La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 24 dicembre 2015

La Spagna ingovernabile

di Carlos Heras Rodriguez
E no, come già sapeva chiunque avesse visto qualche sondaggio nell’ultimo anno, Podemos non ha vinto le elezioni. E comunque il Regime bipartitico, o del ’78, è ancora e in ogni appuntamento elettorale più ferito e fa più fatica a funzionare. Per la prima volta nel periodo democratico, giorni dopo le elezioni parlamentari non si sa chi sarà presidente del governo e compaiono soltanto due opzioni risolutive: la gran coalizione PP-PSOE in diversi formati possibili oppure nuove elezioni.
I risultati
Dalle elezioni del 20D non viene fuori un vincitore chiaro, neanche un partito nazionale del tutto sconfitto. Il PP, al governo, è stato il partito più votato con il 28,72% dei suffragi e 123 seggi su 350. Considerando i casi di corruzioni scoperti durante la legislatura e la gestione antisociale della crisi sembra una gran vittoria, ma al contempo rispetto al 2011 ha perso il 15,9% di voti totali e ha preso 53 seggi in meno. La buona notizia per il PSOE è invece essere ancora vivo.
Per loro la sconfitta assoluta sarebbe stata la perdita della seconda posizione in termini di voti e seggi, per essere superati da Ciudadanos – opzione che sembrava possibile due settimane fa – oppure da Podemos, ipotesi considerata molto probabile verso la fine della campagna elettorale. La candidatura di Pedro Sánchez è giunta seconda con 1,35 punti percentuali di vantaggio su Podemos e resta sulla carta la forza egemonica dello spazio politico della sinistra. Ha preso il 22,01% dei voti e 90 seggi, 20 meno rispetto al 2011 e la metà dei voti rispetto al 2008, ultimo governo Zapatero. Nel 2008, PP e PSOE presero insieme l’83,81% dei voti. Il 20D hanno avuto il 50,73%.
Per Podemos è andata bene, ma una vittoria chiara sarebbe stata di arrivare a essere la seconda forza politica del paese. È mancato poco, ma non è successo. Il che non vuol dire che non siano percepiti come quelli più favoriti dalla nuova situazione. Un partito che non esisteva due anni fa è arrivato al 20,66% dei voti e ha preso 69 seggi, grazie sopratutto alle coalizioni più larghe in Catalogna – con un insieme di partiti e figure indipendenti identico a quello che ha reso sindaca Ada Colau –, Galizia e Paese Valenciano (in entrambe le regioni è seconda forza). Podemos, da solo, è seconda forza anche nei Paesi Baschi (dietro ai nazionalisti) e a Madrid (dietro al PP). La difesa del referendum per l’autodeterminazione in Catalogna, sia a Barcellona che a Madrid, è stata fondamentale nel tentativo di costruzione plurinazionale, ed è mio avviso una delle scommesse più coraggiose dell’organizzazione di Pablo Iglesias. Per dare un’idea di quanto sul piano simbolico si vada alla ricerca di una diversa identità di paese, Íñigo Errejón, numero 2 del partito nato a Madrid, ha fatto la metà del suo intervento nel comizio di chiusura della campagna elettorale a Valencia in catalano.
Ciudadanos – autodenominatosi il cambio tranquillo, detto “il ricambio” da Pablo Iglesias e assimilato a un partito di destra, eventuale appoggio del PP durante la campagna elettorale – è passato dalla contesa per il secondo posto secondo i sondaggi, all’arrivare quarto con 40 seggi e il 13,93% dei suffragi. Dopo una campagna pessima, la sua prima reazione politica è stata attribuire la colpa alla legge elettorale (che sovrarappresenta le province rurali e sottorappresenta i partiti minori sul piano statale) e chiedere al PSOE di agevolare un governo del PP. Comunque passa dal non avere rappresentanza in parlamento nel 2011, a diventare un gruppo rilevante della politica statale.
Per finire, Izquierda Unida – ex PCE – perde quasi la metà dei voti ma riesce a sopravvivere, anche se soltanto con il 3,67% e due seggi (questa circostanza sì derivata dalla legge elettorale). Leitmotiv di analisi per niente politiche nei primi giorni successivi a domenica è stato segnalare che la somma dei suoi voti e di quelli di Podemos avrebbe configurato una forza in grado di competere per il governo, dimenticando però che si parla di politica e non di aritmetica.
Lo scenario postelettorale
La conseguenza immediata della composizione parlamentare descritta – a cui si devono aggiungere nazionalisti e indipendentisti baschi, che totalizzano 25 seggi – è che nessuna delle coalizioni “naturali” riesce ad avvicinarsi abbastanza alla maggioranza assoluta per scegliere un presidente e ancora meno per produrre un governo stabile.
La coalizione conservatrice di PP+Ciudadanos arriva soltanto a 163 seggi, dodici in meno del necessario. Per due forze che hanno fatto della difesa dell’unità territoriale della Spagna e la negazione del diritto di autodeterminazione la colonna vertebrale del loro discorso politico degli ultimi tempi, sembra difficile un accordo con le forze indipendentiste periferiche.
