La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 15 gennaio 2016

L’eredità sociale di David Bowie

di Enrico Cerrini e Raffaele Pavoni 
Al contrario di altri cantanti a lui contemporanei, David Bowie non è mai stato schierato politicamente. Sempre parco nel parlare della sua vita, ha osservato la società con distacco poetico. Per quanto ci è lecito sapere, non apprezzava le dittature, come testimoniato dal concept album “Diamond Dogs”, dichiaratamente ispirato all’opera “1984” di George Orwell. Qui troviamo una delle sue canzoni più belle: “Rebel Rebel”, simbolo di ribellione contro qualsiasi imposizione.
You want more and you want it fast
They put you down, they say I’m wrong
You tacky thing, you put them on
Rebel Rebel, you’ve torn your dress
Rebel Rebel, your face is a mess
Rebel Rebel, how could they know?
Hot tramp, I love you so!
Se l’eredità politica di David Bowie è scarna, non possiamo dimenticarci della sua pervasiva influenza sociale. Il suo spirito trasgressivo ha incrinato mortalmente i canoni dominanti dell’Inghilterra degli anni ’70, anche se non rappresentava la mera espressione di un giovane di Brixton ma la fusione delle tre città simbolo della cultura underground. Come in un triangolo immaginario, il suo personaggio contiene il meglio delle influenze che, nascendo dal vertice di Londra, si espansero fino alle basi di New York e Berlino.
Londra
In quegli anni, l’Inghilterra, come la maggior parte delle nazioni occidentali, viveva la crisi della produzione di massa. I lavoratori si sentivano oppressi dalla vita di fabbrica, chiedevano nuovi diritti e scatenavano la rivolta nelle loro industrie. Questa contrapposizione si collocava nell’ambito classico della guerra fredda, in cui la lotta operaia si espandeva ai movimenti studenteschi di protesta contro l’imperialismo a stelle e strisce, il quale mostrava il lato più oscuro con la guerra in Vietnam. In questo scenario si collocavano sia le tendenze pacifiste dei Beatles che la rabbia nichilistica dei Rolling Stones, le quali caratterizzarono il decennio precedente.
La politicizzazione della vita quotidiana, la natura dello scontro sociale visto come lotta tra operai e padroni o tra imperialismo e resistenza, lasciava priva di rappresentanza una larga parte della popolazione che non si sentiva parte di nessun lato della barricata. Se pensiamo poi che la vita privata era dominata da un bigottismo esasperato e che la proposta alternativa delle aziende era quella del consumismo sregolato, il quale prometteva la risoluzione di tutti i problemi grazie al continuo acquisto di nuovi prodotti, possiamo comprendere come la società londinese sedesse su una polveriera pronta scoppiare.
I giovani si sentivano isolati perché percepivano quella società come poco adatta ai loro bisogni esistenziali. Non potevano distinguersi dagli altri perché i beni prodotti dalle aziende erano standardizzati o privi di significato, non potevano parlare di sé in pubblico perché il dibattito era impregnato di ideologia politica, non potevano comportarsi come volevano a causa della rigida morale cristiana. La musica rappresentava l’unico spazio d’intimità possibile.
In questa crepa si è inserito David Bowie, il quale ha interpretato quel sentimento di alienazione rispetto agli schemi precostituiti. Negli anni ’70, l’immaginario di un gruppo rock poteva esprimersi al massimo con dei capelli lunghi, o con un abito dai colori sgargianti. Bowie fu il primo a creare dei personaggi complessi, con uno storytelling, figure che indicassero un’alternativa di vita rispetto al canone dominante, esprimendo tutto il disagio esistenziale rispetto a quella struttura sociale. Quello che scandalizzava era il suo modo di porsi, diverso da tutto quello che i benpensanti ritenevano come la distinzione più chiara: quella tra il maschio e la femmina. Il suo personaggio di riferimento era un astronauta androgino che volava nello spazio sulle note di “Space Oddity”, spaesato e sperduto, come i ragazzi londinesi.
“This is Major Tom to Ground Control
I’m stepping through the door
And I’m floating in the most peculiar way
And the stars look very different today
For here am I sitting in my tin can
Far above the world
Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do”
I personaggi creati da David Bowie non si limitavano ad esibirsi sul palco ma cercavano di accompagnare la propria audience per il maggior tempo possibile. Fin dai primi anni ’70 una delle tecniche comunicative di maggior rilievo dell’artista londinese fu rappresentata dalle cover dei suoi album. Alcune di queste sono ormai entrate nell’immaginario rock, ma ai tempi erano qualcosa che dovevi nascondere dai genitori, che guardavi e riguardavi, che mettevi in connessione con i più coinvolgenti passi delle canzoni, e spesso tutto ciò che ti era dato conoscere dell’immaginario visivo del ragazzo di Brixton era lì, non avevi altro, ed era potente.
New York
Nel 1971 scrisse una canzone intitolata “Andy Warhol”, in cui offriva una caricatura dell’artista newyorchese, padre fondatore della pop-art. Pochi mesi dopo lo incontrò nella città americana, in quel laboratorio artistico chiamato factory. La factory rappresentava una grande parodia della fabbrica, dove, anziché produrre beni di consumo standardizzati, si producevano oggetti d’arte in serie. Rappresentava la critica più esplicita al consumismo imperante e si traduceva come un atto di satira verso i dogmi dettati da qualsiasi tipo di dittatura. Warhol decostruiva i miti politici e commerciali perché, stampandoli su innumerevoli tele, li svuotava del loro contenuto. Crollavano tutti coloro che imponevano ai giovani come vestirsi, cosa mangiare, quale dottrina politica seguire, di quale canone di bellezza innamorarsi.
