La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 15 gennaio 2016

Il lupo cattivo? Somiglia a Togliatti

di Fabrizio Scrivano
La cultura popolare è da sempre affollata di storie favolose e improbabili, che però riescono non tanto a essere davvero credute e prese per vere ma ad orientare e giustificare altre scelte che non avrebbero alcuna giustificazione. A dirla tutta, questa dinamica non riguarda solo le credenze popolari. Infatti, più in generale, non c’è come una credenza sciocca e infondata a rendere sicura una persona. Il motivo per cui ci si affida alle fiabe non è, però, la facile credulità.
Come ci si potrebbero riempire testa e coscienza di frottole e poi condurre una vita normale e sensata? Certamente è vero che le favole aiutano a produrre quei meccanismi di autoillusione che mettono al riparo dalla delusione e che proteggono anche dalla compagnia della paura. Tuttavia non è per faciloneria che si aderisce al racconto mendace.
Si pensa, invece, magari del tutto inconsciamente, che se qualcuno si è dato la pena di creare una fiaba, una leggenda, una favola – la si chiami come si preferisce – un motivo più importante della verità debba esserci; un motivo che serva ad affermare un principio, un valore, e spesso un potere che li controlli e custodisca. Alla gente piace raccontare le cose per apologhi, e preferisce in genere che le cose siano narrate nello loro forma simbolica o metaforica.
Come si spiegherebbe, altrimenti, la fiducia che da sempre l’umanità investe nei sogni, fossero segni e presagi o solo immagini della mente? Le fiabe e le favole, si pensa, contengono un simile messaggio o significato occulto, esigono un’interpretazione e anche se si sbaglia tutto nel farla, esse mantengono intatte la loro funzione di guida.
Questo è ciò che accadeva in altre epoche. Ai tempi in cui la fiaba e il sogno rimanevano legati al campo della narrazione, cioè nell’area letteraria del racconto e dell’elaborazione verbale dell’immagine. Forse prima dell’invenzione della comunicazione di massa e prima della società dell’informazione. Perché quando la favola entra in questi circuiti, cambiano le modalità con cui la favola collabora con la verità e con l’opinione.
Il libro di Stefano Pivato, Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda (Il Mulino, pp. 188, euro 19) sembra per lo più indagare in questo territorio sufficientemente ibrido, in cui cioè la favola, intesa come retaggio e strumento di trasmissione di una sapienza antica, non è più favola ma è convertita e contaminata negli strumenti e nelle modalità della comunicazione.
Più precisamente l’autore, uno storico che ha dedicato numerosi studi alla cultura di massa (il turismo, la canzone, la politica e anche un soggetto ben più insolito, cioè la rumorosità della civiltà moderna) sceglie il terreno della propaganda politica e focalizza preferibilmente gli anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della televisione.
Le fonti e il materiale sono assai vari. Si va dalla satira politica alla cronaca sportiva, dalla falsa notizia dei giornali alla circolazione orale delle leggende, e naturalmente, come indica il titolo del saggio, alla riutilizzazione in ambito politico della fiaba.
La stessa eterogeneità dei materiali presi in analisi fa pensare al fatto che nel contesto della propaganda politica, i cui spazi sono definiti dai mezzi e dai luoghi della propaganda, la riutilizzazione spregiudicata di narrazioni e figure tratte da altri contesti non va troppo per il sottile: ogni storia e ogni personaggio può essere arruolato nell’agone politico.
L’importante è che la contesa del voto, che passa anche per la formazione della coscienza e dal sistema di aspettative, si appropri delle immagini e delle parole che sono presenti e circolano tra le persone da convincere. Il messaggio politico vuole inglobare ciò che sta già nella testa delle persone e piegarlo ai significati che vuole veicolare. Senza esagerare, si può dire che la comunicazione politica ruba e vandalizza la memoria di ciascuno, la memoria di tutti, a fini elettorali.
Ecco perché Pivato può raggruppare ricerche che apparentemente sembrano definire diversi argomenti e contesti. Le immagini familiari dell’orco o dell’uomo nero, come a ricreare un terrore irrazionale; la competizione sportiva tra Bartali e Coppi, declinata in una sfida senza alcuna correttezza tra i simboli della famiglia; la riutilizzazione spietata delle Avventure di Pinocchio da parte della propaganda fascista e democristiana, ma anche la revisione in Chiodino della figura dell’automa nelle pagine del Pioniere, la rivista per bambini di ispirazione comunista diretta da Gianni Rodari; la fomentazione di leggende metropolitane createsi sulla distorsione di altre storie, come l’abbeverarsi dei cavalli cosacchi a San Pietro, ripresa dal quel grande canzonatore che fu Giovannino Guareschi; la creazione di miti sociali, come la pedagogia felice nell’Unione sovietica e, al rovescio, la terribile menzogna dei comunisti mangia bambini.
Tutte situazioni ricostruite con precisione nel loro prodursi e diffondersi in un’Italia apparentemente ingenua, infantile, istruita con superficialità. E si può dire, infine, imbrigliata in una grande contraddizione. Quella di essere obbligata ad ascoltare ciò di cui è sempre desiderosa: le favole.

Fonte: il manifesto 

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