La coalizione “di sinistra” – e il risorgere del fantasma della sinistra sembra essere un altro doloroso leitmotiv degli analisti più miopi –, cioè PSOE+Podemos+IU, è ancora più lontana, con 161 seggi. Né al PSOE né a Podemos interessa un patto di tale natura, e anche un accordo tra PSOE e nazionalisti sembra quasi impossibile.
Allora, sembra che l’unica opzione stabile sia un patto di qualunque natura tra PP e PSOE, con due possibili declinazioni: a) un candidato alternativo a Mariano Rajoy, sempre del PP; b) una riforma parziale della costituzione, su cui è inutile soffermarsi molto nel paese che ha prodotto Il Gattopardo.
Ancora una volta: ricomposizione o rottura
L’offerta di riforma costituzionale, nella forma del “patto di stato” tra PP, PSOE e probabilmente Ciudadanos, è stata già anticipata dal giornaleEl País. Per dirla in termini semplici, sarebbe da parte del PP un modo per offrire abbastanza al PSOE, così come per agevolare la formazione del governo. Il pacco potrebbe includere poltrone istituzionali come la presidenza del Congresso per i socialdemocratici e Ciudadanos. Sarebbe un patto da cui dovrebbero restare fuori sia Podemos che le forze indipendentiste, se i primi non sono assimilati. Uno scenario di questo tipo sembra l’unica possibilità per formare un governo relativamente stabile e un progetto di futuro per le élite del paese, incluse quelle politiche.
Un secondo scenario è la formazione di un governo di minoranza del PP, agevolato dall’astensione di PSOE e Ciudadanos (che si dà già per sicura), ma senza un patto di stabilità basato su un progetto della portata di un cambiamento costituzionale. Le valutazioni più ottimiste sulla durata di una legislatura di questo tipo sono di due anni. L’unica ragione che può avere il PSOE per praticare l’harakiri in qualsiasi delle forme descritte sopra è che in ipotetiche elezioni successive potrebbe perdere ancora di più.
Altra possibilità, quasi scartata, sarebbe il patto di sinistra PSOE+Podemos+IU+qualche indipendentista. Sembra un suicidio per Podemos e i dirigenti del PSOE – sopratutto quelli regionali con più potere –, che non vogliono accordarsi “con forze in favore dall’indipendenza o l’autodeterminazione dei popoli della Spagna” (sic). Podemos, dal canto suo, ha posto come condizioni irrinunciabili per agevolare un governo una riforma costituzionale per garantire i diritti sociali – come, ancora nessuno lo sa –, prevenire la politica della corruzione, stabilire la possibilità di referendum di revoca della presidenza, riformare il sistema elettorale per renderlo più proporzionale (anche Podemos è rimasto sottorappresentato, per quanto meno di Ciudadanos e sopratutto Izquierda Unida) e trovare “un nuovo accordo territoriale” basato sul riconoscimento della plurinazionalità dello stato tramite la celebrazione del referendum catalano. In particolare questa condizione non sarà mai accettata dal PSOE, per cui sembra chiaro che l’obiettivo di Podemos è arrivare a nuove elezioni al più presto.
Finora, il sistema-Regime del ’78 non è riuscito a risolvere né la crisi legata alla corruzione del paese (soprattutto del Partito Popolare), né la crisi economica, né la crisi territoriale con l’indipendenza della Catalogna. Il formato del patto di stato sarebbe un tentativo di risolvere, in parte, le prime due: la prima attraverso il rafforzamento istituzionale e qualche misura cosmetica; la seconda con lo scenario di stabilità e il contenimento dei numeri macroeconomici. Il problema territoriale – la Catalogna – si potrebbe risolvere, così, o con un accordo tra élite catalane e spagnole alla ricerca di un nuovo patto fiscale, o con una strategia confronto diretto. Sembra, insomma, che sul medio periodo nemmeno questa via di uscita sarà funzionale, e probabilmente potrebbe aprire un nuovo ciclo di contestazione sociale.
L’altra possibilità è certificare l’ingovernabilità e andare a nuove elezioni. In quel caso, il PP sarebbe uno dei beneficiati, dopo aver provato a formare governo e non riuscendoci, nonostante sia stata la forza più votata. In uno scenario di polarizzazione e voto utile recupererebbe sicuramente molti voti di Ciudadanos. L’altro beneficiato sarebbe Podemos, che emerge come la più chiara forza di opposizione all’austerity e al PP e, se riesce a costruire spazi più larghi sul piano statale così come in Catalogna, potrebbe addirittura contendere il primo posto nelle eventuali elezioni di primavera. Così si farebbero dei passi ulteriori verso la rottura del sistema politico spagnolo e, nel migliore dei casi, verso un cambiamento nel rapporto di forze con l’Unione Europea.