Andy Warhol looks a scream
Hang him on my wall
Andy Warhol, Silver Screen
Can’t tell them apart at all
Ma l’artista newyorchese era anche un uomo di marketing che aveva intuito la possibilità di creare effimeri miti commerciali, che potessero essere esaltati prima di essere gettati via in nome del consumismo. Grazie al suo sguardo critico, aveva perfettamente compreso il funzionamento della società dei consumi. David Bowie apprese la lezione del fondatore della pop-art e, tornato a Londra, dette vita al suo personaggio più famoso: Ziggy Stardust. L’essere androgino non era più un astronauta, ma un alieno che arrivava sulla Terra per scandalizzare il pubblico benpensante con atteggiamenti provocatori e componendo una musica sublime. Si palesava un pop-rock tragico che raccontava l’ascesa e la caduta del suo personaggio, come testimoniato dalla struggente ballata di “Rock ‘n Roll Suicide”.
You’re too old to lose it, too young to choose it
And the clocks waits so patiently on your song
You walk past a cafe but you don’t eat when you’ve lived too long
Oh, no, no, no, you’re a rock ‘n’ roll suicide.
All’apice del successo mondiale, l’artista londinese uccise il suo personaggio, annunciandone il ritiro dalle scene. La lezione di Warhol era ormai interiorizzata, Ziggy Stardust doveva morire per far posto ad un altro personaggio, da utilizzare e gettare nel culmine della sua vita. A metà degli anni ’70, prima che Londra venisse sopraffatta dal movimento punk, il quale nasceva dalle stesse istanze cavalcate dal nostro artista, David Bowie si trasferì a Berlino.
Berlino
La Berlino degli anni ’70 non era solo la città del muro, ma anche un centro creativo dove ilKrautrock si stava facendo spazio mischiando rock e musica elettronica. Grazie a migliori politiche sindacali e redistributive, i giovani tedeschi non hanno vissuto le stesse scene di ribellione di massa dei loro coetanei britannici. Questo accadde perché il disorientamento dei giovani non proveniva dalla contrapposizione ideologica, ma da quella tra l’uomo e la macchina. Malgrado numerosi tentativi sindacali di migliorare la condizione operaia, i lavoratori rimasero suddivisi tra sommersi e salvati. I salvati erano rappresentanti dagli operai più istruiti che avevano funzioni di supervisione e riparazione, mentre i sommersi, per la maggior parte immigrati turchi, da coloro che venivano assorbiti dalla catena di montaggio.
Questa contraddizione colpiva l’opinione pubblica e il mondo artistico. Si formò quindi un genere di musica che si incuneava nella concezione dell’operaio macchina, nell’uso della tecnologia che tramuta lentamente l’uomo in robot. Il genere dette vita a suoni che non sembrano appartenere all’uomo, ma alla macchina. David Bowie si inserì in questo contesto cooperando con Brian Eno, profondo conoscitore della musica elettronica. Gli album della trilogia berlinese sono inquietanti nella loro semplicità e nel loro stile ancora più distaccato. Se a Londra il disagio esistenziale si mostrava come un alieno, a Berlino scaturiva da una società che non sapeva più cos’è umano e cos’è una macchina, come emerge in “Sons of the silent age”.
Sons of the silent age
Stand on platforms
blank looks and note books
Sit in back rows
of city limits
Lay in bed coming
and going on easy terms
Sons of the silent age
Pace their rooms
like a cell’s dimensions
Rise for a year or two
then make war
Search through their one inch thoughts
Then decide it couldn’t be done
La leggenda
Dopo il periodo berlinese, la carriera di David Bowie ha raggiunto il culmine della popolarità a metà degli anni ’80, quando la nascita di MTV impose agli artisti un’immagine multimediale che andasse al di là del semplice concerto. Grazie alle sue precedenti sperimentazioni visive, il ragazzo di Brixton fu tra i pochissimi divi dei decenni precedenti a cavalcare l’onda dei video musicali. Sebbene in questo periodo abbia assunto un’immagine meno provocatrice, il suo scontro con i canoni dominanti è continuato per tutta la sua carriera ed è riemerso con forza negli ultimi due album.
Se la sua immagine si manifestava come potente e trasgressiva quando la società era impregnata di perbenismo e di scarse informazioni, questa scompare nell’era di internet. Gli ultimi due album sono infatti gli unici in cui non compare il volto dell’artista: la cover di “The Next Day”, è particolarmente emblematica perché cancella la sua stessa icona. Le ultime fatiche di David Bowie sembrano affermare che nell’era dell’information overload, in cui abbiamo accesso ad un archivio potenzialmente infinito di fonti iconografiche, l’unico atto rivoluzionario possibile è quello di nascondersi, sfuggire, rendersi misterioso.
David Bowie è stato quindi l’artista che più di ogni altro ha saputo interpretare i problemi che emergevano dai differenti scenari sociali con cui ha avuto a che fare. Ha saputo comprendere le necessità delle giovani generazioni, ed esprimerne continuamente il disagio, sia che questo fosse dettato dall’assenza dell’individuo, dal consumismo, dall’oppressione tecnologica o dall’eccessivo afflusso di informazioni. 

Fonte: Pandora Rivista di Teoria e politica 

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