissimo valore sociale, ora entra dentro al mercato a gamba tesa: non più solo i lavori di cura, ma la propria macchina, la propria casa, le proprie conoscenze, l’interazione e lo scambio dentro le città sono i nuovi modi per generare valore economico, tramite le piattaforme.
Il capitale, insomma, ha di fronte a sé una nuova e straordinaria occasione di accumulazione di risorse e di generare diseguaglianze. Lo fa impadronendosi di quelle innovazioni digitali, trasformandole in monopoli ed in oligopoli. Il capitalismo finanziario compra le piattaforme, le gioca in borsa, le trasforma in oggetto di nuova speculazione. Tuttavia questo fenomeno va ben oltre la valorizzazione finanziaria. Stando al recente rapporto della Commissione Europea, in un anno Apple, Google, Amazon, Twitter, Facebook e Ebay hanno versato al Fisco italiano soltanto nove milioni di euro, a fronte di un mercato e-commerce, in cui sono egemoni, che vale più di 11 miliardi.
Proprio per questo al Parlamento Europeo è stata depositata una legge sulla tassazione europea delle piattaforme. Quelle risorse, quelle tasse sono la fiscalità generale sufficiente e necessaria per finanziare un reddito minimo europeo, per sottrarre tutte le ricchezze finanziarie accumulate dalla gestione dei nostri dati, delle nostre relazioni, dei nostri desideri e bisogni.
Anche in Italia si potrebbe puntare ad una tassa sull’industria digitale che eviti l’evasione. Del resto non è il benessere della semplificazione e della facilitazione nell’accesso a beni o servizi, che avviene grazie agli scambi sulle piattaforme di condivisione, che può essere barattato con la sottrazione di ricchezze miliardarie a favore dell’1% che detiene il potere finanziario.
Punto 3. I makers, i coworkers, gli innovatori, le rigenerazione, i commons, l’economia della collaborazione.
La quarta rivoluzione industriale non ridefinisce solo il mondo del lavoro e della sua produzione, ma riguarda anche il concetto di beni, proprietà e relazioni. Ha a che fare non solo con la gestione dei Data, delle proprietà intellettuali anche queste da tempo rappresentano la cassaforte e il potere dei colossi digitali che fanno libera vendita di dati personali, interessi, desideri di ognuno. Se da una parte infatti abbiamo posto lo sguardo in alto, rivolto ai diversi cambiamenti tecnologici, la società produce in basso nuove relazioni che diventano profitto per pochi. C’è però un mondo che guarda ai processi di innovazione sociale lontano dalla logica del profitto, capace di creare modelli cooperativi, di nuovo welfare sui territori. Sono le migliaia di coworking, di fab lab, di cohousing che si fondano sullo scambio di competenze, che tentano di costruire sui territori modelli di economia circolare. L’Italia e l’Europa sono disseminate di esperienze di innovazione sociale.
Dalla Puglia a metropoli come Milano, dalle esperienze di rigenerazione berlinese, agli spazi riutilizzati a Budapest, al lavoro degli educatori, capaci di costruire reti, pratiche che sono un pezzo di nuova relazione. Anche qui la galassia è frastagliata e questi mondi sono pieni di contraddizioni, ma è innegabile quanto sui territori educatori non formali, rigeneratori urbani, spazi di collaborazione stiano cambiando un pezzo di cultura del lavoro in senso innovativo. Dentro questo nuovo paradigma si tratta di individuare le trasformazioni in atto nel basso. Dall’alto avvengono le grandi trasformazioni industriali, nel basso le innovazioni sociali; un mix trasformativo che può diventare un’occasione. Così la pensa Paul Mason che, in maniera forse un po’ profetica, ci dice che i mutamenti dell’alto e del basso possono strutturalmente mettere in crisi questa ennesima trasformazione del capitalismo. Le innovazioni sono pulviscolari, ma dappertutto. É una rivoluzione industriale che mette al centro l’intelligenza viva e relazionale, la semplificazione dell’accesso ai servizi e ai saperi. Sono potenzialità difficilmente recintabili e che possono aprire conflitti e cambiamenti nuovi a partire dal basso, dalla capacità di mettere in rete le comunità e gli innovatori. I nuovi lavoratori/cooperatori di quei mondi, i creativi, i ricercatori, gli inventori possono rompere gli oligopoli di cui si sta impadronendo la finanza. Si tratta di condurre una battaglia per forme di welfare dirette ed indirette capace di garantire dignità oltre un lavoro salariato sempre più sotto attacco dalle mutazioni del liberismo. C’è tanta innovazione e trasformazione dislocata nei territori in giro per il nostro continente: piccole pratiche di scambio, nuove politiche di governance dei beni comuni, le pratiche di riuso dei beni confiscati alle mafie, straordinarie esperienze di rigenerazione urbana che stanno cambiando forma ai quartieri più impensabili, creando lavoro, sottraendo potere ai costruttori, ai corrotti e ai mafiosi. C’è tanta energia viva disposta fuori dalle piattaforme, ugualmente innovativa, capace di cambiare la direzione dello sviluppo dei territori.
Punto 4. Il reddito dentro la quarta rivoluzione industriale
La quarta rivoluzione industriale ha fatto il suo ingresso in questo tempo. Come ogni cambiamento strutturale avrà le sue contraddizioni, le aspettative che disattenderà, le invenzioni che ancora non prevediamo. Certo di fronte ad un cambiamento così generale il capitalismo tenterà la sua ennesima mutazione, costruendo un nuovo processo di accumulazione. Le letture rispetto a questo sono differenti: da chi ci dice, come Paul Mason in PostCapitalism, che il sistema capitalistico non può reggere l’urto di una economia fondata sulla relazione, la cooperazione e la condivisione. Altri sostengono che la rivoluzione industriale alle porte allocherà le risorse sempre più in mano di pochi, aumentando diseguaglianze e forme autoritarie di controllo sociale. È su questa linea che si giocano le polarità esposte. Certamente la transizione a questo nuovo modello fondato sull’automazione, la robotica e l’economia della condivisione, porterà a ridefinire il terreno del conflitto. Innanzitutto questo si disporrà non più semplicemente attorno alla difesa del lavoro e dei suoi diritti, ma attorno alla liberazione del tempo di vita e alla proprietà dei mezzi di produzione. Non si tratterà di battersi per un articolo 18 ai robot, ma per distribuire le ricchezze e il valore prodotto da queste macchine. Non si tratterà di battersi per la difesa della privacy, ma per aver riconosciuto il valore e la proprietà comune dei DATA accumulati dalle piattaforme.
Occorre che il reddito minimo sia il riconoscimento non più solo della vita messa a valore e a lavoro, ma del prodotto collettivo che le innovazioni rappresentano. La rivoluzione che abbiamo di fronte non è il prodotto di singoli che “inventano”, ma della relazione tra singoli capaci di creare nuovo valore economico. É in quello spazio comune frutto della condivisione e del valore capitalizzato dalle piattaforme digitali che nasce una nuova ricchezza da distribuire. É in virtù di questo spazio in comune che bisogna riconoscere un reddito a tutte e tutti. In questo senso il reddito minimo è la madre delle battaglie per una nuova uguaglianza, per sottrarsi al monopolio capitalistico sulle vite di miliardi di donne e di uomini.

Fonte: bin-italia.org 

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