PS: Catalogna
Non bisogna dimenticare che la Catalogna è ancora uno dei punti critici del sistema politico spagnolo. La crisi territoriale e il dibattito sull’indipendenza non è per niente chiusa. Le elezioni del 27 settembre, convocate come plebiscitarie dopo il divieto del referendum, non sono state risolutive, lasciando una maggioranza reale ma non sufficiente in favore dell’indipendenza. Tre mesi dopo non c’è presidente della Generalitat, cioè del governo regionale. Domenica la CUP, un partito assembleare, indipendentista e anticapitalista decide in assemblea nazionale se eleggerà presidente Artur Mas, testa di Convergencia, partito della borghesia catalana e responsabile della corruzione generalizzata scoperta negli ultimi mesi. Junts pel Si – “lista-paese”, che metteva insieme questo partito, la sinistra indipendentista di ERC e figure delle organizzazioni civili pro-indipendenza – si è rifiutato di promuovere un candidato alternativo come chiedeva la CUP come condizione minima per formare il governo e iniziare un processo verso l’indipendenza, ma in cambio offre significative concessioni programmatiche in termini di politiche sociali e passi verso l’indipendenza. Se non agevolano la presidenza di Mas, ci saranno elezioni a marzo. Forse sarà uno dei due appuntamenti col voto nella primavera del 2016.
Nel frattempo, En Comù Podem è diventato la prima forza il 20D con quasi nove punti percentuali di vantaggio su ERC, con Ada Colau in veste di star assoluta della campagna in tutta la Spagna, mentre il PP diventa una forza residuale in Catalogna con l’11% dei suffragi.
Sembra che sia il momento di ripetere ancora la vecchia massima maoista: “grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente”.

Fonte: commonware.org

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